Due film molto “etnici” spiccano in questo gruppo ancora una volta eterogeneo, entrambi con attori non professionisti. Il primo mostra una realtà pressoché sconosciuta con tratti sarcastici, personaggi e situazioni peculiari che in alcuni momenti ricordano Kusturica … ma siamo nelle aree desertiche kazake. L’altro è un film recentissimo, disponibile anche in Italia su Netflix da pochi mesi, che cala gli spettatori nel mondo giovanile di Monterrey (Messico) fra musica latina alternativa, look quasi USA e narcos.
Tulpan (Sergei Dvortsevoy, Kaz, 2008)
Come anticipato, questo è “etnico” al
100% in quanto l’intera storia ruota attorno ad una piccola famiglia dedita
alla pastorizia, che vive isolata nel semideserto in una iurta (la classica
grande tenda utilizzata anche dai mongoli e kirghisi). Mostrando le attività di
routine, diventa quasi un documentario ma allo stesso tempo mette in luce i
tormenti di Asa (il protagonista cognato del capofamiglia) che vorrebbe avere
un gregge per sé e trovare moglie, in particolare ambisce alla mano di Tulpan,
praticamente l’unica ragazza nel raggio di chilometri. Ci sono anche altri
personaggi interessanti come i genitori di Tulpan, il veterinario che arriva in
sidecar con un giovane cammello al lato e Beke, amico di Asa che si sposta nel
deserto su un piccolo trattore suonando Rivers of Babylon a tutto volume.
Notevoli i tre bambini: il maggiore recita a memoria le notizie del giorno al padre
che non le ha potute ascoltare, la ragazzina canta quasi ininterrottamente a squarciagola,
il piccolo corre all’impazzata sul suo cavallo di legno (un bastone). Grazie
anche all’ambiente esotico (affascinante), le riprese risultano molto piacevoli
e curate, con tanta camera a mano; non a caso Tulpan ottenne la Nomination
alla Golden Camera a Cannes, dove comunque ricevette 3 Premi. La qualità è
ulteriormente confermata dal 93% di recensioni positive (su 71) in
RottenTomatoes.
Ya no estoy aqui (Fernando Frias, Mex, 2019)
E questo è l’altro film che mi ha sorpreso, sia per l’argomento che per l’ambiente e la tecnica cinematografica. Il primo è soprattutto la solitudine e l’emarginazione alle quali alcuni giovani si oppongono creando gruppi con interessi comuni (in questo caso la musica) e riuscendo così a restare fuori dal giro della droga; la situazione si complica quando il protagonista sarà obbligato a lasciare Monterrey per andare clandestinamente a New York dove si troverà ancor più isolato. L’ambiente è prima quello dei quartieri disagiati di una grande città del nord del Messico, controllata dai cartelli della droga, fra costruzioni non completate e strade malandate, e poi fra gli immigrati (regolari e non) che si arrabattano nella Grande Mela, non solo latini ma anche asiatici. Infine la tecnica, non solo le riprese sono apprezzabili, ma anche i costumi e le acconciature dei protagonisti focalizzano l’attenzione, e la cumbia rebajada (variante nata proprio a Monterrey dell’omonimo classico ritmo latino, suonata volutamente più lentamente) che viene utilizzata come colonna sonora senza mai divenire invadente, anche quando i ragazzi ballano per strada o sui tetti. Visione molto interessante, consigliata.
Essendomi dilungato, sarò più conciso
in merito a questi altri 3 film, buoni nei rispettivi generi, ma al di sotto
delle mie aspettative.
Wild River (Elia Kazan, USA, 1960)
Apprezzo il regista e ho voluto guardare anche questo suo film del quale non avevo mai sentito parlare. Storia abbastanza banale con un po’ di razzismo miscelato con una guerra di resistenza nei confronti dell’autorità (e del progresso). Montgomery Clift è ancor meno convincente del solito (in effetti l’ho apprezzato solo in Un posto al sole (1951, di George Stevens) e in Da qui all’eternità (1953, di Fred Zinneman), occasioni nelle quali fu candidato all’Oscar. Del resto del cast si salva solo Jo Van Fleet (Oscar non protagonista in La valle dell’Eden, 1956) che ben interpreta l’ostinata anziana ribelle, pur avendo all’epoca solo 45 anni. Pessime le luci, sempre sparate sui volti dei protagonisti anche in luoghi chiusi, senza luce e all’imbrunire. Secondo me un passo falso del pur bravo Kazan.
The Grandmaster (Kar-Wai Wong, HK, 2013)
Certamente non il migliore di Kar-Wai
Wong (regista di In the Mood for Love), la buona fotografia della
quale avevo letto e che mi ha indotto a guardarlo in fin dei conti non è
migliore di tanti altri film del genere. La storia si dipana lentamente, fra
tanti primi piani di esperti di arti marziali che filosofeggiano a modo loro (dialoghi
veramente banali) intervallati da combattimenti impossibili mostrati alternando
primi piani di mani, scarpe e volti con salti, voli e colpi, velocissimi e poi
rallentati. Scene viste e riviste … spesso montate molto meglio. Noioso e in sostanza
evitabile.
The Wicker Man (Robin Hardy, UK, 1973)
Avevo trovato un dvd con uguale titolo ma poi scoprii che si trattava di un remake del 2006 con Nicholas Cage protagonista e un “ottimo” 3,7 su IMDb. Al contrario l’originale del 1973 vanta 7,5 sullo stesso sito ed è considerato un cult tanto che nel 2013 ne è stata proposta una nuova versione restaurata ed allungata con titolo The Wicker Man - Final Cut (100% su RT). Da segnalare che, checché ne dica IMDb, non lo definirei horror ma solo mistery/thriller in quanto si svolge su una piccola isola inglese abitata da una comunità di folli pagani governata da tale Lord Summerisle, interpretato da Christopher Lee. L’attore noto per i suoi film veramente horror, apprezzò tanto il progetto che si mise a disposizione gratuitamente e successivamente dichiarò che quello fu uno dei suoi migliori ruoli. Interessante la suspense, ma soprattutto i costumi della festa, per lo più rappresentanti animali; per il resto senza infamia e senza lode.
#cinema #cinegiovis
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