giovedì 31 marzo 2022

Microrec. 91-95: film del 2021, mediamente più che buoni ma poco conosciuti

Fra essi c’è un candidato Oscar (di animazione) unanimemente lodato eppure poco preso in considerazione, il più recente film di Sean Baker (quello di Tangerine e The Florida Project) e una commedia drammatica culinaria in costume ambientata in piena Rivoluzione Francese, ma le vere rarità sono un film indiano con rating altissimo e uno indonesiano da non disprezzare assolutamente!

 
Maanaadu (Venkat Prabhu, 2021, Ind)

Grandissimo successo di critica e di pubblico (8,8 su IMDb, il budget di produzione fu coperto con gli incassi dei soli primi 4 giorni) per questo film girato in lingua Tamil e non nei più comuni idiomi Hindi o Bengali. Colonna sonora galoppante che richiama i ritmi bollywoodiani (ma c’è una sola coreografia all’inizio) e che risulta perfetta per il montaggio rapido di questa thriller politico che ruota attorno ad un time loop quasi senza fine. Prima il protagonista e poi il suo antagonista si rendono conto della situazione e dopo un po’ anche di come cercare di controllarla. Il ciclo temporale viene riavvolto decine di volte riprendendo sempre da momenti diversi, con uno che tenta di impedire un attentato e l’altro che deve contrastarlo per portare a termine il progetto criminale. Qui e là sono inseriti vari combattimenti in stile kung fu, frequenti ralenti e inseguimenti. Non mancano le sorprese sia nel campo dei veri ruoli dei vari personaggi, sia in quello degli avvenimenti apparentemente fortuiti. Con stile, recitazione e ambiente tipicamente indiani moderni Maanaadu risulta una piacevole e mai noiosa commedia d’azione che non ha nulla da invidiare ai blockbuster occidentali, senz’altro consigliata.

The Mitchells vs the Machines (Michael Rianda, Jeff Rowe, 2021, USA)

Vari siti lo davano come possibile outsider per l’Oscar, ma alla fine Disney ha prevalso su questa produzione Sony, già pronta nel 2020 ma poi distribuita da Netflix solo nel 2021 (sembra non sia mai arrivata in sala in Europa). Classica famiglia americana da cartoon, padre sovrappeso che pensa di sapere tutto, madre saggia che fa il possibile per sanare gli inevitabili dissidi, due figli con le loro passioni e i problemi dell’età, l’immancabile cane (strabico). La palese satira (al di là delle solite convenzioni sociali) si focalizza soprattutto sull’iper-connettività e quindi con i problemi derivanti dall’uso di laptop, cellulari, wi-fi, YouTube, Instagram, AI e via discorrendo ma sottolinea anche quanto siano indispensabili i cacciavite a stella! Uno dei quei cartoon che strizzano l’occhio anche agli adulti, specialmente quelli che, volenti o nolenti, utilizzano quotidianamente le reti e si trovano ad affrontare i più disparati problemi nei momenti meno opportuni. Consigliato, di gran lunga più gradevole e arguto di Encanto (Oscar 2022).

  
Red Rocket (Sean Baker, 2021, USA)

Questo regista newyorkese propone ancora una volta protagonisti e situazioni familiari / sociali particolari. Fermo restando che degli ultimi tre suoi film (quelli generalmente molto apprezzati) il migliore e certamente più sorprendente è Tangerine (2013, girato con iPhone5), in questo propone personaggi poco convenzionali anche se ben diversi dai trans protagonisti del suddetto. Dopo anni di assenza, una star del porno torna in Texas e chiede ospitalità a sua moglie, che vive con la madre. In realtà è un povero diavolo senza un soldo (inizialmente molto mal accolto dalle due donne) che cerca di rimettersi in sesto con molta buona volontà, in parte ci riesce ma gli imprevisti sono dietro l’angolo. Anche gli altri comprimari sono personaggi molto particolari eppure credibili, dalla famiglia di spacciatori, ai finti veterani, ai falsi puritani, … questa è America! Tutti ben descritti, guardando (ascoltando) la versione originale si apprezzano anche i vari modi di parlare che gli stessi protagonisti sottolineano prendendo in giro l’attore che ha acquisito l’accento californiano, per non parlare dello slang degli afroamericani. Non all’altezza dei precedenti (l’altro è The Florida Project, 2017, Nomination Oscar per Willem Dafoe) ma senz’altro interessante, ben scritto e diretto da Sean Baker.

Photocopier (Wregas Bhanuteja, 2021, Idn)

Primo film indonesiano che vedo … piacevole sorpresa per modernità della storia (applicabile a quasi qualunque paese occidentale) per come è girato e per come è interpretato. Dopo una serie di corti presentati e premiati anche a Cannes, Berlino e al Sundance, questo è stato il primo lungometraggio di questo regista sceneggiatore non ancora trentenne nato e formatosi a Jakarta. In breve, la storia tratta della ricerca della verità da parte di una universitaria che perdita la borsa di studio a causa di sue foto apparse online mentre è palesemente ubriaca. In un paese nel quale l’alcool è per lo più ufficialmente bandito, il fatto viene considerato un disonore per la facoltà e anche per la famiglia. Ma chi l’ha fatta ubriacare e perché? Riuscirà a scoprire i colpevoli e a farli condannare? Affronta così temi quali maschilismo e potere economico, religione, posizione sociale e prevaricazione della polizia. Interessante film drammatico-investigativo (quasi crime) che apre una finestra sull’Indonesia moderna non turistica.

Délicieux (Éric Besnard, 2021, Fra)

Storia molto campata in aria, poco credibile eppure piacevole da seguire se ci si concentra solo sulla scenografia, i costumi, gli utensili da cucina e la preparazione di dolci e pietanze. E sì, perché, come si può intuire dal titolo, il tema centrale è il cibo. Bella fotografia che spesso rimanda alla pittura classica delle nature morte e delle cucine ben fornite.

lunedì 28 marzo 2022

Microrec. 86-90 del 2022: film di generi molto diversi, quasi tutti di livello più che buono

Gruppo misto con due documentari particolari, un biopic artistico, un ottimo classico americano sostanzialmente romantico e un interessantissimo esordio di una regista indiana (di nascita).

 
Amu (Shonali Bose, 2005, Ind/USA)

Interessante sorpresa questo film scritto e diretto da Shonali Bose; si tratta del suo esordio alla regia, con sceneggiatura tratta da un suo proprio romanzo. Interessante il contesto che non solo mette a confronto life style americana e indiana, ma nell’ambito di quest’ultima anche le grandi differenze sociali alternando scene in ricchissime magioni a quelle negli slums. Ma c’è di più … riporta all’attenzione generale i terribili moti di Delhi del 1984 (noti come massacro dei Sikh) successivi all’assassinio di Indira Gandhi. La protagonista è una giovane indiana adottata e trasferitasi negli USA all’età di 3 anni e ora, appena laureata, decisa a sapere di più in merito ai luoghi e l’ambiente nei quali aveva passato i suoi primi anni di vita.

Love Affair (Leo McCarey, 1939, USA)

Film di successo interpretato da Irene Dunne e Charles Boyer, che vide un remake diretto dallo stesso regista nel 1957 (con Deborah Kerr e Cary Grant), un altro del ’94 (con Annette Bening e Warren Beatty, un flop) e altri due adattamenti prodotti in India. Film romantico, pieno di buoni sentimenti e di ottimismo (nonostante varie disavventure), a tratti quasi strappalacrime ma anche con un certo senso dell’umorismo, specialmente nelle caratterizzazioni dei personaggi di contorno. Un film classico di fine anni ’30, ben diretto e ottimamente interpretato … attori di altri tempi. Le 6 Nomination Oscar (miglior film, Irene Dunne protagonista, Maria Ouspenskaya non protagonista, sceneggiatura originale, scenografia e canzone) dimostrano la sua qualità, anche se alla fine non ottenne nessuna statuetta. Se piace il genere, è da non perdere.

  
The Matador (Stephen Higgins, 2008, USA/Spa)

Buon documentario su uno specifico torero, non sulla corrida in generale, diretto da un americano non di radicata tradizione taurina. Il protagonista è David Fandila, noto come El Fandi, fra i più famosi matador di questo secolo. Arriva tardi nelle arene, prima era sciatore di successo e faceva parte della nazionale giovanile spagnola. Dotato di grande volontà e ottimo atleta, debuttò a 19 anni, apprese molto velocemente le arti della tauromachia e dopo pochi anni era già fra i migliori del mondo e riuscì a entrare nella sparuta cerchia di matadores con più di 100 corride completate in un anno. Nel documentario si dà anche molto spazio alla famiglia e alla sua cuadrilla, nonché a esperti del settore e perfino quelli che vorrebbero che le corride fossero definitivamente abolite. Se si sopporta la vista di stoccate mortali e incornate, vale senz’altro la pena di guardarlo in quanto è ben realizzato e non è assolutamente una semplice glorificazione del torero.

Moulin Rouge (John Huston, 1952, UK/Fra)

Interessante biopic di Henry de Toulouse-Lautrec che rapidamente descrive un ampio arco di tempo, dall’infanzia nel castello di famiglia e l’incidente che lo rese semi-invalido, al trasferimento a Parigi dove raggiunse il successo ma con la sua vita dissoluta finì di rovinarsi la salute e fino alla morte (a soli 37 anni). Notevole l’interpretazione di José Ferrer che doveva apparire quasi come un nano, ma certamente ben lontana dalle ineguagliabili trasformazioni di Lon Chaney. Particolarmente interessante la ricostruzione dell’ambiente bohemien di Montmartre, forse con qualche esagerazione nei personaggi come la Goulue. Vinse 2 Oscar (scenografia e costumi) e ottenne altre 5 Nomination (miglior film, regia, José Ferrer protagonista e Colette Marchand non protagonista, montaggio).

Fait vivir (Oscar Ruíz Navia, 2019, Col/Can)

Documentario che segue una tournée in Colombia della Gypsy Kumbia Orchestra, una formazione artistica che, oltre ai musicisti, comprende anche ballerini, mimi e acrobati di tante nazionalità diverse. Dalla descrizione e dal trailer mi aspettavo più spettacolo, ma in realtà si perde in lunghe riprese dei componenti del gruppo e del bambino che funge da voce narrante. Interessante e piacevole per le musiche che vanno dai ritmi latini ai caratteristici fiati klezmer, abbastanza noioso per il resto.

martedì 22 marzo 2022

Microrec. 81-85 del 2022: di nuovo un gruppo incredibilmente vario

Produzioni di cinque paesi, con 90 anni fra la più datata e la più moderna (1920-2010), due diretti da pietre miliari del cinema internazionale, uno sperimentale, due commedie grottesche, ...

 
You Are Here (Daniel Cockburn, 2010, Can)

Cercando di categorizzarlo, questo film è stato definito: fiction speculativo-filosofica, fantasia borgesiana, meta-detective story, iper-creativo. Certamente sperimentale, ma molto più per la sceneggiatura (sia come costruzione che come contenuti) che per le riprese; non mancano sarcasmo e humor nero. Dopo averlo guardato (bastano anche una dozzina di minuti degli 80 complessivi) si capisce anche perché non abbia avuto diffusione non essendo assolutamente adatto al grande pubblico, ma potenzialmente gradito solo a quella nicchia di spettatori disposti cercare di comprendere per poi elaborare, senza che vengano loro fornite risposte chiare e definitive. Pur essendo così lontano dagli standard e, oserei dire, assolutamente unico, fu bene accolto dalla critica ed ebbe successo ai pochi Festival internazionale nei quali fu presentato (Locarno, Toronto). Nello sviluppo della trama quasi circolare, appaiono vari protagonisti (che non si incontrano fra) propongono assunti filosofici quasi paradossali; mentre altri personaggi, per lo più secondari, sono indirizzato in un determinato luogo ma in modo passivo. Come anticipato, si tratta di film indubitabilmente difficile da descrivere e quindi non ci provo neanche a farlo in poche righe; a chi volesse saperne di più prima di affrontarne la visione consiglio di leggere questa ricca pagina Wikipedia (solo in inglese). A me non è per niente dispiaciuto, se siete aperti alle elucubrazioni non ve lo perdete.

Within Our Gates (Oscar Micheaux, 1920, USA)

Oscar Micheaux fu il primo regista-sceneggiatore-produttore afroamericano di Hollywood; questo fu il suo secondo lungometraggio ma, considerato che il primo è andato perduto, è il più datato tuttora esistente nel genere detto Black Movie, parte dei Race Film. Nelle sue intenzioni voleva essere una risposta all’arcinoto The Birth of a Nation (1915, D.W. Griffith), mettendo in mostra le persistenti differenze fra il nord (dove emergeva la figura del "New Negro" colto e inserito nella società) e il sud dove non solo si tentava di ostacolare la scolarizzazione, ma resisteva il razzismo, anche violento, fino ai linciaggi. Quindi un film di forti contenuti sociali, ancor più apprezzabili considerata l’epoca, con un epilogo che esalta la componente afroamericana degli USA moderni ricordando esplicitamente anche i loro sacrifici per la patria. Interessante e mai esagerato resta sempre abbastanza credibile, sia inserendo fra gli afroamericani anche dei poco di buono, sia non calcando la mano sul linciaggio e tentativo di stupro, ma citando sempre i luoghi nei quali si svolgono le scene per evidenziare le enormi differenze fra nord e sud.

  
Mahapurush (The Holy Man) (Satyajit Ray, 1965, Ind)

Dopo The Chess Player, ecco un’altra commedia di Ray, regista che, però, deve la sua indiscussa fama universale a film ben più seri, spesso drammatici. In questo caso si tratta di satira abbastanza feroce nei confronti sia dei ciarlatani molto abili che si improvvisano santoni, sia agli accoliti creduloni che si fanno raggirare, in particolare quelli che hanno potere, denaro e una certa posizione sociale, ma evidentemente poca cultura. Singolare e divertente.

Buffet Froid (Bertrand Blier, 1979, Fra)

Commedia grottesca tendente al surreale che mette insieme una serie di personaggi con caratteri fra lo psicopatico e la pura follia. Il terzetto dei veri protagonisti è composto da un paio di assassini seriali e un ispettore di polizia non meno schizzato, con il quale vanno sostanzialmente d’accordo. Il personaggio del poliziotto (Bernard Blier) in più occasioni ricorda il suo omologo tenente Practice di Little Murders (1971, tit. it. Piccoli omicidi) impeccabilmente interpretato da Alan Arkin, anche regista del film. La situazione è paradossale e gli avvenimenti (non solo omicidi) si susseguono rapidamente, con vittime e personaggi secondari talvolta squilibrati tanto quanto i protagonisti. Abbastanza insolito, spesso divertente, a tratti scontato, può far passare una piacevole ora e mezza.

Tilva Ros (Nikola Lezaic, 2010, Ser)

Per completare una cinquina così particolare ho scelto questo film serbo moderno, sviluppato in un ambiente giovanile che, evidentemente, si stava già globalizzando oltre 10 anni fa. Non ho mai guardato la serie Jackass originale (alla quale i dementi protagonisti del film si ispirano) ma non capisco il motivo per il quale ne è stato fatto un film, oltretutto senza né capo né coda. Assolutamente da evitare … peggiore dell’anno.

sabato 19 marzo 2022

Microrec. 76-80 del 2022: ottimi bianco e nero, media 7,7 e 94%

Cinquina con una prima (per me) del secolo scorso e quattro film già visti di pochi anni fa (2009-2017), che senza dubbio hanno meritato le nuove visioni. Il più noto al grande pubblico, e ufficialmente acclamato, è quello in merito al quale nutro qualche riserva; gli altri probabilmente li inserirò di nuovo in cartellone fra qualche anno.

1945 (Ferenc Török, 2017, Ung)

Che bel film!!! Che bella storia, che bella fotografia (inquadrature e bianco e nero), che bel commento sonoro! Gli ungheresi vantano una solida e storica tradizione cinematografica e sanno produrre bei film, di cinematografia pura, senza dover ricorrere a grandi star né a grandi investimenti. Questo 1945 pare sia costato meno di 1,5 milioni di euro e conta su un ottimo cast di veri attori e non un fritto misto di bellocci incapaci e procaci ma insipide fanciulle. In questa breve storia che si sviluppa nelle ore diurne di un sol giorno dell’immediato dopoguerra, si assiste all’arrivo in treno di due misteriosi uomini con due grandi casse che caricano su un carretto, per poi avviarsi verso il paese dove tutto è pronto per un matrimonio. A tratti fa pensare a Bodas de sangre di García Lorca, in altri momenti a Cronaca di una morte annunciata di García Marquez. Dal momento in cui si sparge la voce dell’arrivo dei due sconosciuti, nel paese niente va più nel verso giusto. Mentre la tensione sale, si assiste a scontri violenti negli ambiti familiari, a ripicche, rimorsi, minacce e pentimenti; per la maggior parte del tempo con un occhio a sorvegliare i due uomini che seguono a piedi il carretto con le casse.  

In questo trailer HD, che consiglio di guardare a schermo intero e almeno a 720p, si può notare molto di quello che mi è piaciuto (tutto), vale a dire angoli di ripresa, montaggio, fotografia, tempi, costumi, recitazione, scenografia, storia, commento sonoro e regia. Assolutamente consigliato, da non perdere!

 

Blancanieves
(Pablo Berger, 2012, Spa)

Film di grandissimo pregio che però, purtroppo, non è riuscito ad avere una buona distribuzione, probabilmente limitato dai preconcetti che tanti hanno nei confronti del bianco e nero. Per dare un’idea del suo pregio, basti ricordare che ebbe 18 Nomination ai Premi Goya (i più importanti per i film in spagnolo) guadagnandosi ben 10 premi. Ha ottenuto altri 38 premi e oltre 50 nomination in Festival di tutto il mondo. Pochi ne avranno sentito parlare e ancor di meno avranno visto questo film spagnolo del 2012 che, similmente a The Artist (2011), è in bianco e nero e con solo commento sonoro più cartelli ma che ha ben poco a che vedere con il suo più famoso e acclamato collega. La trama, che solo vagamente segue la storia della Biancaneve dei Grimm, viene ambientata nell’Andalusia degli anni ’20 ed è infarcita di citazioni cinematografiche - p.e. Freaks (1932, Tod Browning) e Faust (1926, F. W. Murnau) - e di riferimenti ad altre favole (p.e. Pinocchio e Cenerentola). Fotografia e montaggio assolutamente superlativi, e non solo secondo me. Precisa e nitida ricostruzione di un’epoca e di alcuni ambienti sia attraverso ritratti di semplici comparse (complimenti anche a chi ha diretto il casting) sia soffermandosi su ambienti, oggetti e, ovviamente sui rituali e superstizioni legate alla corrida. Anche la colonna sonora è stata molto apprezzata ed ha conseguito numerosi premi, in particolare per la canzone originale No te puedo encontrar (Silvia Pérez Cruz, voce, Juan Gómez Chicuelo, chitarra). La trama ha vari sviluppi inaspettati, fino al termine ... e le scene di suspense in stile classico con lunghi primi piani sfociano spesso in un montaggio frenetico che non sempre descrive ciò che ci si aspetta. Anche se non fedele alla storia originale, sono presenti e ben descritti tutti gli elementi sostanziali di una favola classica: innocenza, ingenuità, bontà e coraggio avversate da perfidia, invidia, gelosia e avidità.

The White Ribbon (Michael Haneke, 2009, Ger)

Questo film confermò l’impressione che ebbi di Haneke dopo aver guardato Caché (2005): ottimo regista, tempi perfetti, belle inquadrature. Con Il nastro bianco (tit. it.) dimostra che senza dubbio tratta magnificamente anche il bianco e nero, confermando anche la capacità di gestire al meglio soggetto e sceneggiatura. La misteriosa storia viene narrata da un testimone diretto degli strani eventi che si svolsero durante l’anno precedente l’inizio della I Guerra Mondiale, in una piccola comunità rurale austriaca nella quale tutti al servizio di un Barone. Questa volta il Haneke fornisce più indizi per indirizzare lo spettatore alla ricerca di chi sia a provocare i misteriosi incidenti e chi sia l’autore di vere e proprie aggressioni. Oltretutto, non essendo palese che si tratti sempre della stessa persona, si resta liberi di pensare che gli avvenimenti non siano connessi tra loro, o che dietro tutto ciò ci sia un gruppo di persone che agiscono seguendo un preciso schema. Senz’altro ne consiglio la visione; non a caso ottenne due Nomination agli Oscar (fotografia e miglior film straniero), vinse un Golden Globe, ben 4 premi a Cannes oltre ad un’altra cinquantina di successi. Da non perdere!

 

The Artist (Michel Hazanavicius, 2011, Fra)

Come anticipato, di questo gruppo è quello con meno carattere; sembra più un omaggio ai tempi d’oro del cinema muto hollywoodiano (fine anni ’20) e al triste (per alcuni) passaggio al sonoro, che sconvolse la vita di tanti cineasti che non riuscirono ad adattarsi e riciclarsi velocemente alle nuove tecnologie. Nonostante l’Oscar, Jean Dujardin nelle vesti del protagonista George Valentin non offre una grande prova, ma probabilmente non è tutto demerito suo ma di chi ha voluto creare un personaggio con un perenne falso sorriso; il film ottenne altri 4 Oscar e 5 Nomination. Certamente più convincenti sono l’allora semisconosciuta Bérénice Bejo, il solito John Goodman e anche Uggie (il cane)! Comunque si tratta di dettagli e di opinioni personali; anche questo film merita senz’altro una visione.

Subarnarekha (Ritwik Ghatak, 1965, Ind)

Il regista (ma anche sceneggiatore e autore teatrale) Ritwik Ghatak fu uno degli elementi di spicco del Parallel Cinema indiano, movimento ispirato al neorealismo italiano che, precedendo la Nouvelle Vague francese e la Japanese New Wave, rivoluzionò gli stili e i contenuti di quella cinematografia, insieme con altri registi apprezzati in tutto il mondo a cominciare da Satyajit Ray e Mrinal Sen. I riferimenti storici e sociali in Il fiume Subarna (tit. it.) sono relativi agli anni immediatamente successivi alla divisione dell’India coloniale (1947), i rifugiati, la condizione femminile e la separazione delle caste. Ma al di là di tali temi ben trattati, ancorché superficialmente, del film si apprezzano fotografia, inquadrature e prospettive, con tanto uso di grandangoli e riprese dal basso. Quelli che pensano che la cinematografia indiana sia solo il più o meno moderno stile Bollywood, dovrebbero guardare qualcuno dei film del Parallel Cinema, per lo più in idioma bengali e non in hindu.

mercoledì 16 marzo 2022

Oscar 2022: previsioni, speranze e statistiche

Avendo avuto modo di guardare tutti i pluri-candidati e vari con singola Nomination qui riassumo le mie opinioni su tali film facendo anche riferimento alle previsioni degli esperti e ai rating ai quali sono sempre interessato. In quanto a questi ultimi, ho preso in considerazione le valutazioni riportate da IMDB (decine di migliaia di voti espressi dal pubblico) e da RT (RottenTomatoes, percentuali di recensioni positive da parte di critici professionisti). Noterete che molte volte i valori sono nettamente contrastanti come nel caso di Dune (apprezzato dal grande pubblico, meno dalla critica), al contrario di The Tragedy of Macbeth e The Lost Daughter apprezzati dalla critica, molto meno dal pubblico. Ovviamente si parla comunque di buoni film ma comunque è evidente che in generale la qualità sta scadendo se si considera che la media per IMDb risulta essere appena 7,4 e per RT 87,35% … per i possibili vincitori di Oscar (che si suppone siano i migliori al mondo) sarebbe lecito aspettarsi valutazioni migliori!

Comincio dalla testa della classifica ponderata dove inaspettatamente (per molti) si trovano due documentari, uno dei quali concorre anche nella categoria film stranieri e animazione. Flee, tuttavia, rischia di uscire a mani vuote avendo temibilissimi concorrenti (ufficialmente favoriti) in ciascuna delle 3 categorie, rispettivamente: Summer of Soul, Drive my car, Encanto. Se dovesse vincerne uno, penso (e spero) che sia per l’animazione anche perché il film della Disney non è un granché ed il tema di Flee è molto più serio e drammatico.

Seguono 3 film indubbiamente apprezzati da critica e pubblico, ma solo Drive my car per me è un vero ottimo film, ancorché apparentemente poco commerciale (per lunghezza, tema, poca azione e niente star), e spero che ottenga almeno qualche Oscar, sicuramente uno che conta visto che concorre come miglior film, miglior straniero, regia e sceneggiatura. Mi meraviglia che gli altri due (CODA e The Worst Person in the World) siano in quella posizione, il primo è un remake del francese La famille Bélier (2014) e l’altro una insulsa commedia norvegese, candidata anche per la sceneggiatura (bah!).

  
Proseguo con brevi commenti sparsi, scorrendo questa classifica che, come tutte, lascia il tempo che trova. Da un film di Spielberg, con un budget di 100 milioni di dollari, ci si aspettava di più di un remake, per molti neanche all’altezza dell’originale del 1961. Discorso simile per Dune (165 milioni) poco spettacolare, pochi buoni effetti speciali, cast non incisivo, estremamente noioso. Non vi fate ingannare dalle 10 Nomination, solo due sono importanti cioè miglior film (ma fra 10) e sceneggiatura non originale (la maggior parte del merito è del romanzo di Frank Herbert); nessuna candidatura per le interpretazioni del pur ricco cast, capitanato dal sempre più inespressivo Timothée Chalamet.

Licorice Pizza è, secondo me, fra i peggiori di questi 20 (insieme con Tick, Tick … Boom!, The Lost Daughter e The Eyes of Tammy Faye) e veramente non ne capisco i meriti che lo hanno portano ad ottenere 3 Nomination (miglior film, regia e sceneggiatura) ed a trovarsi davanti a film come The Tragedy of Macbeth (certamente troppo serio e intellettuale per il grande pubblico), The Power of the Dog (senz’altro fra i migliori, ma evidentemente poco gradito al pubblico, solo 6,9) e Belfast che sta nella mia top list e spero che sia giustamente ricompensato con più di un Oscar, visto che concorre in ben 7 categorie, per lo più importanti: miglior film, regia, sceneggiatura originale, 2 non protagonisti, sonoro e canzone. Fra i vari film poco quotati meraviglia l’insufficienza (RT 55%, unica fra i 20) per Dont’ look up, certamente commedia leggera ma almeno di attualità, con buon mirato sarcasmo in merito agli pseudo-scienziati negazionisti, conduttori televisivi saputelli e fake news; nettamente superiore ad altri film dei 20 presi in considerazione. 

In conclusione, ecco le previsioni e speranze per le due categorie principali, indubbiamente le più prestigiose, per le quali non avrei nulla da obiettare qualunque dei tre vinca; ovviamente uno potrebbe anche aggiudicarseli entrambi, ma certamente uno resterà senza.

  • Miglior film: Belfast, Drive My Car o The Power of the Dog
  • Miglior regia: Kenneth Branagh (Belfast), Jane Campion (The Power of the Dog) o Ryûsuke Hamaguchi (Drive My Car)

E passando ai film stranieri, sceneggiature ed interpretazioni:

  • Miglior film internazionale: Drive My Car (Giappone)
  • Miglior sceneggiatura originale: Belfast o Dont’ look up (improbabile)
  • Miglior sceneggiatura non originale: Drive My Car o The Power of the Dog
  • Miglior attrice protagonista: Nicole Kidman (Being the Ricardos) … poca concorrenza
  • Miglior attore protagonista: Benedict Cumberbatch (The Power of the Dog), Will Smith (King Richard) o Denzel Washington (Macbeth)
  • Miglior attrice non protagonista: Judi Dench (Belfast) o Kirsten Dunst (The Power of the Dog)
  • Miglior attore non protagonista: Ciaran Hinds (Belfast), Troy Kotsur (CODA) o Kodi Smit-McPhee (The Power of the Dog)
Di ciascuno dei succitati 20 film candidati Oscar ho scritto nei post delle precedenti settimane, quindi lì troverete maggiori dettagli.

sabato 12 marzo 2022

Microrec. 71-75 del 2022: messicani, della Epoca de Oro, di fine secolo e di pochi anni fa

Buona cinquina latina con un paio di “prime” (per me) della Epoca de Oro e tre argute comedias negras moderne che ho voluto guardare di nuovo … e non me ne sono pentito!

En el último trago (Jack Zagha Kababie, 2014, Mex) aka “Cinque tequila”

Per apprezzarlo, o quanto meno comprenderne il senso, è importante conoscere un po’ l’ambiente messicano ed in particolare la musica tradizionale del secolo scorso. I protagonisti sono degli ottuagenari (si definiscono un’anomalia in quanto hanno superato l’aspettativa media di vita) che per rispettare l’ultimo desiderio di un amico partono da Ciudad de Mexico alla volta di Dolores Hidalgo, Guanajuato, per consegnare la bozza originale del testo di una canzone scritta di proprio pugno da José Alfredo Jimenez su un tovagliolo, con tanto di autografo e dedica, al museo. Urge spendere qualche parola a proposito di questo cantautore messicano, il migliore di tutti i tempi, senz’altro il più prolifico (con oltre 1.000 canzoni, principalmente rancheras, huapangos e corridos) ed ancora oggi il più interpretato. Nella sua cittadina natale (l’incredibile nome completo e ufficiale è: Dolores Hidalgo, Cuna de la Independencia Nacional) si trova non solo il suo monumento e la sua tomba, ma anche la sua casa-museo e nell’anniversario della sua morte si tiene un importante e seguitissimo festival che comprende concorsi musicali, cinematografici, pittorici, sfilate, mariachi in giro per le cantine e tanta gastronomia. Il punto d’incontro del festival è denominato Sigo siendo el Rey (= sono sempre il Re, da El Rey) e i famosi versi tratti dalla stessa canzone No hay que llegar primero, pero hay que saber llegar (= non importa arrivare primi, ma si deve saper arrivare) è ripetuto più volte nel film in quanto attinente alla loro volontà di giungere alla meta, in un modo o nell’altro, e assolvere al loro compito. Per i gli amici del defunto il tovagliolo sul quale José Alfredo Jimenez (da loro chiamato semplicemente José Alfredo o El Maestro) era quindi una reliquia e il viaggio di poche centinaia di km, che pensavano di poter concludere in una giornata ma che si rivelerà pieno di imprevisti e più complicato e di quanto immaginassero, quasi un pellegrinaggio. Ci sono innumerevoli riferimenti alle canzoni e quasi in ogni discorso sono inserite citazioni di famosi versi (estrapolati da rancheras) che in Messico sono divenuti comuni modi di dire, quasi proverbi. Lo stesso titolo è ripreso dalla famosissima canzone omonima e oltre alle citazioni da El Rey, Camino de Guanajuato (La vida no vale nada, frase ripetuta anche in un’altra canzone che contiene anche 5 tequilas, titolo italiano) e chissà quante mi sono sfuggite. Non a caso in apertura del film è stato aggiunto Omaggio a José Alfredo Jimenez a mo’ di sottotitolo. In conclusione, è una classica comedia negra tendente al road movie, con anziani incontinenti vicini alla fine dei loro giorni, ma svegli e combattivi, che affronteranno con decisione situazioni inaspettate, si troveranno di fronte personaggi bizzarri ma assolutamente plausibili (e che fanno pensare), dalla bruja (strega) alle prostitute di un burdel e al catalan de Cataluña che va in giro a manifestare contro le corride, e metteranno in evidenza situazioni tristemente note quali la distanza fra figli e genitori anziani, traffico, case di riposo, assistenza, ecc. Tanta carne a cuocere, temi seri trattati con tagliente ironia, tante sorprese e buona musica, fanno di En el ulltimo trago un film per tutti e non solo per anziani. Non è certo la migliore commedia di sempre, ma di sicuro di gran lunga migliore e più intelligente di quelle normalmente nelle sale.

 
Por si no te vuelvo a ver (Juan Pablo Villaseñor, 1997, Mex)

Anche qui i protagonisti sono arzilli ed intraprendenti anziani (amanti della musica) che addirittura fuggono da una casa di riposo, questa volta per portare le ceneri di una ospite (ex cantante) a Tijuana, suo paese natale. Riusciranno ad esibirsi in pubblico (il loro sogno) ma si troveranno coinvolti in vari pasticci, addirittura traffico di droga. A tratti un po’ lento, ma sostanzialmente valido per mettere in risalto i problemi degli anziani scaricati dalle famiglie in centri che non sempre hanno buona cura dei propri ospiti.

Dos crímenes (Roberto Sneider, 1994, Mex)

Il protagonista di questo buon film (a metà strada fra thriller e comedia negra) è un architetto che, dopo essere stato accusato ingiustamente di omicidio fugge da Ciudad de Mexico e ripara da parenti che vivono in una enorme casa, in un piccolo paesino. Il problema è che lo zio è ricco e molto malato e i parenti che lo curano “amorevolmente” lo fanno solo per accaparrarsi la cospicua eredità e quindi vedono il cugino appena arrivato (dopo 8 anni di assenza) come un pericoloso concorrente. Alle bugie, velate minacce e perfino tentativi di omicidio si aggiungono i comportamenti delle varie donne che seducono o sono sedotte dal protagonista. La sceneggiatura è buona così come il cast, per lo più ben scelto, che oltre a Damián Alcázar comprende noti caratteristi quali Pedro Armendáriz Jr. (certamente non al livello del padre) e José Carlos Ruiz.

 
Un día de vida (Emilio Indio Fernández, 1950, Mex)

Fra i film diretti da El Indio è fra i meno conosciuti, forse per essere troppo focalizzato su un singolo avvenimento nell’ambito della rivoluzione, ma senza alcuna azione. Per certi versi può essere rapportato a Paths of Glory (Orizzonti di gloria, 1957, Stanley Kubrick, 62° miglior film di sempre su IMDb) in quanto per una pura scelta morale un colonnello viene accusato di tradimento e chi lo fa arrestare, suo malgrado, è il suo miglior amico. La storia si svolge in poche ore, prima della prevista fucilazione. In questo dramma vengono quindi messi in risalto i contrasti fra morale e regole militari, fra onore e amicizia.

Perdida (Fernando A. Rivero, 1950, Mex)

Uno dei film meno conosciuti di Ninón Sevilla, ballerina cubana interprete di tanti successi nel genere cabareteras; infatti seguirono i ben noti e apprezzati Aventurera (1950, Alberto Gout, Mex), Victimas del pecado (1951, Emilio Indio Fernández) e Sensualidad (1951, Alberto Gout). La storia alterna una serie di avvenimenti drammatici a numeri di ballo e vede la protagonista passare da una situazione all’altra, ma anche quelle che sembrano promettere bene finiranno poi abbastanza male. Qui si anticipa, ma molto in breve, una circostanza che poi sarà la chiave di Aventurera (4° miglior film messicano di tutti i tempi nella famosa classifica del 1994 redatta da critici per la rivista Somos) dove però gli sviluppi saranno ben differenti.

venerdì 4 marzo 2022

Microrec. 66-70 del 2022: ultimo pluri-candidato Oscar e 4 film più che buoni

Con il deludente remake (come spesso lo sono i remake) di Spielberg ho guardato tutti i seri pretendenti agli Oscar. Ho aggiunto un ottimo, breve film messicano che già conoscevo, del quale ho trovato la versione recentemente restaurata a 1080p, e 3 film di Sayles, regista/sceneggiatore poco conosciuto ma certamente valido … storie di vario genere, molto interessanti e ben proposte, piacevoli sorprese.

 
West Side Story (Steven Spielberg, 2021, USA)

Come tutti sanno è un remake del film del 1961, a sua volta adattamento cinematografico del famoso musical andato in scena a Broadway a partire dal 1957. A distanza di 60 anni, nonostante le maggiori possibilità tecniche e la disponibilità di un grosso budget, la versione di Spielberg non è talmente migliore (sempre che lo sia) della versione originale per giustificare il remake. Ci sono vari cambiamenti fra le versioni e da quello che ho visto in questo si è badato più alla danza che alle interpretazioni (generalmente scadenti o, al più, appena sufficienti). In più casi si vedono i componenti delle gang attorno ai protagonisti in classica posa statica da ballerini e non spontanea da attori più credibili. Pare che si sia pensato troppo alle improbabili luci e scenografie nonché a parte dei costumi, invece di badare alla sostanza cinematografica. Sostanzialmente è un semplice dramma che, nonostante la buona musica, resta uno spettacolo poco coinvolgente essendo basato su un soggetto vecchio come il mondo, ancor più antico dello shakespeariano Romeo e Giulietta e già proposto in tutte le salse; quindi niente di nuovo, tutto scontato. A meno che non siate proprio appassionati dei musical, questo è certamente evitabile e non penso che valga le sette candidature Oscar. Fra i musical dell’anno scorso, a questo (e ancor di più al tick, tick...BOOM! con Andrew Garfield) preferisco di gran lunga In the Heights, anche se più semplice e leggero.

Redes (Emilio Gómez Muriel e Fred Zinnemann, 1935, Mex)

Opera prima di Gómez Muriel e prima regia ufficiale di Zinneman (anche se condivisa; in seguito vinse 4 Oscar) dopo la sua unica co-regia uncredited in patria ma guardate in che compagnia: Billy Wilder, Robert Siodmak, Curt Siodmak e Edgar G. Ulmer. Piccola (in quanto breve, circa un’ora) perla del cinema messicano, con eccellente bianco e nero. La storia si sviluppa in un piccolo centro peschiero messicano dove, ovviamente, i pescatori sono sfruttati e vessati dai grossisti e armatori. Una storia in parte simile a quelle di Janitzio (1935, Mex, Carlos Navarro, con un giovane Emilio el Indio Fernandez), di La terra trema (1948, Luchino Visconti) che però è adattata da “I Malavoglia” di Verga, e, recente scoperta, di The Wasps Are Here (1978, Sri Lanak, Darmasena Pathiraja). Interessante sia dal punto di vista sociale e che per le scene di pesca, la storia non è del tutto scontata, la fotografia è bellissima, sempre con molta luce ed ombre nette. Non per niente questo film è stato scelto da Martin Scorsese per essere restaurato e far parte del suo World Cinema Project.

  
Sono arrivato a questi 3 buoni film di Sayles dopo aver trovato Hombres armados cercando fra i film messicani. Dopo questo trittico devo dire che, più di quello, mi sono piaciuti molto i due precedenti lavori di questo regista indipendente del quale avevo già visto solo Matewan (1987, Nomination Oscar, RT 94%, IMDb 7,9), ottima ricostruzione dei moti sindacali registratisi nella omonima città mineraria della Virginia nel 1920 e conclusisi con quello che si ricorda come Matewan massacre. Complessivamente mi sembra molto incisivo nella creazione e descrizione dei suoi realistici personaggi (scrive le sceneggiature di tutti i suoi film, ma ha scritto anche per altri) attraverso i quali mette in risalto problemi sociali ed esistenziali riuscendo a evitare stereotipi e banali cliché e proponendo sempre punti di vista differenti.

Passion Fish (John Sayles, 1992, USA)

La protagonista May-Alice (attrice televisiva di successo, interpretata da Mary McDonnell, Nomination Oscar) si trova improvvisamente costretta su una sedia a rotelle nella sua residenza di famiglia al margine delle paludi della Louisiana, situazione che affronta nel peggiore dei modi. Dopo aver cambiato varie assistenti/badanti (licenziate o licenziatesi dopo pochi giorni di lavoro) troverà Chantelle (Alfre Woodard) che, avendo anche lei i suoi bravi problemi, riuscirà a tenerle testa. Argute non solo le caratterizzazioni delle due donne, ma anche delle ex colleghe di lavoro e dei pochi uomini che compaiono nel film, alcuni dei quali solo per poche scene. Ottimo dramma che alterna parti più serie a scene sarcastiche di critica sociale. Nomination Oscar per la sceneggiatura.

Lone Star (John Sayles, 1996, USA)

Tutt'altro ambiente, ma di nuovo nel sud degli USA, qui al confine con il Messico. Lo scontro in questo caso è fra la legalità e le minacce, fra la tolleranza con buone intenzioni e la corruzione. Un giovane sceriffo si trova a dover risolvere un omicidio di vari decenni prima, forse perpetrato da suo padre, poi diventato sceriffo al posto della vittima. Interessante la descrizione dell'interpretazione della legge nella piccola cittadina di frontiera, così come quella della convivenza fra le tre comunità: bianca, nera e latina. Con tanti flashback ben trattati nei quali si alternano i protagonisti attuali e quelli dell'epoca dell'omicidio ferma restando la location, il film scorre fluido svelando pian piano i caratteri dei protagonisti e gli avvenimenti che portarono all'omicidio. Buone le interpretazioni pur non essendoci grandi star, perfino Kris Kristofferson (di solito poco convincente) sembra bravo e perfettamente calato nella parte del corrotto. Nomination Oscar per la sceneggiatura.

Hombres armados (John Sayles, 1997, Mex/USA) aka Men with Guns

Qui Sayles si sposta ancora più a sud ambientando la storia in un non meglio identificato paese centroamericano dove i poverissimi indigeni (indios) cercano di sopravvivere alle ingiustificate violenze e vessazioni che subiscono sia da parte dei militari che dei guerriglieri. Parlato in spagnolo latino alternato a nahuatl, con poche parole in inglese, tratta del difficile viaggio di un anziano dottore (Federico Luppi) fra luoghi e ambienti inospitali, alla ricerca dei giovani medici che lui stesso aveva formato proprio per andare a curare le popolazioni isolate nella selva. Senza dubbio risalta una decisa critica rispetto a tali contesti che si incontrano in modo simile dai paesi dell’America meridionale fino in Messico, passando per Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Da ciò deriva la scelta di non localizzare con precisione nazione e anni in quanto l’insensatezza (per non dire la follia) di tali situazioni è problema diffuso e ricorrente, con minimi distinguo.

martedì 1 marzo 2022

Microrec. 61-65 del 2022: due Bogdanovich e 3 molto diversi fra loro

Noto cineasta che iniziò come critico cinematografico, Bogdanovich ha in effetti prodotto molto poco di veramente buono: The Last Picture Show (1971, 2 Oscar e 6 Nomination) e Paper Moon. A seguito della sua dipartita, un paio di mesi fa, ho inserito nel mio cartellone solo il secondo (l’altro, ottimo, l’ho guardato per l’ennesima volta l’anno scorso) e ho aggiunto una sua commedia che ebbe successo di pubblico, ma non fa onore al suo nome. Ho completato il gruppo con un’altra ennesima visione di quello che è, secondo me, il miglior film di Kar Wai Wong e due buoni film mai visti prima; quindi 4 su 5 sono consigliati.

In the mood for love (Kar Wai Wong, 2000, HK)

Come anticipato, questo è un film che apprezzo particolarmente per molti motivi. Alla sottile sceneggiatura, alle buone interpretazioni dei due protagonisti (Tony Chiu Wai LeungMaggie Cheung) e all’abbigliamento e scenografia si aggiunge una splendida colonna sonora che alterna il tema portante (Yumeji's Theme di Shigeru Umebayashi) a brani interpretati in spagnolo latino da Nat King ColeSpecialmente in un film come questo nel quale l’azione è veramente limitata, si apprezzano le perfette inquadrature che spesso incorniciano i soggetti in spazi ristretti quali corridoi, specchi, spiragli di porte semiaperte; notevole è anche l’uso saltuario ma assolutamente ponderato del ralenti. Attualmente al 233° posto fra i migliori film di sempre (IMDb), Tony Leung miglior attore a Cannes dove il film ebbe anche il Premio Speciale per la tecnica e la Nomination alla Palma d’Oro. Da non perdere!

 

Requiem for a Dream
(Darren Aronofsky, 2000, USA)

Mi ha ricordato molto Trainspotting, anche se, a differenza del film inglese, il regista e sceneggiatore ha lavorato molto sulle immagini e sul velocissimo montaggio e ha sviluppato meno la sceneggiatura. Questa è sì articolata ma la sostanza è poca, nel senso che propone pochi avvenimenti, oltretutto distribuiti in un certo lasso di tempo. In buona parte del film vengono proposte le visioni degli sballi in modo parzialmente ripetitivo, che a un certo punto diventano quindi noiose. Buono il cast che in sostanza conta solo 3 o 4 protagonisti (uno è personaggio secondario). I tre sono ben interpretati da Ellen Burstyn (che fu candidata all’Oscar), Jared Leto e Jennifer Connelly. Attualmente al 98° posto fra i migliori film di sempre (IMDb).

Tomboy (Céline Sciamma, 2011, Fra)

Regista attenta e precisa, Céline Sciamma cura molto la descrizione dei protagonisti, e lo fa bene. L’argomento del film è tema inusuale e non facile da trattare. Una ragazzina (10 anni circa) si trasferisce in una nuova città e dovrà fare nuove amicizie; il suo taglio di capelli, i suoi lineamenti e gli atteggiamenti, nonché l’abbigliamento non sono chiaramente femminili e un po’ per caso e un po’ per scelta Laure sceglie di farsi passare per Mikael. Tutto ciò che segue fino all’inevitabile scoperta della verità è ben narrato e non concede niente a stereotipi e banalità. Oltre a Zoé Héran (Laure/ Mikael) anche tutti gli altri giovanissimi attori che rappresentano la quasi totalità del cast sono bravi e credibili (penso con terrore al doppiaggio italiano che, in particolare per i giovanissimi è di solito pessimo!).

 

Paper Moon
(Peter Bogdanovich, 1973, USA)

Di nuovo in bianco e nero, come The Last Picture Show, ma non è una dramma realistico come quello bensì una originale commedia leggera ambientata nel periodo della depressione degli anni ’30. La star del film è indiscutibilmente l’esordiente Tatum O'Neal, figlia di Ryan, co-protagonista nei panni di un piccolo truffatore porta a porta. Vinse l’Oscar come protagonista e all’epoca divenne la più giovane premiata in tale categoria. In alcuni momenti diventa quasi una comica, ma varie trovate sono originali e i dialoghi sono ben congegnati, in particolare le parti che includono le argute battute e le inattese uscite creative della terribile ragazzina. Un piacevole passatempo che si avvantaggia anche di una buona fotografia delle ben riprodotte scenografie.

What's Up, Doc? (Peter Bogdanovich, 1972, USA)

Commedia estremamente stupida, nota in Italia come Ma papà ti manda sola? Quasi allo stesso livello di commedie all’italiana con tante persone interessate ad una valigetta della quale, purtroppo per loro, ce ne sono molte altre in giro, nello stesso albergo. Pieno di personaggi e situazioni ridicole, è da evitare, non vale proprio la pena perdere tempo.