martedì 28 settembre 2021

Micro-recensioni 266-270: 2 classici egiziani, 2 moderni pulp russi e un sovrastimato brasiliano

 
Gli egiziani sono di ottima qualità, specialmente se opportunamente inquadrati nella loro epoca e nella cultura sociale arabo-egiziana; i due russi sono entrambi diretti Aleksey Balabanov (regista di Brat aka Brother) con il suo classico stile e con protagonisti i consueti esagerati personaggi del mondo criminale, ma sono di livello ben diverso fra loro, essendo The Stoker di gran lunga superiore; infine, c’è l’adattamento del più famoso romanzo del brasiliano Jorge Amado, mal proposto sullo schermo eppure è il più conosciuto dei 5 ... ma non il più apprezzato dai cinefili.

 
The Blazing Sun (Youssef Chahine, 1954, Egy)

Bello e interessante questo film diretto dal più riverito regista della cinematografia egiziana classica, Youssef Chahine. Segna il debutto di Omar El Cherif, l’attore che sarebbe poi diventato internazionalmente noto come Omar Sharif. Esordì al fianco della star femminile dell’epoca, la già affermata Faten Hamamah (nota come The Lady of the Arabic Screen, all’epoca 23enne, ma già con oltre 50 film al suo attivo), indipendente e femminista nella vita e spesso anche sullo schermo, che sarebbe diventata (l’unica) sua moglie l’anno successivo. Anche se con un finale troppo melodrammatico, il film fornisce una bella descrizione della società agricola lungo le sponde del Nilo, con il ricco pascià che vive in uno splendido ed enorme palazzo, lo sceicco capovillaggio, il bey, l’effendi, con il potere gestito in modi illeciti e senza alcuno scrupolo … spettacolari gli esterni girati fra le imponenti rovine millenarie di Karnak (foto in basso). 

 
Oggettivamente, Omar Sharif deve il suo successo più al suo misterioso aspetto esotico che alle capacità di attore, anche se in questo film le sue carenze sono giustificate per l’età ed essere all’esordio (pare voluto proprio dalla Hamamah). Nel complesso, certamente merita una visione; Nomination Grand Prix a Cannes.

The Nightingale's Prayer (Henry Barakat, 1959, Egy)

Melodramma popolare che a margine delle tormentate storie d'amore evidenzia il contrasto fra la moderna cultura cittadina influenzata dallo stile europeo e quella tradizionale, in questo caso beduina; la sceneggiatura è un adattamento di un romanzo dell’illustre letterato e politico Taha HusseinBen realizzato e interpretato, alterna scene di vita quotidiana in case borghesi a quella dei mercati e delle taverne con ballerine e veggenti, oppone l’onore della famiglia all’amore e alla vendetta. Candidato egiziano all’Oscar, Nomination Orso d’Oro a Berlino.

  
The Stoker (Aleksey Balabanov, 2010, Rus)

Dopo aver guardato Brat e Brat 2, ho voluto guardare altri due film del russo Balabanov; dei due questo è quello buono, senz’altro di pari livello se non addirittura superiore ai Brat. Ciò che colpisce è la scarsezza di dialoghi, con le lunghe carrellate e i silenzi dei protagonisti sottolineati da un singolare commento sonoro, che o si apprezza o non si sopporta; anche i pezzi moderni rock della colonna sonora si inseriscono alla perfezione nel tutto. Buon ritmo, gran assortimento di personaggi, fra i quali spiccano il fuochista (stoker) e il killer che non parla quasi mai. Il fuoco è presente quasi in ogni scena, visto attraverso le bocche delle fornaci alimentate dal protagonista o delle massicce stufe casalinghe. Il protagonista e sua figlia sono di etnia yakuti, ma il regista ha chiarito che lui voleva quell’attore, ma non per la sua razza e quindi non ci sono altri motivi reconditi. La Yakutia è una enorme regione della Siberia settentrionale, estesa 10 volte l’Italia ma con meno di 1 milione di abitanti, dei quali meno della metà sono veri yakuti.

Dead Man's Bluff (Aleksey Balabanov, 2005, Rus)

Questo, quindi, è quello che mi ha deluso, troppi morti, troppo sangue, troppo parlare a vanvera, troppi killer non professionisti, storia debole e relativamente lenta. Confermando il mio apprezzamento per gli altri 3 film di Balabanov già visti, sia per il ritmo che per il modo di presentare personaggi e situazioni, sempre con un curato sottofondo musicale (può piacere o meno, ma è certamente originale), direi che questa visione ve la potete anche risparmiare. Sembra uno scadente tentativo di copiare Quentin Tarantino.

Dona Flor e Seus Dois Maridos (Bruno Barreto, 1976, Bra)

Non mi convinse a suo tempo e, dopo questa nuova visione a distanza di vari decenni, confermo la prima impressione. Mi ha dato l’idea di essere troppo superficiale e affrettato nel trattare i personaggi secondari che, ha quanto ho letto, hanno invece grande importanza nel libro di Amado fornendo quindi un più preciso ritratto dell’ambiente e dell’epoca; risulta sbilanciato a causa del concentrarsi sulla sola protagonista (Dona Flor) tralasciando il contorno. Troppe volte scade a livello caricaturale e, in generale, la recitazione lascia molto a desiderare. Considerato che inizia con scena carnevalesca, mi ha fatto tornare in mente un altro film brasiliano di gran lunga superiore, che certamente consiglio: Orfeo Negro (1956, Marcel Camus, Bra/Fra, Oscar miglior film straniero, Palma d’Oro a Cannes). Due note in merito al regista … diresse questo film (il suo terzo lungometraggio) a soli 21 anni, ma è lecito pensare che la sua precoce carriera fosse dovuta al fatto di essere figlio di due importanti produttori brasiliani e non merito delle sue capacità.

venerdì 24 settembre 2021

Micro-recensioni 261-265 - World Cinema: Francia, Australia, Giappone, Romania e Argentina

Assortimento molto vario di epoche, provenienza e generi per questa cinquina abbastanza interessante. Fra tutti spicca un documentario sperimentale (giudicato fra i migliori di sempre) seguito da un quasi-documentario australiano.

 

Sans Soleil
(Chris Marker, 1983, Fra)

Si tratta di un originale montaggio di immagini di repertorio, accompagnato da un testo letto da voce fuori campo sotto forma di lettere di un viaggiatore. Le immagini si riferiscono soprattutto al Giappone in un arco temporale che va dalla II Guerra Mondiale all’epoca contemporanea, ma c’è anche molto della Guinea Bissau (ex colonia portoghese in Africa) e pochi clip di Francia e Islanda. A partire da eventi specifici si discutono idee generali applicabili quasi in qualunque era e luogo, dai suicidi giapponesi durante la guerra alla lotta di Liberazione congiunta di Guinea e Capo Verde. 

Non si risparmiano critiche a singolari attività ricreative giapponesi tipiche degli anni ’80 come i balli takenokozoku e il Whack-a-Mole (video sopra) che consiste nel colpire in testa, con un martello di gomma, le talpe che sbucano dai buchi del tavolo; la variante proposta indicava specifiche cariche, dal direttore generale ai suoi vice, funzionari e capi del personale. La voce fuori campo sottolinea che si era spesso obbligati a sostituire il pupazzo che rappresentava il direttore generale a causa della veemenza con la quale veniva colpito. Documentario premiato a Berlino.

Charlie's Country (Rolf de Heer, 2013, Aus)

David Gulpilil, aborigeno protagonista e co-sceneggiatore insieme con il regista Rolf de Heer, è la star del film e, con la sua flemma e stretta logica, mette in evidenza tutti i controsensi della politica di derivazione colonialista nei confronti dei nativi. Per quanto diversa, la situazione è molto simile a quella degli americani, ufficialmente protetti e appoggiati ma in effetti relegati in determinate aree e destinatari di continui tentativi di occidentalizzazione per rendendoli schiavi del sistema economico vigente. Il film non manca di ironia e spesso i dialoghi fra Charlie e i poliziotti o altri “bianchi” tendono al paradosso e all’assurdo, quasi surreali. Non c’è nessun set e la maggior parte delle scene sono girate fra piste polverose e ambiente naturale. David Gulpilil, miglior attore a Cannes e Nomination Un Certain Regard per Rolf de Heer.

  
Bacalaureat (Cristian Mungiu, 2016, Rom)

Dramma familiare molto ben proposto, ma il vero tema (che porta lo scompiglio fra i protagonisti) è l’onestà, che viene continuamente messa in discussione da situazioni contingenti. Intendiamoci, nessuno è un criminale o lucra fra mazzette e ricatti ma si discute appunto del limite dell’innocuo e sincero favore che chi lo riceve vuole poi ricambiare. Ciò, paragonato alla corruzione dilagante che pare regni in Romania, è cosa da poco ma comunque fa riflettere. Considerazioni pertinenti e facilmente applicabili in quasi qualsiasi società che non sia perfetta. Ben diretto e interpretato, piacevole sorpresa. Miglior regia a Cannes e Nomination Palma d’Oro.

Tokio Sonata (Kiyoshi Kurosawa, 2008, Jap)

Il regista e co-sceneggiatore Kiyoshi Kurosawa, non imparentato in alcun modo con il ben più famoso Akira, include nella trama una serie pressoché irripetibile di eventi già di per sé insoliti affrontati dai vari soggetti in modo più o meno insulso. Chiunque potrebbe teoricamente trovarsi nelle varie situazioni proposte, ma è assolutamente impensabile che queste capitino tutte ai vari componenti della stessa famiglia nell'arco di poche ore, come succede verso la fine del film. Premio della Giuria a Cannes. Sostanzialmente deludente. Premio Un Certain Regard a Cannes.

Los guantes mágicos (Martín Rejtman, 2003, Arg)

Qualcuno parla bene di questa commedia, ma non è brillante, né grottesca; una serie di personaggi strani e depressi si incontrano, si associano, si danno consigli, ma sempre rimanendo nel campo dell’insulsaggine e ancor più spesso della depressione. La maggior parte di loro si scambiano notizie sui vari medicinali che assumono, talvolta uniti ad alcool, e a fantasiose terapie. Film sostanzialmente inutile, ancor più deludente in quanto il precedente lavoro del regista/sceneggiatore (Silvia Prieto, 1999) lasciava ben sperare, in quanto molto più arguto trattando di uno “scambio di vite” fra due giovani donne omonime, Silvia Prieto per l’appunto.

sabato 18 settembre 2021

Micro-recensioni 256-260: 10 noir USA classici (2: 1949-58)

Secondo gruppo di noir (qui le micro-recensioni dei primi 5) che ho voluto concludere con due eccezionali film di fine anni ’50, non fra i più visti e non proprio aderenti al classico cliché dei noir tendendo al genere crime e thriller, noti in Italia con i titoli La morte corre sul fiume e L'infernale Quinlan, come al solito non traduzioni letterali di quelli originali. I primi tre sono stati invece una (piacevole) novità per me. In sostanza, ottima cinquina.

 
Touch of Evil (Orson Welles, 1958, USA) aka L'infernale Quinlan

Stranamente questo film di e con Orson Welles ha goduto di circolazione ridotta, ma c’è da segnalare che la versione commerciale più comune fu ampiamente rimaneggiata dai produttori che addirittura aggiunsero nuove scene. Ciò indusse il regista a scrivere loro una famosa lettera di oltre una cinquantina di pagine nella quale contestava decisamente e punto per punto le loro scelte e chiedeva il ripristino del progetto originale. Come accadeva quasi sempre all’epoca, non solo a lui ma anche ad altri registi, non fu preso in considerazione e solo dopo anni fu eseguito un tentativo di ricostruire il film secondo la sceneggiatura originale; tale versione di trova su dvd ed è quella che ho guardato. L’infame e diabolico Quinlan è interpretato da un fantastico Orson Welles, qui con aspetto quasi terrificante, esaltato da un pesante trucco. Lo affiancano tanti caratteristi (p.e. il maltese Joseph Calleia) di valore che evidenziano la pochezza di uno dei tanti noti attori hollywoodiani sopravvalutati: Charlton Heston. Ci sono anche un paio di personaggi femminili relativamente minori, uno a carico della poco incisiva Vivien Leigh (la donna accoltellata in Psycho) e l’altra interpretata da Marlene Dietrich con il suo inossidabile sguardo magnetico. L'azione si sviluppa a cavallo del confine fra Messico e USA, fra tutori della legge corrotti, criminali dichiarati, di alto e basso rango, e chi investiga sul traffico internazionale di narcotici. Miglior film del 1958 per Cahiers du Cinema, Metascore 99 come Night of the Hunter.

The Night of the Hunter (Charles Laughton, 1955, USA) aka La morte corre sul fiume

Ottima sceneggiatura e grande interpretazione di Robert Mitchum in un ruolo per lui insolito. Discorso a parte merita la fotografia, pressoché perfetta ma troppo evidentemente da studio, esteticamente incisiva ma nonostante il gran lavoro sulle luci queste risultano oggettivamente irreali. Secondo me, altra pecca (senz’altro minore) è l’eccessivo uso di fauna selvatica locale in primo piano (assolutamente ininfluente nella storia) mentre sullo sfondo prosegue il viaggio dei piccoli protagonisti. Al contrario, a suo merito, devo sottolineare l’ottima caratterizzazione del predicatore, figura che nei film americani dell’epoca (ma anche in There Will Be Blood, 2007, 2 Oscar) è di solito un ciarlatano o ha una mente veramente perversa, che riesce ad irretire i bravi cittadini inducendoli a comportamenti irresponsabili e a soggiogare le vittime dei loro schemi. Unico film diretto da Charles Laughton, certamente molto più noto come attore (un Oscar e 2 Nomination) che come regista.

  

The Big Heat (Fritz Lang, 1953, USA) aka Io, la legge o Il grande caldo

Trama molto articolata che ha un punto in comune con quella di Touch of Evil per quanto riguarda i poliziotti corrotti, anche di rango, collusi con i malavitosi e senza scrupoli perfino nei confronti di colleghi onesti. E quando ci sono troppi soldi in gioco o scontri di potere si sa che tradimenti e delazioni sono all’ordine del giorno. Chi ricorda Fritz Lang solo per il suo periodo d’oro tedesco con capolavori come I NibelunghiIl dr. MabuseMetropolis e M, il mostro di Dusseldorf è bene che sappia che in USA diresse molti noir di più che buon livello fra i quali, prima di questo, ci sono infatti Fury con Spencer Tracy e Scarlet Street con Edward G. Robinson. I buoni registi di una volta raramente deludono, anche quando sono sottoposti a condizionamenti da parte dei produttori.

The Asphalt Jungle (John Huston, 1949, USA) aka Giungla di asfalto

Storia di un audace furto notturno in una gioielleria, ideato da un genio del crimine appena uscito di galera il quale, però, si deve affidare a vari sconosciuti per portare a termine il colpo. Come spesso accade in questi casi, non tutti manterranno gli impegni presi e tenteranno di ottenere una fetta maggiore del bottino. Il film conta su un buon cast senza grandi nomi (anche se, in una parte molto secondaria, appare anche Marylin Monroe), ma con assortimento di ottimi caratteristi, fra i quali si distingue Sam Jaffe che per questa prova ottenne la candidatura all’Oscar come non protagonista e fu anche premiato come miglior attore al Festival di Venezia nel quale Huston ebbe la nomination al Leone d’Oro. Il film ottenne anche altre 3 Nomination Oscar (miglior regia, sceneggiatura e fotografia).

Ace in the Hole (Billy Wilder, 1951, USA) aka Asso nella manica

Buon dramma sulla manipolazione delle notizie per farle diventare scoop e sul tentativo di mantenere vivo l’interesse quanto più a lungo possibile a qualunque costo. Altro aspetto evidenziato è quello del condizionamento delle masse presenzialiste, migliaia di persone in attesa che si risolva la situazione restano in un’area deserta, di fronte ad una parete rocciosa, per giorni, in sostanza a bighellonare. Oltre all’evento in sé che mobilita giornalisti e operatori, la presenza di tale folla richiama sul posto venditori ambulanti, ciarlatani, un luna park / circo mentre ciò che prima era gratuito diventa a pagamento, e sempre più caro. Kirk Douglas interpreta il giornalista in disgrazia che fortuitamente si imbatte nel caso e ad arte lo fa diventare un evento di interesse nazionale. Nomination Oscar sceneggiatura e miglior regia e commento musicale al Festival di Venezia, dove Billy Wilder fu candidato al Leone d’Oro.

mercoledì 15 settembre 2021

Micro-recensioni 251-255 - World Cinema: 2 URSS anni ’30, Svezia, India e Georgia

Da MUBI altri recuperi molto interessanti: due commedie drammatiche russe dei primi anni ’30, con velata propaganda stalinista, la seconda e più moderna muta e quasi surreale; una commedia (proprio così) sorprendentemente diretta da Bergman; un ennesimo dramma (leggero) del regista indiano Ray (quasi unanimemente considerato fra i migliori di sempre, in tutto il mondo) ed un sorprendente e affascinante biopic di un artista georgiano.

Pirosmani (Giorgi Shengelaia, 1969, Geo)

Ancora una volta dalla Georgia arriva un film che conferma la tradizionale qualità del cinema della ormai ex repubblica sovietica, che vanta antica propria cultura, lingua e scrittura. Pirosmani è il nome con il quale è comunemente conosciuto il pittore primitivista georgiano Nikoloz Aslanis Dze Pirosmanashvili (1862-1918), notissimo in patria, molto meno in Europa e oltreoceano se non fra gli esperti del settore. Artista autodidatta veramente originale per le sue scelte di vita (da vagabondo), in linea di massima non interessato al denaro, praticamente senza legami anche se benvoluto da tutti. Spesso regalava i suoi quadri o riceveva in cambio cibo e bevande (vino e vodka) dipingendo in loco e ciò spiega l’abbondanza di soggetti come tavolate, cantine, trattorie e feste all’aperto, ma dimostra anche grande interesse verso animali domestici e non. Ma non solo le opere mostrate sono affascinanti, anche il film è molto ben realizzato con ottima scelta di ambienti e attività tradizionali, lavorative e ricreative. Anche la scelta dei colori è singolare (dipinti e film) con molto nero con il quale contrastano tinte brillanti e a ciò si aggiungono le particolari tonalità della pellicola probabilmente prodotta nei paesi dell’est. Il film (consigliato) si trova anche su YouTube e per invogliarvi a guardarlo e a scoprire lo stile dell’artista georgiano aggiungo foto di qualcuno dei suoi quadri.






 
The Coward (Kapurush) (Satyajit Ray, 1965, Ind)

Dramma basato sull’incontro del tutto casuale di due ex fidanzati, lei ora sposata con un coltivatore di tè, lui sceneggiatore. Nel corso dei pochi giorni passati dal giovane in casa della coppia è evidente la tensione fra i due, ma per lui si tratta di un risveglio della passione, per lei una ostentata indifferenza (sincera?). Un dovuto flashback mostra gli eventi passati e quindi giustifica gli atteggiamenti di Karuna (la padrona di casa) e Amitabha (l’inatteso ospite). Solita ottima regia di Satyajit Ray con le interpretazioni di Madhabi Mukherjee e Soumitra Chatterjee (già apprezzati insieme in Charulata, 1964) che non sono da meno. Nomination Leone d’Oro a Venezia per la regia.

Smiles of a Summer Night (Ingmar Bergman, 1955, Swe)

Chi fosse convinto che Bergman abbia diretto solo mattoni (a prescindere dalla qualità) si dovrà ricredere poiché qui si tratta di una commedia romantica, come esplicitamente messo in evidenza nei titoli di testa. I personaggi sono un affermato avvocato con una moglie molto giovane (apparentemente illibata) della quale è invaghito il figlio di lui, un’avvenente e navigata attrice contesa fra l’avvocato e un ufficiale di cavalleria pronto a sfidare a duello chicchessia, anche lui con giovane moglie, amica della moglie dell’avvocato; ma c’è anche una giovane, avvenente e intraprendente cameriera sempre pronta a provocare gli uomini che le stanno attorno. La commedia si concluderà nella ricca residenza della madre dell’attrice, donna di grande esperienza (in tutti i sensi, almeno a quanto lascia intendere) che dispensa saggi consigli (non sempre morali) a tutti i suoi ospiti. Certamente differente da qualunque film di Bergman abbiate visto!

 
  • Outskirts (Okraina) (Boris Barnet, 1933, URSS)
  • Happiness (Schaste) (Aleksandr Medvedkin, 1935, URSS)

Questi due film, come anticipato, alludono alla situazione della vita nelle campagne sovietiche con riferimenti ai dogmi rivoluzionari. Nel primo l’azione si svolge in una cittadina di confine nella quale la principale produzione sembra essere quella delle calzature; lì convivevano pacificamente russi e tedeschi ma con la guerra i rapporti cambiano e il giovane tedesco protagonista della storia viene aggredito da alcuni, protetto e difeso da altri, fra i quali una sua pretendente.

Nel secondo, muto pur essendo del 1935, si assiste invece ad una commedia grottesca dai risvolti talvolta surreali o semplicemente caricaturali. Ambientato all’epoca dell’Impero Russo, prima della rivoluzione d’ottobre, c’è l’avido prete, il pigro cavallo (a pois), il granaio portato in giro a spalla. C’era anche un’altra particolarità, purtroppo andata persa: la sequenza iniziale fu la prima filmata a colori dalla Mosfilm.

lunedì 13 settembre 2021

Micro-recensioni 246-250: 10 noir USA classici (1: ’41-’49)

Prima parte di una selezione di 10 noir dell’epoca d’oro del genere, scelti fra i più quotati e che non guardavo da vari anni. L’eccezionale lista dei registi è composta da nomi che hanno fatto la storia del cinema americano e non solo: Huston (2), Wilder (2), Curtiz, Hawks, Walsh, Lang, Laughton e Welles. Non è da meno l’elenco delle star che comprende Humphrey BogartEdward G. Robinson, James Cagney, Kirk Douglas, Glenn Ford, Robert MitchumCharlton HestonOrson Welles. I loro rating medi sono 8,1 su IMDb e 96% su RT che quindi suggeriscono di guardarli tutti (qui proposti in ordine cronologico) a prescindere dai miei consigli, comunque tutti positivi.

The Maltese Falcon (John Huston, 1941, USA) aka Il mistero del falco

Un vero classico sempre inserito ai primi posti nelle classifiche dei film del genere e dell’epoca che però, pur parlando di ottimi film, non è fra i miei preferiti. Praticamente tutti i personaggi principali sono esagerati, in un senso o nell’altro: Bogart uomo irresistibile (?) dal pugno fulminante, la sua cliente per niente credibile, il grassone troppo caricaturale per quanto divertente (soprattutto nei dialoghi), il guardaspalle assolutamente incapace e Peter Lorre nel solito stereotipo di subdolo viscido. Eppure grazie alla regia di Huston e nonostante la trama a dir poco fantasiosa si lascia guardare con interesse fino alla fine. Nomination Oscar miglior film, sceneggiatura Sydney Greenstreet (il grassone) non protagonista.

Double Indemnity (Billy Wilder, 1944, USA) aka La fiamma del peccato

Altro film citato sempre fra i migliori (veri) noir, distribuito in Italia con un titolo assurdo, considerato che l’originale si riferisce invece al nocciolo della questione, il pagamento di un doppio indennizzo da parte dell’assicurazione. Al contrario di The Maltese Falcon, qui ci sono tanti personaggi comuni e credibili che quindi non obbligati ad essere supereroi o furbissimi. Grazie alla loro presenza e alle casualità ben congegnate si creano varie situazioni quasi da thriller. La buona regia, la bella fotografia b/n e le interpretazioni hanno contribuito ulteriormente a farne un cult. Al 113° posto fra i migliori film di tutti i tempi, ottenne 7 Nomination Oscar: miglior film, regia, sceneggiatura, fotografia, Barbara Stanwyck protagonista, commento musicale e sonoro)

  
Mildred Pierce (Michael Curtiz, 1945, USA) aka Il romanzo di Mildred

Questo è forse il meno conosciuto di questo gruppo ma certo non sfigura in confronto agli altri, a differenza dei quali ha una maggior componente romantica e la vera protagonista è la donna del titolo, interpretata da Joan Crawford. Inizia con un omicidio a sangue freddo e la storia che potrebbe sembrare semplice in un primo momento si complica sempre di più nel racconto dei precedenti di Mildred, narrati in flashback. Vi compaiono tanti personaggi di vario genere, che spariscono per un certo tempo per poi ricomparire. Ad ulteriore differenza degli altri ci sono anche due co-protagoniste, la figlia di Mildred, croce e delizia della madre, causa scatenante di mille problemi e la sua assistente. Oscar a Joan Crawford protagonista e 5 Nomination (miglior film, sceneggiatura, fotografia e a Eve Arden e Ann Blyth non protagoniste)

The Big Sleep (Howard Hawks, 1946, USA) aka Il grande sonno

Tratto dall’omonimo romanzo di Chandler in cui per la prima volta appare il detective Philip Marlowe, che successivamente sarà protagonista di altri romanzi e film. Non riuscendo a giustificare il titolo ho effettuato una breve ricerca scoprendo che il protagonista si riferisce alla morte come grande sonno in una sua considerazione al termine del romanzo … ora lo sapete anche voi. Storia molto articolata e intricata, piena di doppiogiochisti, tradimenti e minacce che garantisce di non annoiarsi assolutamente durante la visione. Certamente più violento dei precedenti, ma questa è una caratteristica delle storie in cui appare Marlowe il quale, ad un certo punto, viene regolarmente pestato … ma non mancano i morti. Gossip: su questo set nacque la passione fra Bogart e Lauren Bacall che convolarono a nozze pochi mesi dopo.

White Heat (Raoul Walsh, 1949, USA) aka La furia umana

Qui il protagonista è James Cagney in uno dei suoi tanti ruoli di cattivo, spietato e psicopatico, con un rapporto quasi morboso con l’anziana madre. Mettendo in atto un piano teoricamente ben congegnato, finisce in galera dove, però, viene controllato da un agente sotto copertura. Snella e veloce la prima parte con il colpo al treno, piena di tensione quella centrale in prigione, da thriller l’ultima audace rapina, con finale letteralmente esplosivo. Bravi tutti gli attori della gang (anche se i loro nomi non sono molto noti) nonché le sole due attrici: Margaret Wycherly (già quasi 70enne, nel ruolo della madre) e Virgina Mayo (l’avvenente bionda di turno). Nomination Oscar per la sceneggiatura.

venerdì 10 settembre 2021

Micro-recensioni 241-245: World Movies … Kazakistan, Colombia, Cina e India

Un interessantissimo documentario colombiano è accompagnato da un film sulla gioventù di Gengis Khan, una detective story cinese con intrighi di palazzo e altri 2 film dell’Indian Parallel Cinema.

 

Ciro y yo 
(Miguel Salazar, 2018, Col)

Il protagonista è Ciro Galindo (classe 1952), che interpreta sé stesso. Narra la incredibile e sventurata storia costellata di morti, arruolamenti forzati di bambini soldato, FARC, truppe paramilitari, servizi segreti poco affidabili; una vita passata a tentare di sfuggire alla violenza, non a caso diventa emblematica la frase: “dovunque andasse, la guerra lo trovava”. Il regista e direttore della fotografia Miguel Salazar, decise di realizzare questo documentario dopo 20 anni di amicizia con Ciro e con la sua famiglia i cui unici sopravvissuti sono lui e suo figlio Esneider. Attualmente vanta un ottimo e giustificato 8,3 su IMDb.

Detective Dee: the Phantom Flame (Hark Tsui, 2011, Cina)

Film spettacolare che ho recuperato dopo averlo visto al cinema una decina di anni fa. Ambientato alla fine del VII secolo, all’epoca dell’incoronazione dell’unica Imperatrice cinese della storia: Wu Zetian. I preparativi per la cerimonia sono turbati da inspiegabili incidenti … persone che vanno a fuoco ed in pochi minuti si inceneriscono. Agli intrighi mirati a sabotare la celebrazione, nei quali tanti sono i sospetti per i più svariati motivi, si alternano i classici combattimenti e movimenti di masse di soldati. Toccherà al Detective Dee (Andy Lau) risalire alla causa delle misteriose fiammate e smascherare chi trama contro l’Imperatrice. L’ottima fotografia, la ricca scenografia e i colorati e sfarzosi costumi sono predominanti sulla trama che comunque è intricata e piena di sorprese fino all’ultimo. Molto piacevole e, quindi, consigliato.

  

Mongol (Sergey Bodrov, 2007, Kaz)

Candidato Oscar come miglior film non in lingua inglese è uno dei pochi prodotti dal Kazakistan. Scorrendo velocemente l’ascesa al potere del giovane Temudjin (il futuro Gengis Khan), il regista russo approfitta spudoratamente (ma bene) degli spettacolari paesaggi dell’Asia più interna, fra Kazkistan, Mongolia e Cina. Abbastanza fedele ai fatti storici riesce a mantenere viva l’attenzione dello spettatore anche se, chiaramente, alcuni eventi sono molto romanzati. Senz’altro vale la pena guardarlo, almeno per godere della vista di deserti e steppe infinite, nonché per conoscere qualcosa della vita da nomadi dei mongoli, con le yurta (le loro caratteristiche tende), gli originali abiti e gli animali al seguito.

  • Bazaar (Sagar Sarhadi, 1982, Ind)
  • Gaman (Muzaffar Ali, 1978, Ind)

Questi sono gli unici altri due film dell’Indian Parallel Cinema che sono riuscito a recuperare con sottotitoli inglesi, dopo aver visto Ankur (1974, Shyam Benegal) la settimana scorsa. Se Bazaar si è rivelato molto interessante per approfondire l’argomento dei matrimoni combinati (fra adulti, non spose bambine) Gaman è risultato molto deludente. Nel primo la protagonista è Smita Patil, reputata una delle migliori attrici indiane di sempre, impegnata politicamente, quasi icona del Parallel Cinema, con ben 80 film all’attivo nonostante il debutto a 20 anni e la prematura morte a 31. In poche parole, se ne avrete l’occasione, guardate Bazaar ed evitate Gaman.

domenica 5 settembre 2021

Micro-recensioni 236-240: cinema asiatico fra classici e originalità

Altra cinquina tutta recuperata su MUBI, ma stavolta ci spostiamo in Asia, con 3 film indiani, uno dello Sri Lanka (assolutamente niente male) e un deludente ma interessante sino/americano modernissimo. Come gli esami (Eduardo De Filippo), le sorprese non finiscono mai.
  

Ankur (Shyam Benegal, 1974, Ind)

Uno dei cult dell’Indian Parallel Cinema, al quale il Festival Cinema Ritrovato di Bologna di quest’anno ha dedicato una sezione; avendo apprezzato questo mi sono messo alla ricerca di altri e ne ho trovati due che inserirò nella prossima cinquina. In rete potrete trovare molti articoli sul genere che dal resto non differisce molto nello stile, ma nei contenuti, puntando spesso ad una rivalutazione dei ruoli femminili e affrontando i problemi derivanti dalle relazioni fra le caste. Nel film tutti i protagonisti sono in un modo o nell’altro deprecabili anche se ognuno, in qualche momento, ha qualche momento di sano orgoglio e buonsenso. Senz’altro meritevole di una visione.

The Wasps are Here (Darmasena Pathiraja, 1978, LKA)

Anche se in questo caso i problemi fra i protagonisti derivano più da questioni sentimentali e sociali che da quelle economiche, questo non può non riportare alla mente altri ottimi film con soggetto pesca tradizionale e contrasti della comunità dei pescatori con i commercianti o armatori come due ottimi film messicani quali Redes (1936, esordio, seppur in co-regia, di Fred Zinnemann) e Janitzio (1935, Carlos Navarro, con Emilio El Indio Fernández) per non parlare di La terra trema (1948, Rossellini) ispirato dai Malavoglia di Verga e ambientato ad Acitrezza, Sicilia. Tutti e tre i film citati non solo sono ottimamente girati e interpretati (pur contando su molti interpreti non professionisti) ma sono di grande valore antropologico. Volendo trovare una pecca in questo mio primo film dello Sri Lanka, certamente il discorso politico del socialista appare un po’ fuori luogo anche se non sembra aver gran presa sugli astanti. Ben filmato e interpretato, nonché restaurato pochi anni fa, include parte documentaristica breve ma significativa. Consigliato.

  
The Chess Players (Satyajit Ray, 1977, Ind)

Inaspettatamente ci si trova davanti ad una commedia, certo non il genere solito di Ray, e si apprende che fu anche l’unico suo film parlato in hindi e non in bengali come tutti gli altri. Una parte del cast è inglese e, nelle vesti del General James Outram, c’è nientemeno che Richard Attenborough. La parte storica (date, luoghi e nomi) è vera, il resto è ovviamente romanzato se non di pura fantasia. Ma i veri indiscussi protagonisti sono i due amici appassionati di scacchi che, per una partita, dimenticano mogli, casa e perfino i gravi subbugli politici in corso. Adattamento di un romanzo di Tagore (Nobel per la letteratura nel 1913), il film mette in evidenza sia l’arroganza, la sostanziale ignoranza e l’avidità degli inglesi, sia la generale apatia e indifferenza degli indiani nei confronti della politica.

The Home and the World (Satyajit Ray, 1984, Ind)

Dramma a sfondo storico che fa conoscere gli ideali Swadeshi, movimento nazionalista indiano di inizio secolo scorso. Un leader del movimento si insedia in casa di un suo vecchio amico di studi (di idee certamente diverse) e riesce a coinvolgerne la moglie, che si lascia facilmente influenzare. Il concetto di libertà intellettuale si dimostrerà perdente rispetto alla vanagloria del dirigente politico disposto a trascurare i contrasti religiosi, sociali ed economici. Come per The Chess Players, pur cimentandosi in generi per lui non usuali, Satyajit Ray riesce a produrre film consistenti e tecnicamente pregevoli fornendo a noi occidentali nuove chiavi di lettura e spunti di riflessione in merito alla società indiana.

Dead Pigs (Cathy Yan, 2018, Cina/USA)

Commedia quasi dark che comincia bene presentando i vari personaggi principali (molto diversi fra loro) che poi si dimostreranno avere legami. Uno sguardo sulla Cina moderna, con tanti ricchi che vorrebbero vivere all’occidentale imitandone (male) lo stile. Il titolo si riferisce ad un vero fatto di cronaca, il ritrovamento di migliaia di maiali morti in un fiume alle porte di Shanghai ed alla storia si aggiunge la resistenza della proprietaria di una casa che si rifiuta di abbandonare, bloccando di fatto la costruzione del totalmente nuovo insediamento con replica della Sagrada Familia di Barcellona ma si pensa anche ad uno con Arco di Trionfo e Torre Eiffel più grandi delle reali strutture parigine! Fra un eccesso e l’altro il film perde di verve e di interesse, fino a scadere molto nel finale con karaoke (gli spettatori cinesi in sala avranno cantato?) e conclusione poco plausibile. Ai protagonisti appartenenti a vari settori dell’attuale Cina si aggiunge un giovane architetto americano, tutti palesemente esagerati; il sotterfugio del ragazzo per racimolare la somma del quale il padre ha bisogno, appare come una citazione/copia di Shônen (aka Boy, aka Il bambino, di Nagisa Oshima, 1969, Jap); il marketing ultracolorato con balletti e refrain demenziali è assolutamente kitsch; lasciano perplessi le tante scene di strade incredibilmente deserte (a Shanghai???) che fanno sparire milioni di cinesi dallo schermo. Guardabile per curiosità verso la Cina moderna, assumendo che buona parte di quanto mostrato sia vero.

giovedì 2 settembre 2021

Micro-recensioni 231-235: 2 Balabanov e 3 Jodorowsky

Da MUBI ho recuperato un paio di film di Jodorowski che mi mancavano (il primo e il penultimo dei suoi soli 8) e ho guardato di nuovo e con piacere El Topo in HD. Inoltre, mi sono lanciato alla scoperta del nuovo (di una ventina d’anni fa) cinema d’azione russo che ha il suo profeta in Aleksey Balabanov il quale è anche riuscito a realizzare un sequel per me migliore dell’originale.

NB – non ho guardato questi cinque film in un solo giorno … il post pubblicato ieri era arretrato ed avevo già anticipato la visione dei due russi.

 
  • Brother (Aleksey Balabanov, 1997, Russia)
  • Brother 2 (Aleksey Balabanov, 2000, Russia)

In entrambe i film il protagonista è Danila (Sergey Bodrov), un reduce della guerra in Cecenia, lui dice in veste di scrivano ma dalla sua dimestichezza con esplosivi e armi che modifica e maneggia con grande maestria i dubbi sono leciti. Apparentemente pacato e quasi sempre sorridente, ha ideali a valori sostanzialmente positivi che persegue con convinzione, difendendo familiari, donne in difficoltà ed innocenti, ma agendo in modo spietato solo contro i cattivi. Pur realizzando film senz’altro violenti, non eccede in immagini cruente ma fa solo intuire quello che sta per succedere e/o che è appena successo (insomma non è splatter), il tutto con una buona dose di ironia che in più momenti lo fa sembrare una dark comedy. Per questo lo si potrebbe definire un Guy Ritchie russo che ma, differenza del regista inglese, è meno esplosivo, esuberante e caricaturale; seppur con le necessarie esagerazioni per questo genere, riesce ad aggiungere contenuti e satira alle dispute in ambiente mafioso. Se il primo film si svolge per lo più a Pietroburgo, nel secondo spazia da Mosca agli USA avendo così modo di prendere in giro gli stili di vita yankee inserendo anche temi razzisti, ma non risparmia neanche gli ucraini. Altro personaggio presente nei due film è naturalmente suo fratello maggiore Viktor (Viktor Sukhorukov), piccolo malvivente alcolizzato e assolutamente inaffidabile, causa di un’infinità di problemi anche se qualche volta riesce ad essere utile. La buona regia e le belle riprese portano lo spettatore nel vero underworld russo, certamente più credibile di quello proposto nei film occidentali. Brat (titolo originale) fu presentato nella sezione Un Certain Regard a Cannes e al Torino Film Festival vinse Premio speciale della giuria e Premio FIPRESCI. Consigliata la visione, ovviamente in ordine cronologico; penso valga la pena di guardare anche qualche altro film diretto da Aleksey Balabanov.

  
El Topo (Alejandro Jodorowsky, 1970, Mex)

Questo è per me il migliore film di Jodorowsky, autore e regista di cinema e teatro, attore, compositore, scrittore e fumettista cileno, da sempre vicino al mondo dei surrealisti, forse l’unico vero erede di Luis Buñuel. A parte avere una trama più lineare, il che aiuta la visione, conta su un’ottima fotografia che sfrutta location molto singolari e su stimolanti dialoghi. Nel film lui interpreta il personaggio principale e il bambino è effettivamente suo figlio Brontis (al suo esordio, 7 anni) che sarà poi protagonista degli ultimi due film del padre, La danza de la realidad (2013, diretto dopo 23 anni di silenzio, all’età di 84 anni) ed il suo sequel Poesía sin fin (2016). In più pagine viene assimilato al genere western, ma non penso che un cavallo, con relativo cavaliere con colt alla cintola non bastino per definirlo così. Certamente è tutt’altro e molto di più, certamente surreale e visionario; uno di quei film che non si possono descrivere in breve in quanto ogni tentativo risulterebbe inevitabilmente riduttivo. Da non perdere.

La danza de la realidad (Alejandro Jodorowsky, 2013, Mex)

Piacevole sorpresa, film che non avevo mai visto. Il regista torna nel suo paesello natio sulla costa cilena, Tocopilla, 25.000 abitanti, 1.500km a nord della capitale, a 600km dal confine con il Perù, per realizzare un film in gran parte autobiografico, ma inevitabilmente con grande creatività fantastica e onirica. Come lui, il protagonista nasce in una famiglia ebreo-ucraina ed ha qualche problema con i suoi coetanei. La madre è interpretata da Pamela Flores, al suo secondo film ma già nota cantante lirica cilena, che durante tutto il film non parla mai normalmente ma si esprime sempre con arie da soprano. Oltre a Brontis, che ha un ruolo importante, qui recitano anche Adan e Axel, altri 2 figli del regista/attore e Jeremías Herskovits (nipote di Jodorowsky) che interpreta il nonno da giovane. Nel cast compaiono personaggi circensi, nazisti, masse di emarginati, il dittatore cileno Ibáñez (che suo padre veramente affermava di voler assassinare) e chi più ne ha più ne metta, in puro stile jodoroskiano. Il film fu presentato a Cannes ricevendo al termine una standing ovation.

Fando y Lis (Alejandro Jodorowsky, 1968, Mex)

Abbastanza deludente in quanto troppo esagerato e discontinuo anche se ha, a sua giustificazione, il fatto di essere l’opera prima di Jodorowsky, che proveniva da esperienze di palcoscenico e in questo caso adattava un lavoro teatrale di Arrabal. Non è fluido e spesso rallenta, la recitazione, ripeto, è troppo di tipo teatrale, insomma non riesce a convincere, specialmente conoscendo quello che successivamente il geniale ed estroverso regista cileno è riuscito a produrre. I protagonisti Fando e Lis nel loro viaggio alla ricerca della città di Tar, dove sperano che Lis possa essere guarita dalla sua semiparalisi, avranno varie disavventure e si imbatteranno in strani personaggi. Nel film (girato in bianco e nero) si mischiano surrealismo e sadismo, gratuita violenza fisica e psicologica, in una ambiente semidesertico, fra polvere e pietre. Assolutamente non per tutti, tuttavia interessante per (tentare di) avere un quadro complessivo dell’opera di Jodorowsky.