domenica 31 maggio 2020

Micro-recensioni 191-195: altre 5 commedie del XX secolo

Quasi tutte poco conosciute, eppure mediamente più che buone soprattutto quelle graffianti, fra grottesco e humor nero. Due francesi, due americane e una spagnola, prodotte fra 1962 e il 1997. La commedia forse più nota, dei generalmente apprezzati fratelli Coen, è senz’altro la più deludente.
Familia (Fernando León de Aranoa, Spa, 1996)
Si tratta una commedia grottesca più che buona, della quale nel 2012 fu realizzato un remake (Una famiglia perfetta) diretto da Paolo Genovese, con Sergio Castellitto nelle vesti di protagonista, ma anche in questo caso il remake non vale l’originale.
Familia segna l’esordio di Fernando León de Aranoa, regista molto poco prolifico, solo 8 film in una trentina di anni, il più recente dei quali è il discusso Loving Pablo (2017), con Javier Bardem e Penélope Cruz. I primi, come Barrio (1998) e Los lunes al sol (2002), al contrario sono stati quelli più apprezzati da pubblico e critica. A dire il vero, non mi aspettavo molto, ma la messa in scena e le interpretazioni, tutte convincenti, mi hanno positivamente sorpreso e senz’altro lo consiglio, possibilmente in versione originale. In particolare quando un film si basa su rapporti fra amici e/o familiari, i dialoghi sono infarciti di modi di dire, frasi fatte e forme colloquiali, spesso intraducibili in altre lingue con pari effetto.

Wag the Dog (Barry Levinson, USA, 1997)
Distribuito in Italia con il titolo Sesso e potere, l’essenza del soggetto mi ha inevitabilmente ricordato La dictatura perfecta (2014, Mex, Luis Estrada), ma non è assolutamente un remake. Nel primo il fixer Robert deNiro è impegnato a distrarre l’attenzione mediatica da un possibile scandalo sessuale alla Casa Bianca, nel secondo viene creato di rapimento per coprire un lampante caso di corruzione con consegna di valigetta piena di contanti, registrata in video e trasmessa. In Wag the Dog l’operazione si conta sulla collaborazione di un produttore cinematografico (Dustin Hoffmann), nel film messicano è quasi tutto realizzato da uno studio televisivo. Le parti più divertenti e geniali (tristemente vere) sono quelle della creazione di set e immagini da propinare al pubblico, spesso con spiegazione dei motivi. Guardando questo film, molti sospetteranno che gran parte di quanto propinato dalle tv sono fake. Ottenne
2 Nomination Oscar (Dustin Hoffmann protagonista e sceneggiatura, nonché il Premio Speciale della Giuria a Barry Levinson a Berlino).
Piacevole sorpresa, merita una visione.
Cléo de 5 à 7 (Agnès Varda, Fra, 1962)
Secondo film della regista belga, l’unica donna del gruppo dei fondatori della Nouvelle Vague, autrice di 22 corti e solo 12 lungometraggi; questo è il suo secondo dopo La Pointe-Courte (1956). Si svolge in tempo quasi reale in un pomeriggio parigino, seguendo il girovagare di una nota cantante sull’orlo dell’ipocondria, in attesa dei risultati di analisi mediche. La storia è relativamente poco importante, ciò che dà valore al film è la tecnica, in assoluto stile Nouvelle Vague. Particolari sono le tante soggettive che ritraggono gente per strada che, ignara di cosa stia succedendo, guarda sorpresa l’operatore. Anche tempi e dialoghi sono studiati ad arte. Chi apprezza questo stile non rimarrà certamente deluso, mentre chi è abituato a strutture e tecniche più canoniche resterà probabilmente perplesso.

Les aventures de Rabbi Jacob (Gérard Oury, Fra, 1973)
La sceneggiatura è buona e scorre fluida fra mille equivoci, scambi di persone e ribaltamenti di situazioni, sullo sfondo di razzismo, antisemitismo, terrorismo, un matrimonio, un sequestro, e tanto altro.  Peccato per l’esagerata attuazione di Luis de Funès, ma si sa che il gesticolare e le tante smorfie furono la sua caratteristica comica dopo aver iniziato con film più seri e commedie più moderate come La traversata di Parigi (1956, di Claude Autant-Lara), al fianco di Jean Gabin e Bourvil. Sorprende la presenza di Renzo Montagnani in un ruolo non proprio secondario … ma all’epoca aveva appena iniziato la sua carriera da protagonista di commedie all’italiana.  
Pur essendo chiaramente insensato e grottesco, può valere la pena guardarlo per un’ora e mezza di distrazione.

Arizona Junior (Joel Coen, Ethan Coen, USA, 1987)
Uno dei più deludenti film dei fratelli Coen, che in generale apprezzo specialmente per il loro dark humor. In questo caso, alla sceneggiatura a dir poco scadente si aggiunge un cast traballante, con tante performance troppo sopra le righe, sequenze da cartoon, ogni occasione sembra buona per urlare, alla fine i migliori risultano essere gli interpreti del poppante Arizona Junior e suo padre naturale. Una giustificazione potrebbe essere che questo fu il loro secondo film, ma dopo quello d’esordio (l’ottimo Blood Simple) ci si sarebbe aspettato molto di più. 

Sentieri a pagamento: non c’è niente di ufficiale.

‘o strummolo a tiritippete e ‘a funicella corta
La congiunzione di due condizioni negative non porta a grandi risultati.
* Titoli e contenuti di post e articoli non sempre coincidono nella sostanza, con il testo che in pratica contraddice titolo e/o cappello
* Molti lettori tendono a prendere per buono il titolo o si limitano a leggere le prime due righe dell’articolo/post e quindi partono lancia in resta parlando di fatti campati in aria visto che, di solito, solo nella seconda parte gli autori approfondiscono gli argomenti e parlano di fatti più vicini alla realtà.

Mi sono stati segnalati vari post e commenti che danno per certa la chiara affermazione contenuta del titolo di Agorà non avendo letto l’articolo con tanti condizionali, forse, probabile, … vale a dire niente di certo; altri hanno tirato in ballo la fruizione delle spiagge che, pur avendo dei punti in comune, presenta tutt’altra problematica.
Non a caso il mio post di ieri contiene 2 punti interrogativi nel titolo ed una lista non esaustiva di quesiti nel testo. Inoltre in apertura sottolineo che (dell’argomento) “non vedo traccia sui canali ufficiali” e concludo dicendo “Attendo impaziente di leggere quanto sarà messo ufficialmente nero su bianco per poi commentare con cognizione di causa.”
Ciò premesso, ben venga l’occasione di confrontarsi civilmente in merito all’opportunità o meno di far pagare chi voglia percorrere i 3 sentieri (strade comunali) in questione. Se e quando saranno rese note ordinanze e convenzioni si potrà discutere dei dettagli, sia in termini filosofici, che pratici o anche legali. Per ora limitiamoci ai primi, per puro spirito speculativo (filosofico) e in tal senso ricordo che affrontai il tema nel Topic 2 del Forum, il 3 febbraio
Già allora feci riferimento all’unico caso di “sentieri a pagamento” che mi risulti, quello del Parco Nazionale delle 5 Terre. Tuttavia, bisogna tener presente che si parla di “accesso all’area Parco” e che la TREKKING CARD è del tipo multiservizi, con una varietà di formule (per numero di giorni e di persone) e con la possibilità di includere gli spostamenti in treno. Quindi situazione assolutamente diversa da quella ipotizzata a Massa Lubrense.
Qui in basso i servizi inclusi nella carta base.

sabato 30 maggio 2020

Tanto tuonò che piovve? Sentieri a pagamento?

Dopo una settimana di voci che davano per certo che l’Amministrazione Comunale lubrense stesse lavorando in tal senso, ecco la notizia! 
Anticipata da Agorà come titolo di testa sulla sua locandina per Massa Lubrense (ripresa dal sito online) ma della quale al momento non vedo traccia sui canali ufficiali del Comune (sito e Facebook) né sul parallelo lelloacone.com.
  • Esiste già l’ordinanza?
  • C’è una convenzione?
  • Da quando entreranno in vigore?
  • Quali sono i limiti orari e spaziali?
  • Quali sarebbero le associazioni?
  • ....?
Attendo impaziente di leggere quanto sarà messo ufficialmente nero su bianco per poi commentare con cognizione di causa. Al momento della pubblicazione (7.45am, ora italiana) non si trova ancora niente di certificato online, c'è solo il titolo Agorà.

Comunque, è opportuno cominciare a preoccuparsi e stare all'erta!

venerdì 29 maggio 2020

Sentiero degli Dei: escursioni al tramonto ... senza tramonto

Premessa: non esercito più l'attività di guida escursionistica, quindi il discorso che segue è puramente accademico e vuole essere una messa in guardia nei confronti di tanti che da un giorno all’altro sono diventati “guide” nonché esperti dei sentieri dei Monti Lattari. Il mercato (in senso positivo) dell’escursionismo tira e per questo motivo è diventato un mercato (in senso negativo) dove ci si imbatte sempre più spesso in avventurieri e ciarlatani.
Foto scattata da Colle la Serra sul Sentiero degli Dei a fine gennaio; il sole avrebbe continuato nella sua discesa in diagonale, “ammarando” nei pressi dei Faraglioni di Capri. Dal solstizio d'inverno (dicembre) a quello d'estate (giugno) il punto di tramonto si sposta in senso orario (verso destra) per poi tornare al punto di partenza nei sei mesi successivi. Per gran parte dell'anno, quindi, non è possibile vedere il sole immergersi in mare stando sul Sentiero degli Dei, scompare alla vista dietro il crinale dei Monti Lattari.

Eppure, mi è stata segnalata un’escursione pomeridiana programmata per domenica 14 giugno sul Sentiero degli Dei, nel cui programma si sottolinea:
Si suppone che una “guida” che proponga un percorso ne conosca il contesto geografico ma, anche se si trattasse di una “prima”, dovrebbe essere certo di quanto afferma. Un semplice escursionista degno di tal nome che volesse ammirare un tramonto, da una certa area, un determinato giorno, consulta le effemeridi e, in questo caso avrebbe scoperto che il 14 giugno il sole tramonta con azimut 302°, alle 20:35. (vedi tabella, da www.marcomenichelli.it).
Di conseguenza, rientrando ad Agerola alle 20:00 come annunciato, sarà impossibile ammirare “il sole che lentamente si allontana fino a scomparire dietro le isole de li Galli” e ciò dovrebbe essere chiaro anche ai più sprovveduti. Ma c’è di più … trovandosi sul Sentiero degli Dei il sole scomparirà alla vista degli escursionisti nella sella di Santa Maria del Castello (Vico Equense) ben prima delle 20:35. Per ammirare il sole che tramonta oltre Li Galli (a 239°) si dovrà attendere la seconda metà di dicembre, nelle settimane prossime al solstizio d’inverno, situazione ovviamente molto differente da quella di una settimana prima del solstizio d’estate. Per evidenziare quanto detto, ho disegnato questo schizzo che spero possa chiarire l’argomento anche ai meno esperti.
Ripeto che non so né voglio sapere chi sia l'autore di questo annuncio che sembra realizzato sulla scia di uno simile che già l'anno scorso circolava fra le guide in termini ironici. Tuttavia, credo che chi si propone come guida di una escursione al tramonto debba conoscere non solo l'itinerario, ma anche dove e quando si prevede la calata del sole e per saperlo non c’è bisogno di essere scienziati, bastano i concetti basilari di astronomia.

giovedì 28 maggio 2020

Micro-recensioni 186-190: dopo i noir, ecco 5 commedie d’epoca (1933-66)

Due sono musical (uno americano e l'altro sovietico), due contano su Cary Grant come protagonista (il migliore e il più deludente di questa cinquina), c'è un film cecoslovacco vincitore di Oscar come miglior film straniero e uno con ben 7 Nomination.
The Talk of the Town (George Stevens, USA, 1942)
Ottenne ben 7 Nomination (miglior film, soggetto, sceneggiatura, fotografia, scenografia, montaggio, musica), ma nessun Oscar. Commedia brillante con una miscela di generi dal crime al romantico e al legale. Per pura casualità, assolutamente imprevedibile, si ritrovano in una casa fuori città un integerrimo giurista di fama, un evaso che rischia la pena di morte e la padrona dell’abitazione concessa in fitto. In teoria dovrebbe essere una residenza tranquilla, ma per vari motivi sarà sempre movimentata, con un andirivieni di persone: poliziotti, un avvocato, la madre della ragazza, un senatore, l’assistente del giurista, aspiranti detective, e vari altri peculiari personaggi. Commedia certamente datata ma ben realizzata, non per niente il regista è George Stevens (successivamente vincitore di Oscar per Un posto al sole, Shane e infine Il Gigante con James Dean, Elizabeth Taylor e Rock Hudson) e il protagonista il solito ottimo e versatile Cary Grant.

Gold Diggers of 1933 (Mervyn LeRoy, USA, 1933)
Primo di una fortunata serie di musical (seguirono le "Gold Diggers" del 1935 e 1937), ma titolo e tema già erano stati sfruttati almeno dal 1923. Letteralmente “cercatori d’oro” ma in tutti i vari film associato a giovani artiste (di solito ballerine di varietà) in cerca di un ricco marito. Spesso i matrimoni si combinano nonostante l’opposizione delle famiglie. Questo è quello che vanta i migliori rating e ottenne una Nomination Oscar, ma personalmente preferisco il successivo Gold diggers of 1935 che, oltretutto, vinse un Oscar e ebbe una Nomination per la coreografia.
In Gold Diggers of 1933 le star erano Dick Powell Ruby Keeler ma non sfugge la presenza di Ginger Rogers non ancora famosa ma nell’anno che la lanciò. Infatti nel 1933 girò ben 10 film, l’ultimo dei quali fu il primo dei 9 musical (fino al 1939) nei quali fece coppia con Fred Astaire. Classica commedia musicale nella quale si trovano a confronto giovani che cercano di realizzare i loro sogni e si confrontano con l’alta società che nutre molti pregiudizi nei loro confronti. Poche coreografie, ma di ottimo livello.
Treni strettamente sorvegliati (Jirí Menzel, Cze, 1966)
Commedia semi-grottesca che si svolge quasi completamente in una piccola stazione ferroviaria durante la II Guerra Mondiale, mentre la Cecoslovacchia era occupata dai nazisti. Il giovane protagonista inizia con grande entusiasmo il suo nuovo lavoro di controllore del traffico ferroviario, sperando di guadagnarsi da vivere facendo quasi niente così come suo padre e suo nonno. Avrà a che fare con il suo diretto superiore erotomane, un capostazione colombofilo e altri singolari personaggi.
Secondo Oscar di seguito attribuito a un film cecoslovacco, l’anno precedente aveva vinto Shop on the Main Street, ma questo non è di pari livello. Ha i suoi buoni momenti ed è originale, ma risulta lento e poco coinvolgente. Secondo me avrebbe meritato di più Ho incontrato anche zingari felici (Yug, di Aleksandar Petrovic, Premio FIPRESCI e Gran Premio della Giuria a Cannes) … guardatelo.

Carnival in Moscow (Eldar Ryazanov, URSS, 1956)
Interessante e per alcuni versi sorprendente scoprire come si organizzavano feste ufficiali in una Casa della Cultura in Unione Sovietica negli anni ’50. Facile fare un parallelo con ciò che abbiamo visto tante volte in film americani di soggetto analogo ma con background completamente diversi … molto simili i giovani che per realizzare le loro idee innovative devono confrontarsi con quelle antiquate dei dirigenti. Ma, come è logico aspettarsi da una commedia (in parte musical), il ricco programma proposto dai ragazzi e cancellato dal nuovo direttore appena 24 ore prima della festa sarà stravolto e riserverà molte sorprese. Piacevole e ben realizzato, seppur in modo naif.

Indiscreet (Stanley Donen, USA, 1958)
Spacciato per commedia romantica, con due star dell’epoca come protagonisti, non convince, non appassiona, non sorprende … è solo noioso e stucchevole. Ottenne 3 Nomination BAFTA e altrettante per i Golden Globe e niente di più. Risalta la netta differenza di livello fra il sempre bravo Cary Grant e la quasi inespressiva Ingrid Bergman. Senz’altro evitabile.

martedì 26 maggio 2020

Cacahuatl, cacao, chocolate e cioccolata

Anche se apprezzate una buona tazza di cioccolata, forse non sapete abbastanza delle sue origini.
Nel 2013 a Quito (Ecuador) una equipe di archeologi dimostrarono che il cacao si coltivava e consumava già 5.500 anni fa nell’Amazonia ecuadoriana. Nello stesso studio si trovarono anche numerose prove di scambi commerciali. Parallelamente l’Instituto Nacional de Antropología e Historia de México appurò la presenza di vasellame contenente cacao risalente al 1750 a. C. (3.770 anni fa). Ricerche in Honduras confermano che già nel 1000 a. C. il chocolate si consumava abitualmente in quella regione e che furono gli Olmechi della costa quelli che ne scoprirono il processo per la preparazione. Successivamente divenne bevanda preferita dei nobili e potenti Maya e ciò è molto ben documentato e recipienti colmi di bevande a base di cacao si ponevano perfino nelle tombe dei re maya. Gli Aztechi, stabiliti in aree più alte non adatte alla coltivazione del cacao, proprio per tale motivo andarono a conquistare le basse terre costiere fra Chiapas e Guatemala dove se ne produceva in abbondanza e di ottima qualità. Fu solo dopo l’arrivo degli spagnoli (che promossero la coltivazione della canna) che lo zucchero fu aggiunto alla bevanda originale rendendola più somigliante a quella moderna e presto si diffuse anche in Europa grazie soprattutto agli ordini religiosi.
In Messico ancora oggi sono proposte tre diverse bevande a base di cacao: il pozol e due tipi di chocolate, alla española e alla francesa.
Il prima è la più simile alla bevanda originale, di solito dicendo solo pozol si intende quello di cacao, anche se ne esistono altri tipi. Nei mercati, se non venduta come bevanda da consumare sul posto (foto sopra), la combinazione di mais e cacao viene commercializzata sotto forma di una pasta molto densa da diluire successivamente. Si possono aggiungere zucchero, latte o l’onnipresente chile (peperoncino).
Le altre due si distinguono per il liquido utilizzato: latte per la francesa e acqua (addensata con farina di mais) per la española. A differenza di tè e caffè, in centroamerica la cioccolata è sempre servita con qualche tipo di dolce, tipicamente con i famosi churros, e spesso aromatizzata con cannella.
Ma si dovrebbe dire cioccolata o cioccolato? Si può usare l’uno o l’altro termine ma, come spiegato in modo preciso dall’Accademia della Crusca in questo articolo pieno di riferimenti storici, la versione femminile è comunemente associata alla bevanda e la maschile alle forme solide.
E infine, quale pianta fornisce il cacao? Si tratta di un albero di 5-10 metri di altezza, Theobroma cacao, attualmente più diffuso nelle aree tropicali africane che in quelle originarie centroamericane, in particolare Ecuador. La polvere di cacao si estrae dai suoi semi, contenuti nel frutto di forma ovale (come una palla da rugby) e ricoperti da un sottile strato di dolcissima polpa biancastra commestibile (foto sopra). Si mette in bocca l’intero seme e si succhia la polpa fino a rimuoverla tutta prima di sputare la parte dura, il seme vere o proprio (provata in Amazzonia, ottima).

lunedì 25 maggio 2020

Micro-recensioni 181-185: altri 5 noir, tutti americani

I due noir classici di metà secolo non deludono e, a sorpresa, anche il più recente del 1994. Pessimi, sotto ogni aspetto gli altri due, un inutile remake e un film senza né capo né coda.
Lured (Douglas Sirk, USA, 1947)
Più crime/thriller che noir, comunque ben diretto e interpretato. Cast di attori navigati che non deludono, dai protagonisti George Sanders e Lucille Ball ai coprotagonisti e a quelli che appaiono solo in poche scene fra i quali spiccano noti caratteristi come il premio Oscar Charles Coburn, Boris Karloff e Joseph Calleia. Varie situazioni sono scontate, ma non mancano le sorprese; anche quando per gli spettatori diventa abbastanza evidente chi sia l’assassino, restano molti minuti con il dubbio di se e come verrà incastrato. 

The Desperate Hours (William Wyler, USA, 1955)
Mi ha ricordato molto il soggetto di Suddenly (1954, con Frak Sinatra protagonista), film nel quale similmente tre gangster sequestrano una famiglia nella loro propria casa, anche se background e obiettivi dei malviventi sono diversi. Thriller psicologico, con tre evasi che scelgono di rifugiarsi in una casa borghese in attesa di ricevere una certa quantità di denaro sufficiente per continuare la fuga. Situazione gestita con difficoltà da Humphrey Bogart che, oltre ai 4 membri della famiglia, deve controllare i suoi compagni di fuga, vale a dire suo fratello minore (spesso in disaccordo) e uno psicopatico incline alla violenza. 
Film che merita una visione, anche per la regia di William Wyler (4 Oscar e 9 Nomination) che anche stavolta non delude.
 
The Last Seduction (John Dahl, USA, 1994)
Mi ha lasciato un po’ perplesso all’inizio per la troppa componente sessuale, ma con il procedere della storia ciò viene ampiamente giustificato essendo “arma” essenziale per le trame della protagonista. Si perde un poco nei dettagli e nella descrizione dei personaggi, la maggior parte dei quali tanto svegli non sono. Tuttavia si apprezzano originali e brillanti soluzioni a situazioni apparentemente con poche vie d’uscita … fino alla fine. Ben diretto con passo rapido, soffre però anche di interpretazioni poco convincenti. Peccato, perché con la stessa sceneggiatura ma con un cast più affidabile sarebbe stato molto migliore. Comunque, vale la pena di guardarlo. 

Trouble in Mind (Alan Rudolph, USA, 1985)
Film molto deludente, con attori di un certo nome ma ciò non significa che siano bravi, diretto da un beniamino di Altman, ma ben lontano dai livelli del maestro. Personaggi senza senso non possono dare corpo ad una sceneggiatura ridicola, ambientata in una fantomatica cittadina di chissà quale paese, controllata da una tale milizia che non entra in alcun modo con le vicende dei protagonisti. Kris Kristofferson inerte come al solito, Keith Carradine inutile (solo in The Duellists riuscì ad essere decente, comunque oscurato da Harvey Keitel), Lori Singer non convince e fra loro Geneviève Bujold sembra quasi una grande attrice. Non capisco l’82% di recensioni positive su Rotten Tomatoes … personalmente suggerisco di evitarlo.

Casbah (John Berry, USA, 1948)
Veramente pessimo. C’è da chiedersi perché fu prodotto questo remake di un ottimo film francese (l’originale Pepè le Mokò, 1937) e di un primo remake americano (Algiers, 1938), con interpretazioni scadenti (anche il migliore, Peter Lorre, delude molto), set ridicoli e storia cambiata in peggio. Ancor più stana è la candidatura all’Oscar per la musica che appare nettamente fuori contesto così come canzoni e coreografie che poco o niente hanno di arabeggiante. E sì, perché c’è anche una parte in stile musical, oltre alla penosa storia romantica. Anche Totò le Mokò, è migliore di questo Casbah. L’ho guardato per curiosità, sinceramente ve lo sconsiglio.

sabato 23 maggio 2020

Micro-recensioni 176-180: stavolta 5 film del XXI secolo

Pur consapevole di non aver certo scelto il meglio dei decenni scorsi, mi sono ritrovato a rimpiangere le mie visioni di film sconosciuti del secolo scorso, talvolta mediocri ma quasi sempre ben realizzati ed interpretati. Fra questi 5 si distingue un film russo che sembra non sia mai stato distribuito in occidente.

Pop (The Priest) (Vladimir Khotinenko, Rus,  2009)
Basato su un personaggio reale, il pope (sacerdote ortodosso) Aleksandr Ionin che negli anni della guerra si trovò nella difficile condizione di cercare di limitare i danni per la sua comunità in Lettonia. Questa, occupata dai comunisti russi nel 1940 alla pari delle altre repubbliche baltiche, l’anno successivo fu invasa dai nazisti tedeschi rimanendo poi per vari anni terra di frontiera senza più una propria identità. Alcuni decisero di collaborare con i tedeschi altri divennero partigiani, non tanto pro-russi, ma contro entrambi gli aggressori. Gli ortodossi erano malvisti e talvolta perseguitati dai leninisti e quindi i tedeschi restituirono loro i luoghi di culto requisiti e trasformati dai russi, ma non è che i rapporti fossero proprio idilliaci.
Storicamente e socialmente interessante, tratta di situazioni storiche poco conosciute, con una buona sceneggiatura e notevole fotografia; regia e scenografia non sono da meno.
Merita una visione … lo trovate in rete con sottotitoli in inglese. 

Things We Lost in the Fire (Susanne Bier, USA, 2007)
Sostanzialmente ben sopra la sufficienza pur soffrendo di alcuni cali nella sceneggiatura e di una storia troppo “utilitaristica”. Buone le caratterizzazioni dei numerosi personaggi secondari, meno buono l’uso dei flashback. Ancora una volta è da apprezzare Benicio del Toro, stavolta in un ruolo per lui insolito, si difende bene Halle Berry, affidabile come sempre il caratterista John Carroll Lynch. Un po’ strappalacrime in più punti, si fa comunque guardare grazie anche alla buona regia della Bier.

La trinchera infinita (Aitor Arregi, Jon Garaño, Jose Mari Goenaga, Spa, 2019)
Ennesimo film relativo alla guerra civile spagnola e agli anni del franchismo, che in questo caso tratta di un di coloro che sopravvissero nascosti fino all’indulto emanato in occasione del trentennale (1969) della fine della guerra; storie bene o male viste e riviste. Pur contando su due buoni attori protagonisti come Antonio de la Torre e Belén Cuesta, il film non riesce a coinvolgere, anche perché è spezzettato in avvenimenti che si svolgono nell’arco di una trentina di anni. Momenti e scene cinematograficamente buoni si alternano a situazioni ripetitive e poco credibili. 

En la ciudad sin límites (Antonio Hernández, Spa/Arg, 2002)
Ottimo soggetto, sceneggiatura mediocre, pessima messa in scena. Salvando l’immarcescibile Fernando Fernán Gómez, il resto del cast offre prove scadenti a cominciare dai nomi più noti (almeno nel mondo ispanico) quali Leonardo Sbaraglia e Geraldine Chaplin (figlia di Charlie – Charlot). Dramma familiare fra tradimenti e finanza, con (ancora una volta) l’ombra della guerra civile spagnola. 

Intacto (Juan Carlos Fresnadillo, Spa, 2001)
Mi sono imbattuto di nuovo in Leonardo Sbaraglia, che mi sembra sempre più mediocre, meraviglia la presenza di un gran attore come Max von Sydow (ma si sa che a fine carriera anche molti mostri sacri si concedono a progetti scadenti o insulsi. Intacto si basa su un’ipotesi poco plausibile ma, ammesso e non concesso la si voglia accettare, restano incomprensibili le azioni delle persone coinvolte nel macabro gioco. Non lo consiglio, praticamente ridicolo. 

giovedì 21 maggio 2020

Micro-recensioni 171-175: dal Senegal al Giappone, con due perle europee di mezzo

La caza (Carlos Saura, Spa, 1966) Orso d'argento a Berlino per la regia
Un ottimo film visto solo una volta, una quarantina di anni fa. Pur sapendo come va a finire, mantiene tutta la sua carica drammatica; con questa nuova visione e con una molto migliore conoscenza della storia politica e sociale spagnola rispetto ad allora, risultano molto più evidenti i tanti riferimenti all’era franchista e alla guerra civile. L’abbondanza di simboli, allusioni e similitudini ne fanno quasi un film allegorico.
A chi conosce Saura solo per i suoi famosi film e documentari a tema musicale, ricordo che la sua miglior produzione in quanto a cinema a soggetto è quella precedente quando, nonostante la censura franchista, riusciva a produrre interessanti film polemici e relativamente audaci mascherando le critiche al regime nel simbolismo. Agli stessi ricordo anche che Saura fu pupillo e poi amico di Buñuel che aveva grande stima dell’allievo. Per esempio, quando sospese Simón del desierto propose a Saura di continuarlo e poi nel contratto per La via lattea incluse una clausola nella quale si stabiliva che nel caso fosse impossibilitato a continuare le riprese queste sarebbero state affidate a Saura. Ad un occhio attento non sfugge l’influenza del maestro sull’allievo.
Senz’altro consiglio la visione di almeno questi 3 suoi film degli anni ’70: Ana y los lobos (1973), Cria cuervos (1976, Gran Premio Giuria a Cannes) e Mamá cumple 100 años (1979, Nomination Oscar).

Il diritto del più forte (Rainer Werner Fassbinder, Ger, 1975)
Fra i registi di spicco del Nuovo Cinema Tedesco fu superato per fama e stravaganza sono da Werner Herzog. Dichiaratamente omosessuale, si sposò due volte e nei suoi film comparvero più volte le sue mogli e suoi amanti; esperto in ogni settore del cinema si occupava spesso di molti aspetti oltre la regia ed ha al suo attivo una 40ina di film, in questo è protagonista. Molti suoi lavori affrontano temi forti, a volta scabrosi, come omofobia, razzismo, differenze sociali e dal punto di vista della morale comune sono spesso reputati osceni. Questo Fox and His Friends (titolo alternativo internazionale) si svolge quasi esclusivamente in ambiente omosessuale fra amori mercenari, conquiste, gelosie e tradimenti, tuttavia il tema centrale sono le differenze di classe, di cultura e di potere economico (come sottolineato nel titolo originale). Senz’altro sopra la media, vivamente consigliato a chi non è troppo puritano e bigotto.
Wife! Be Like a Rose! (Mikio Naruse, Jap, 1935)
Classico film di Naruse (1905-69), ottimo regista che ebbe la sfortuna di essere contemporaneo del gran maestro Yasujirô Ozu (1903-63) e di trattare temi comuni, con stile relativamente simile, risultando quindi sempre offuscato dalla sua fama.
Storia ben narrata e da lui stesso adattata a partire da un lavoro teatrale. Una giovane ed indipendente donna di Tokyo che vive con sua madre va a trovare il padre (che le ha abbandonate già da molti anni ed ha una nuova famiglia in campagna) per avere il suo tradizionale consenso alle nozze. Ciò che ognuno immaginava degli altri si rivelerà sbagliato e molti dovranno ricredersi e agire di conseguenza.
Si nota, in positivo, l’origine teatrale della sceneggiatura e dei dialoghi. Se gradite il genere, è un film da non perdere.

La noire de ... (Ousmane Sembene, Sen, 1966)
Dopo aver guardato un paio di mesi fa l’ultimo dei soli 9 film del senegalese Ousmane Sembene (Moolaadé, 2004), ho trovato il suo primo lungometraggio, di quasi 40 anni precedente. Notevole, specialmente in considerazione che si tratti di un esordio, mostra evidenti caratteristiche proprie della Nouvelle Vague francese, tanto in voga in quegli anni. A differenza dell’altro (e della maggior parte dei suoi film) questo si svolge quasi interamente a Parigi dove una giovane senegalese raggiunge la famiglia francese presso la quale già lavorava in Senegal come babysitter, ma ben presto le aspettative della ragazza andranno deluse.
Ben girato e ben fotografato in bianco e nero, evidenzia una regia molto attenta con buone inquadrature, montaggio snello e qualche dettaglio pregevole come la maschera di legno. Interessante visione.

Touki-Bouki (Djibril Diop Mambéty, Sen, 1973)
Di tutt’altro genere quest’altro senegalese, in bilico fra surrealismo e avant-garde, certamente meno incisivo del film di Ousmane Sembene. A volte risulta confuso per mancanza di continuità spazio-temporale e per gli inserti onirici. Apprezzabili tentativo, ma per surrealismo e avanguardia di rilievo ci vuole molto di più.

martedì 19 maggio 2020

Micro-recensioni 166-170: noir ottimi e/o particolari

Strane combinazioni … due noir diretti da Julien Duvivier (e sono i suoi più quotati), due con Jean Gabin protagonista, due hanno praticamente la stessa sceneggiatura, solo quello giapponese non ha alcun punto in comune con gli altri.
Panique (Julien Duvivier, Fra, 1946) premio speciale della critica a Venezia
Uno dei tanti ottimi film francesi d’epoca, un noir che tende al thriller, con una interessante sceneggiatura e una esemplare interpretazione di Michel Simon. Il suo personaggio è un uomo misterioso che, seppur molto compito e serio, è malvisto da tutto il vicinato. Dalla semplice idea di allontanarlo dal quartiere, si passa a sospettarlo di un omicidio e il film si sviluppa in un continuo crescendo di agitazione e minacce. Più che apprezzabili anche regia e fotografia. Basato sul romanzo di Georges Simenon (il creatore del Commissario Maigret) il film ottenne il Premio della Critica a Venezia.
Da non perdere … esiste anche versione italiana dal titolo (una volta tanto ben tradotto) Panico.

Pépé le Moko (Julien Duvivier, Fra, 1937)
Si tratta dell’altro famoso noir di Julien Duvivier, che collaborò anche all’adattamento dell’omonimo romanzo di Henri La Barthe. L’ambientazione esotica, fra vicoli della cosmopolita e malfamata casbah di Algeri, contribuì alla fama del film al quale fecero seguito remake e parodie. Il ruolo di Pépé è ovviamente ricoperto da Jean Gabin, Line Noro è la gelosissima gitana, Mireille Balin (star dell’epoca) è l’affascinante ricca straniera, Fernand Charpin l’ambiguo Regis. Pur essendo probabilmente sconosciuti ai più, tutti interpretano più che bene i loro personaggi che ruotano attorno a Gabin il quale, mi sembra, non è all’altezza delle sue migliori prove di genere drammatico come per esempio i successivi La grande illusion (1937, Jean Renoir), Le quai des brumes (1938, Marcel Carné) e La bête humaine (1938, Jean Renoir).
Da non perdere.
Algiers (John Cromwell, USA, 1938)
Altro non è che un pedissequo remake americano del suddetto film francese di grande successo dell’anno prima. Pur non valendo certamente l’originale, come la maggior parte dei remake americani di film stranieri, per il fatto di avere un budget di gran lunga superiore e un cast con tante star ottenne ben 4 Nomination Oscar (Charles Boyer protagonista, Gene Lockhart non protagonista, fotografia e scenografia). A questo seguì 10 anni più tardi Casbah (con Yvonne De Carlo, Tony Martin, Peter Lorre) e infine la parodia italiana Totò le Moko (1949, diretto da Bragaglia) della quale pochi conoscono gli illustri precedenti.
Algiers vanta un notevole cast internazionale nel quale, oltre al francese Charles Boyer, appena trasferitosi negli USA e al suo secondo film oltreoceano, e al canadese Gene Lockhart (entrambi candidati Oscar), ci sono due bellezze dell'epoca quali l’austriaca Hedy Lamarr (all’epoca definita “la donna più bella del mondo”), l’americana Sigrid Gurie e, nei panni dell’imperturbabile ispettore Slimane, il maltese Joseph Calleia (interprete di tanti ottimi noir per lui: The Touch of EvilGildaThe Glass Key, ...). Interessante la caratterizzazione dei personaggi, dai componenti della banda di Pépé ai vari membri della polizia, ai turisti in cerca di avventura.
Rivisto con molto piacere, lo consiglio anche se non vale l’originale.

Intimidation (Koreyoshi Kurahara, Jap, 1960)
Buon noir nipponico, non ambientato nel mondo del crimine organizzato e praticamente senza la presenza di polizia. Si basa quasi esclusivamente su ricatti (vari), palesi o posti sottilmente, nell’ambito di una filiale di banca. Buona e originale la sceneggiatura, regia precisa con ottima scelta dei tempi. Pur essendo ben lontano dal noir “ricattatorio” giapponese per eccellenza, (High and Low, 1963, Kurosawa) ha i suoi meriti e si lascia guardare con interesse. Merita una visione.

Moontide (Archie Mayo, Fritz Lang, USA, 1949)
Co-diretto da due noti registi di noir (anche se Lang è uncredited), è un noir anomalo sia per soggetto che ambientazione. Fu il primo dei due film hollywoodiani di Jean Gabin, entrambi di scarso successo; l’altro (The Impostor, 1944) fu diretto da Duvivier, anche lui fuggito dalla Francia occupata dai nazisti. La trama è debole e conta con varie inutili esagerazioni, c’è tensione solo in pochi momenti e a volte è la parte romantica a prendere il sopravvento. Certamente non memorabile se non per la fotografia (candidatura Oscar) e l’interpretazione di Thomas Mitchell (già Oscar per l’interpretazione del dottore alcoolizzato in Ombre rosse, 1939, John Ford).

venerdì 15 maggio 2020

Micro-recensioni 161-165: un Oscar ceco e altri classici di oltrecortina

Dopo essermi imbattuto nel sito ok.ru, lì continuo a navigare e a trovare tanti ottimi film, molti dei quali più o meno sconosciuti in occidente, ma quasi sempre ben quotati e fra essi anche vari vincitori di Oscar e altri premi importanti.
The Shop on Main Street (Ján Kadár, Elmar Klos, Cze,1965)
Vincitore di Oscar quale miglior film straniero nel 1966 e Nomination per Ida Kaminska come migliore attrice protagonista nel 1967, premiata anche a Cannes. A onor del vero, anche l’interpretazione di Jozef Kroner è di eccellente livello, così come lo sono fotografia, regia e sceneggiatura. Ambientato in una piccola cittadina cecoslovacca nel 1942, tratta dei giorni in cui iniziarono i rastrellamenti e deportazioni degli ebrei, dopo che agli stessi erano già stati limitati i diritti e importi “controllori ariani”. A un povero diavolo, sostanzialmente un buon uomo, viene assegnato un negozietto di tessuti ed articoli per cucito gestito da un’anziana ma arzilla vedova, quasi completamente sorda. Da ciò si può già immaginare che il pur tragico tema viene trattato in modo ironico, da commedia nera. Attorno ai due ruotano molti altri personaggi singolari e ben caratterizzati, fra i quali spiccano l’avida moglie del protagonista, suo cognato capoccia filo-nazista, il banditore, un “amico degli ebrei” e vari esponenti di tale comunità.
Film da non perdere … IMDb 8,2 Rotten Tomatoes 100%. 


The Corporal and Others (Márton Keleti, Hun,1965)
Commedia nera a soggetto bellico, che vede protagonisti soldati ungheresi, disertori, nazisti, russi che avanzano e partigiani nelle confuse fasi di una guerra che a quel punto era di tutti contro tutti, ma con il principale obiettivo di salvare la pelle. Da quanto ho letto, è un indimenticato classico che fu distribuito anche in Italia come Il caporale (ma anche come L’anno del cannone … che c’entra?) e ancora conta con un ottimo 8,5 su IMDb. Per pura casualità un caporale in fuga con i soldi delle paghe, vari disertori e un filorusso si ritrovano in una enorme residenza di campagna di un tale barone, al momento gestita da un ineffabile maggiordomo. Molti altri busseranno alla stessa porta con conseguenze variabili dal tragico al ridicolo. Storia snella, in continua evoluzione, con tante sorprese anche se qualcuna, inevitabilmente, prevedibile. Consigliato e, pur trattandosi di commedia, storicamente istruttivo.
The Island - Ostrov (Pavel Lungin, Russia, 2006)
Film strano, con una ottima fotografia che sfrutta al meglio la caratteristica (poca) luce dei paesi settentrionali, pur essendo a colori sembra spesso un bianco e nero, ma con toni fra il grigio e il celeste. I paesaggi di quest’isola desolata sono molto ben proposti, ma la sceneggiatura non trova tutti d’accordo. Protagonista è un monaco ortodosso molto sui generis, dal comportamento a dir poco insolito e fuori dai canoni, mal visto anche se pazientemente sopportato dai suoi confratelli. Le sue azioni e considerazioni si muovono fra lo spirituale e il folle, con il sospetto di secondi fini …; in più occasioni ricorda un po’ Tarkovsky sia per il passo lento sia per i dialoghi fra il poetico e il filosofico. Merita una visione, ma non è certo compatibile con i gusti di chiunque.


The Night Before Christmas (Aleksandr Rou, URSS, 1961)
Classico film natalizio basato sul noto racconto di Gogol, ben resa con l’aiuto di un po’ di animazione. Ne esce fuori una commedia romantica di spirito gioioso e scherzoso, fra il fantastico e il grottesco. Si tratta del più noto e apprezzato adattamento per lo schermo di questo classico russo che, nel secolo precedente, aveva già ispirato due opere di Ciajkovskij e una di Rimskij-Korsakov. Da non confondere con il film di animazione stop-motion di Tim Burton (1993) che ne parafrasò il titolo cambiandolo in The Nightmare Before Christmas.

Ten Little Indians (Stanislav Govorukhin, URSS, 1987)
Ennesima versione dello stranoto romanzo di Agatha Christie che nel corso degli anni e ha cambiato il nome dall’originale Ten Little Niggers (10 piccoli negretti) a And Then There Were None (...e poi non rimase nessuno), dopo aver cambiato i Niggers in Indians (indiani).
Adattamento senza infamia e senza lode; avendo poco da commentare aggiungo questa traduzione “poetica” (da Wikipedia) della filastrocca alla base del romanzo:
Dieci poveri negretti se ne andarono a mangiar:
uno fece indigestione, solo nove ne restar.

Nove poveri negretti fino a notte alta vegliar:
uno cadde addormentato, otto soli ne restar.

Otto poveri negretti se ne vanno a passeggiar:
uno, ahimè, è rimasto indietro, solo sette ne restar.

Sette poveri negretti legna andarono a spaccar:
un di lor s'infranse a mezzo, e sei soli ne restar.

I sei poveri negretti giocan con un alvear:
da una vespa uno fu punto, solo cinque ne restar.

Cinque poveri negretti un giudizio han da sbrigar:
un lo ferma il tribunale, quattro soli ne restar.

Quattro poveri negretti salpan verso l'alto mar:
uno un granchio se lo prende, e tre soli ne restar.

I tre poveri negretti allo zoo vollero andar:
uno l'orso ne abbrancò, e due soli ne restar.

I due poveri negretti stanno al sole per un po':
un si fuse come cera e uno solo ne restò.

Solo, il povero negretto in un bosco se ne andò:
ad un pino si impiccò, e nessuno ne restò.