domenica 5 settembre 2021

Micro-recensioni 236-240: cinema asiatico fra classici e originalità

Altra cinquina tutta recuperata su MUBI, ma stavolta ci spostiamo in Asia, con 3 film indiani, uno dello Sri Lanka (assolutamente niente male) e un deludente ma interessante sino/americano modernissimo. Come gli esami (Eduardo De Filippo), le sorprese non finiscono mai.
  

Ankur (Shyam Benegal, 1974, Ind)

Uno dei cult dell’Indian Parallel Cinema, al quale il Festival Cinema Ritrovato di Bologna di quest’anno ha dedicato una sezione; avendo apprezzato questo mi sono messo alla ricerca di altri e ne ho trovati due che inserirò nella prossima cinquina. In rete potrete trovare molti articoli sul genere che dal resto non differisce molto nello stile, ma nei contenuti, puntando spesso ad una rivalutazione dei ruoli femminili e affrontando i problemi derivanti dalle relazioni fra le caste. Nel film tutti i protagonisti sono in un modo o nell’altro deprecabili anche se ognuno, in qualche momento, ha qualche momento di sano orgoglio e buonsenso. Senz’altro meritevole di una visione.

The Wasps are Here (Darmasena Pathiraja, 1978, LKA)

Anche se in questo caso i problemi fra i protagonisti derivano più da questioni sentimentali e sociali che da quelle economiche, questo non può non riportare alla mente altri ottimi film con soggetto pesca tradizionale e contrasti della comunità dei pescatori con i commercianti o armatori come due ottimi film messicani quali Redes (1936, esordio, seppur in co-regia, di Fred Zinnemann) e Janitzio (1935, Carlos Navarro, con Emilio El Indio Fernández) per non parlare di La terra trema (1948, Rossellini) ispirato dai Malavoglia di Verga e ambientato ad Acitrezza, Sicilia. Tutti e tre i film citati non solo sono ottimamente girati e interpretati (pur contando su molti interpreti non professionisti) ma sono di grande valore antropologico. Volendo trovare una pecca in questo mio primo film dello Sri Lanka, certamente il discorso politico del socialista appare un po’ fuori luogo anche se non sembra aver gran presa sugli astanti. Ben filmato e interpretato, nonché restaurato pochi anni fa, include parte documentaristica breve ma significativa. Consigliato.

  
The Chess Players (Satyajit Ray, 1977, Ind)

Inaspettatamente ci si trova davanti ad una commedia, certo non il genere solito di Ray, e si apprende che fu anche l’unico suo film parlato in hindi e non in bengali come tutti gli altri. Una parte del cast è inglese e, nelle vesti del General James Outram, c’è nientemeno che Richard Attenborough. La parte storica (date, luoghi e nomi) è vera, il resto è ovviamente romanzato se non di pura fantasia. Ma i veri indiscussi protagonisti sono i due amici appassionati di scacchi che, per una partita, dimenticano mogli, casa e perfino i gravi subbugli politici in corso. Adattamento di un romanzo di Tagore (Nobel per la letteratura nel 1913), il film mette in evidenza sia l’arroganza, la sostanziale ignoranza e l’avidità degli inglesi, sia la generale apatia e indifferenza degli indiani nei confronti della politica.

The Home and the World (Satyajit Ray, 1984, Ind)

Dramma a sfondo storico che fa conoscere gli ideali Swadeshi, movimento nazionalista indiano di inizio secolo scorso. Un leader del movimento si insedia in casa di un suo vecchio amico di studi (di idee certamente diverse) e riesce a coinvolgerne la moglie, che si lascia facilmente influenzare. Il concetto di libertà intellettuale si dimostrerà perdente rispetto alla vanagloria del dirigente politico disposto a trascurare i contrasti religiosi, sociali ed economici. Come per The Chess Players, pur cimentandosi in generi per lui non usuali, Satyajit Ray riesce a produrre film consistenti e tecnicamente pregevoli fornendo a noi occidentali nuove chiavi di lettura e spunti di riflessione in merito alla società indiana.

Dead Pigs (Cathy Yan, 2018, Cina/USA)

Commedia quasi dark che comincia bene presentando i vari personaggi principali (molto diversi fra loro) che poi si dimostreranno avere legami. Uno sguardo sulla Cina moderna, con tanti ricchi che vorrebbero vivere all’occidentale imitandone (male) lo stile. Il titolo si riferisce ad un vero fatto di cronaca, il ritrovamento di migliaia di maiali morti in un fiume alle porte di Shanghai ed alla storia si aggiunge la resistenza della proprietaria di una casa che si rifiuta di abbandonare, bloccando di fatto la costruzione del totalmente nuovo insediamento con replica della Sagrada Familia di Barcellona ma si pensa anche ad uno con Arco di Trionfo e Torre Eiffel più grandi delle reali strutture parigine! Fra un eccesso e l’altro il film perde di verve e di interesse, fino a scadere molto nel finale con karaoke (gli spettatori cinesi in sala avranno cantato?) e conclusione poco plausibile. Ai protagonisti appartenenti a vari settori dell’attuale Cina si aggiunge un giovane architetto americano, tutti palesemente esagerati; il sotterfugio del ragazzo per racimolare la somma del quale il padre ha bisogno, appare come una citazione/copia di Shônen (aka Boy, aka Il bambino, di Nagisa Oshima, 1969, Jap); il marketing ultracolorato con balletti e refrain demenziali è assolutamente kitsch; lasciano perplessi le tante scene di strade incredibilmente deserte (a Shanghai???) che fanno sparire milioni di cinesi dallo schermo. Guardabile per curiosità verso la Cina moderna, assumendo che buona parte di quanto mostrato sia vero.

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