domenica 30 ottobre 2022

Microrecensioni 306-310: Emilio Fernández e Alberto Gout, Epoca de Oro mexicana

Gruppo molto omogeneo, relativi a due soli registi, ognuno con il suo direttore della fotografia preferito (due maestri del b/n Gabriel Figueroa per Fernández e Alex Phillips per Gout), film drammatici girati intorno al 1950 che spaziano dai noir con forti connotazioni musicali (cabareteras / rumberas / ficheras), al revenge, all’ideologico-politico. Film poco conosciuti ma che vale senz’altro la pena guardare, non a caso sono fra i più apprezzati della Epoca de Oro del Cine Mexicano durante la quale si distinsero grandi registi, ottimi direttori della fotografia e tanti buoni attori, caratteristi e cantanti. Non a caso tutt'oggi vengono analizzati con attenzione in ricorrenti mostre, conferenze e vari corsi ad essi specificamente dedicati nell'ambito della cinematografia messicana.


I tre generi musicali sopra citati sono spesso accomunati, ma racchiudono sottili differenze: 

  • Cabareteras si riferisce chiaramente alle artiste che si esibivano nei cabaret di livello medio-alto, di facciata signorile (attorno ai quale si sviluppa la trama). In tali film si ritrovano anche famosissimi musicisti come Pérez Prado (El Rey del Mambo) che interpretò sé stesso in una mezza dozzina di film, insieme con la sua orchestra;
  • Rumberas richiama specificamente il tipo di danza proposta da ballerine soprattutto di origine cubana, le più famose furono María Antonieta Pons, Ninón Sevilla, Rosa Carmina, Amalia Aguilar e Meche Barba (l’unica messicana), mentre le star del precedente genere che si esibivano nello stesso tipo di locali raffinati potevano essere anche solo cantanti famose (come Toña La Negra o María Luisa Landín);
  • Ficheras erano letaxi dancers, donne che ballavano balli di coppia con i clienti ricevendo una ficha (valida per una singola canzone) che il cliente comprava in precedenza e sul prezzo della quale la fichera riceveva una commissione (questo avveniva perlopiù in locali di livello inferiore e il dopoballo era facoltativo ed in alcuni casi sottinteso anche se ufficialmente proibito.

Musica e danza sono sempre state attività molto amate dai messicani e a metà del secolo scorso i locali da ballo era numerosissimi variando dai cabaret e night di lusso con tanto di orchestra in costume e palco con ricche scenografie, alle cantine equivoche con pochi musicisti, talvolta una/un cantante e tante ficheras. In dette sale (di qualunque tipo) giravano quindi soldi, spesso tanti e molte volte di provenienza illecita, c’erano persone che spendevano i loro pochi soldi per bere e ballare con una ragazza, veri criminali e delinquenti di bassa lega, protettori e chi più ne ha più ne metta. Su queste basi gli sceneggiatori potevano quindi costruire tante trame diverse, raramente ripetitive e l’azione veniva intervallata con vari pezzi musicali, danze spesso caraibiche e, budget permettendo, canzoni interpretate da guest star che quindi interpretavano sé stessi.  Per esempio, restando ai film di questo gruppo, Pedro Vargas (uno dei più famosi cantanti di boleros dell’epoca) in Aventurera canta un paio di volte alcune strofe della canzone omonima, mentre in Víctimas del pecado si esibisce con Pecadora, entrambe composte dal mitico Agustin Lara, che conta anche molte partecipazioni come attore e non solo come cantautore. Vari ottimi interpreti principali si ritrovano in più film (Ninón Sevilla, Tito Junco, Rodolfo Acosta, Miguel Inclán) e gli altri non sono da meno come María Félix, i fratelli Domingo e Fernando Soler, il villano per antonomasia Carlos López Moctezuma, Marga López e Columba Domínguez

 
Considerata la lunga introduzione (che è valida per 4 dei 5 film), cercherò di essere conciso in quanto ai commenti delle singole pellicole. Comincio con le 2 dirette da Alberto Gout, come detto entrambe con la fotografia di Alex Phillips

  • Aventurera (Alberto Gout, Mex, 1950)
  • Sensualidad (Alberto Gout, Mex, 1951)

Il primo è generalmente considerato il miglior film dei generi in questione, senza dubbio di livello molto superiore agli altri sia per l'ottima sceneggiatura, che per la fotografia e le interpretazioni. La storia originale di Álvaro Custodio è particolarmente intrigante ed è adattata (da lui stesso insieme con Alberto Gout e Carlos Sampelayo) in un capolavoro di intrecci, sorprese, twist, incontri casuali e ritorni, conditi con ricatti, vendette, tratta di ragazze, sparatorie e accoltellamenti, rapine, incarcerazioni, in un vero vortice di avvenimenti che nella seconda parte includono anche molta “vendetta psicologica”.

Il secondo segue invece una vera e propria trama revenge con una ballerina (Ninón Sevilla) che, dopo aver scontato 2 anni di carcere, circuisce (non si tratta di semplice seduzione) l’attempato giudice (l’ottimo Fernando Soler) che l’aveva condannata. La mangiatrice di uomini, con la collaborazione del suo compare, minerà moralità della sua inizialmente integerrima vittima, ma lungo il percorso non tutto andrà come previsto.

  

  • Rio Escondido (Emilio Fernández, Mex, 1946)
  • Salón México (Emilio Fernández, Mex, 1949)
  • Víctimas del pecado (Emilio Fernández, Mex, 1950)

Fra i tre film di Emilio El Indio Fernández inseriti in questa cinquina, il primo niente ha a che vedere con i locali cittadini o con la musica, ma è un vero e proprio manifesto politico e ideologico, pro alfabetizzazione e cultura indigena, concetto reso ancor più evidente, se mai ce ne fosse stato bisogno, dai discorsi (quasi proclami) inseriti sui titoli di testa e di coda, dalla lettera del Presidente e dalla viva voce della maestra rurale Rosaura Salazar (María Félix). In breve, il Presidente della Repubblica Messicana, decide di inviare un gran numero di maestri nei pueblos più lontani e isolati nell’ambito di una grande operazione di alfabetizzazione. Si dovrà scontrare (anche fisicamente) con lo spietato Regino Sandoval (Carlos López Moctezuma, perfetto per il ruolo) che domina incontrastato a Rio Escondido. Definirlo drammatico sarebbe riduttivo, potendolo senz’altro definire tragico ma è proprio quest’aspetto che lo rese più famoso in quanto è dichiaratamente dalla parte degli oppressi, siano essi mestizos o indigenas. Particolarmente apprezzabile la fotografia curata da Gabriel Figueroa favorita dal fatto che il film è girato in gran parte in esterni.

Passando ai due musicali, si deve notare che Salón México (che si svolge per lo più in locali di basso livello) fu il primo ottimo approccio di Fernández con il genere nel quale confermò la sua maestria e di conseguenza il suo successo. In Víctimas del pecado la parte noir viene sminuita dall’inserimento nella trama di un bambino (fin dalla sua nascita) che gioca un ruolo fondamentale negli sviluppi successivi, rendendolo un po’ troppo melodrammatico -strappalacrime. In entrambe i film il cattivo senza scrupoli è interpretato da Rodolfo Acosta, nel campo dei villanos dell’epoca secondo solo Carlos López Moctezuma, ma in questi ruoli avvantaggiato dall’essere più atletico e di oltre 10 anni più giovane.

Cinquina consigliata in blocco …

martedì 25 ottobre 2022

Microrecensioni 301-305: cinquina di rarità

A uno storico film finlandese pieno di renne, seguono piccole protagoniste di etnie singolari, steppe mongole, tanta natura con spettacolari paesaggi e animali selvatici, un’area storico / religiosa afghana; chiude quello che è molto probabilmente il film meno conosciuto di Totò, ma leggete fino in fondo per sapere in compagnia di chi!

 

Buddha collapsed out of shame (Hana Makhmalbaf, Iran/Fra/Afg, 2007)

Figlia dell’apprezzato regista iraniano Mohsen Makhmalbaf (GabbehA Moment of InnocenceKandahar, …) è la più giovane regista di sempre in concorso al Festival di Venezia (a 14 anni), ma in precedenza, a 8 anni, aveva partecipato anche al Festival di Locarno con il suo primo corto. La protagonista è una fantastica bambina di 5 anni, serafica e imperturbabile ma soprattutto pertinace che vuole andare a scuola a ogni costo, cosa evidentemente difficile essendo della minoranza etnica hazara, da sempre osteggiata, se non perseguitata. La location è la valle di Bamiyan (Afghanistan) dove per ben 14 secoli (qualcuno dice 18) si sono potute ammirare due gigantesche statue di Buddha (alte rispettivamente 55 e 38 m, ricavate dalla viva roccia e quindi protette in una specie di nicchia) finché nel 2001 il Mullah Omar, sull’onda dell’iconoclastia talebana ne ordinò la distruzione. A causa della loro struttura (un solo pezzo di roccia) la cosa non fu per niente facile e ci vollero cannonate e cariche di dinamite per farle crollare. 


 

Il film è stato girato proprio di fronte alle enormi nicchie ormai vuote e nelle grotte scavate nei dintorni per accogliere monaci e pellegrini. Per dare un’idea della situazione (anche se non c’è alcuna reale violenza, neanche sottintesa, ma solo bullismo, anche da parte di alcune bambine) vi anticipo che i ragazzini giocano a fare i talebani che combattono contro gli americani e prendono in ostaggio le bambine che a volte vengono lapidate (sempre nel gioco, non vola neanche una pietra). Premiato a Berlino e a Roma.

The White Reindeer (Erik Blomberg, Fin, 1952)

Ambientato fra allevatori di renne, si tratta di un horror basato su una antica leggenda. Affascinanti distese innevate attraversate da innumerevoli renne e pochissimi umani, a volte sugli sci spingendosi con un solo bastone (stile telemark), a volte seduti in caratteristiche pulka, una specie di slittini a forma di barchetta con la prua rialzata e schienale diritto a poppa, trainate proprio da una renna. 

Storia lineare e semplice, ma ben narrata, che consente anche di apprezzare i fantastici paesaggi, le mandrie di renne, il modo di catturarle, la tecnica sciistica e quella di conduzione delle pulka, lo stile di vita di quella popolazione. Unico film finlandese ad essere stato premiato con un Golden Globe; pellicola originale restaurata e digitalizzata 4k. 

 

The Cave of the Yellow Dog (Byambasuren Davaa, Ger/Mon, 2007)

Visto che c’è una trama, si colloca fra fiction e documentario, ma i soli attori (non contando un paio di comparse e una solitaria anziana che ha un piccolo ruolo) sono i reali componenti della famiglia Batchuluun, pastori nomadi mongoli. Giovane coppia composta dai genitori, due figlie di 6 e 4 anni, un figlioletto di 2. 


Altro film di grande interesse etnografico, con esterni spettacolari nelle grandi pianure semidesertiche della Mongolia. La narrazione alterna momenti di vita familiare, dentro e fuori la classica yurta (che alla fine si vede anche come viene smontata per spostarsi in un'altra località), e scene di vita con gli animali. Il titolo si riferisce ad una leggenda raccontata dall’anziana che aveva accolto la ragazzina che, per cercare il cane che aveva adottato contro il parere del padre, era stata colta da un temporale. Veramente interessante, e in un certo senso divertente, il film porta lo spettatore nel fantastico ambiente rurale centro-asiatico. Ai vari Premi ottenuti dal film, si aggiunge quello a Cannes andato al cane Zochor.

Le dernier loup (Jean-Jacques Annaud, Chi/Fra, 2015)

Molto ben filmato come era lecito aspettarsi da Annaud, soffre di una sceneggiatura, nonostante sia tratta da un bestseller cinese, non evidenzia una direzione precisa, lasciando nel vago sia i rapporti uomo / animale e predatori / prede, sia le ragioni politiche e le ragioni economiche che si confrontano con la tradizione. Veramente ottime le singole riprese, ma chiaramente montate senza continuità; i lupi mongoli che si vedono nel film erano stati specificamente addestrati dallo staff di Annaud. Anche il commento sonoro è di ottimo livello, ma il film, nel complesso, resta tuttavia sufficiente e comunque nettamente inferiore ai precedenti tre sopra recensiti.

L'uomo, la bestia e la virtù (Steno, Ita, 1953)

Dulcis in fundo, ecco una vera rarità che però niente ha a che vedere von terre lontane, natura selvaggia e etnie poco conosciute, ma ha la particolarità di mettere insieme grandi nomi che nessuno si aspetterebbe di vedere accomunati. I protagonisti del film sono il più famoso commediante italiano del dopoguerra (Totò), un grande attore e regista di indiscussa fama mondiale (Orson Welles) e la star francese dell’epoca Viviane Romance (protagonista dell’eccellente Panique, 1946, di Julien Duvivier), diretti da un regista di valore come Steno, specializzato nel genere comico – popolare, che interpretano un adattamento di una commedia di Pirandello! Meraviglia quindi che pochissimi conoscano questo film ma c’è una ragione ben precisa: appena dopo l’uscita nel 1953, fu ritirato dalla circolazione poiché gli eredi di Pirandello ritennero che la sceneggiatura avesse stravolto il senso originale della commedia, rendendola troppo farsesca. Fu rimesso in circolazione dopo ben 40 anni (1993), ma da allora conta pochissimi passaggi in televisione, oltretutto nella versione b/n (l’originale era a colori), e praticamente non è mai arrivato nelle sale. Interessante anche l’ambientazione a Cetara, quando era ancora un piccolo approdo di pescatori della Costiera Amalfitana, non ancora assurto a fama mondiale con la sua colatura di alici DOP, peraltro prodotto storico con origini risalenti all’epoca romana. I protagonisti sono un professore (Totò, l'uomo), un comandante di nave sempre lontano da casa (Welles, la bestia) e la moglie di quest’ultimo (Romance, la virtù) ma anche amante (incinta) del primo.

domenica 23 ottobre 2022

Per non voler CAMMINARE, fu turlupinato da Sardella

Aneddoto o leggenda metropolitana (marinara), pura fantasia o storia vera che sia, ecco il breve resoconto di un (mezzo) viaggio via mare fra Sorrento e Massa.


La spiaggia di Puolo (Massa Lubrense, ma all’estremità orientale pertinenza di Sorrento), come evidenziato si trova circa a metà strada fra la Marina Grande di Sorrento e la Marina della Lobra (Massa L.) e a tale proposito si narra(va) l'aneddoto di Sardella, che qui vorrei rinverdire. Questi era un pescatore sorrentino che, per arrotondare le sue misere entrate, non disdegnava di fungere da Caronte per i viaggiatori che, una volta giunti a Sorrento (un tempo vi si arrivava quasi esclusivamente via mare) avessero voluto proseguire per Massa in barca, senza dover affrontare a piedi la sconnessa mulattiera o essere trasportati a dorso d’asino o di mulo o su in carrozza, mezzo di trasporto più caro. 


Un giorno della seconda metà dell’800 sbarcò a Marina Grande un viaggiatore che, pur volendo evitare il percorso terrestre, non era assolutamente disposto ad accettare di pagare una lira, somma considerata esosa, richiestagli per il pas­saggio, ma pretendeva di pagarne solo la metà. 



Dopo una lunga ed estenuante trattativa, Sardella "cedette" alle insistenze del viaggiatore, lo fece salire in barca, intascò i soldi, e incomin­ciò a remare alla volta di Massa. Appena doppiato il Capo di Sorrento, però, si diresse verso la spiaggia di Puolo, dove accostò proferendo la famosa frase “Chesta è Massa ... (Questa e Massa ...) facendogli credere che si trattasse della Marina della Lobra (approdo di Massa). Aiutò quindi il passeggero a sbarcare e se ne tornò tranquillamente alla Marina Grande. Metà tariffa, metà viaggio!

Di qui nasce la tradizione, che ormai solo pochi mantengono viva ma spero che si riprenda, di ripetere ad ogni passaggio davanti alla Marina di Puolo:

"Chesta è Massa", dicette Sardella

 

Come mia abitudine, quando se ne presenta l'occasione, mi piace aggiungere curiosità etimologiche, questa è relativa al verbo utilizzato net titolo del post.

  • Turlupinare * v. tr. (dal fr. turlupiner) prob. connesso con il nome della setta dei turlupins che passò a indicare «chi scherza sulle cose di religione, o che ama fare beffe di cattivo gusto» – Raggirare, ingannare beffando la buona fede o l’ingenuità altrui
  • Turlupini * s. m. pl. (dal fr. turlupins) – nome degli appartenenti a una setta ereticale medievale che nella seconda metà del 14° secolo si diffuse spec. nella Savoia, nel Delfinato e nei dintorni di Parigi; furono condannati nel 1372.

(estratti da treccani.it)

mercoledì 19 ottobre 2022

Capo di Mondo, altro pasticcio toponomastico

Questo toponimo, già presente su mappe di un secolo fa ma non effettivamente utilizzato in Penisola, è venuto alla ribalta con la pubblicazione del percorso della sesta tappa del Giro d’Italia 2023, circuito con partenza e arrivo a Napoli in programma giovedì 11 maggio. In meno di 24h, una mezza dozzina di amici mi hanno interrogato in merito all'effettiva esistenza dello stesso e li ho rimandati al post precedente a questo, visto che, per pura casualità, il toponimo appare nelle varie mappe lì pubblicate. Chiaramente è stato utilizzato da persone non locali, visto che in zona è sempre stata conosciuta come la salita di Picco(lo) Sant'Angelo. Tuttavia, colgo l’occasione per fare un discorso più ampio, che comprende vari punti.


Quasi certamente il toponimo è corruzione di uno dei tanti Capodimonte, come il Capodarco, fra Termini e Casa (Massa Lubrense), lo dovrebbe essere di Capodacqua (come l’area a monte di Positano) e vari altri. Volendolo interpretare in tal senso, è logico che sia relativo al punto più alto di quella zona, vale a dire la piccola altura (localmente detta Isola, 526m) a est della Pineta delle Tore; posizionato con precisione sulla CTR al 10.000 e abbastanza correttamente sulla precedente tavoletta IGM degli anni ’50 e la successiva carta regionale al 25.000, mentre viene spostato ancora più a ovest sulla mappa CAI, finendo nella Pineta, oltretutto modificato in Capo del Mondo. Ecco gli stralci delle mappe nello stesso ordine in cui sono state elencate.





La deriva dei toponimi sulle mappe è un annoso problema causato dal fatto di non seguire (per necessità o per scelta deliberata) le stesse norme, che non sono obbligatorie ma seguono delle convenzioni internazionali accettate dalla maggior parte dei cartografi. Riprendendo toponimi da mappe precedenti e inserendoli a proprio piacimento si corre il rischio (dopo ripetuti passaggi) di trovarli da tutt’altra parte. 
Un caso emblematico di traslazione di toponimi lo trovai (o almeno così penso) nel corso delle indagini per la stesura del mio saggio Le coste di Sorrento e di Amalfi.

Nella carta borbonica del 1819 (vedi sotto) viene invece evidenziato come su tale altura (Capo di Mondo o Isola che dir si voglia) fosse posizionato un telegrafo ottico Depillon e lo stesso, per viciniorità, denominato della Marecoccola,  anche se nell'elenco ufficiale delle postazioni appare come Maracoccola sopra Sorrento (vedi le due immagini al fondo).


 

martedì 18 ottobre 2022

Borra, Malacoccola o Pizzetiello?

Prendendo spunto dai vari titoli palesemente fuorvianti relativi al fatale incidente di ieri (iniziato in territorio sorrentino e terminato - forse - in territorio santanellese; certamente non massese) e toponimi usati a sproposito, cercherò di chiarire alcuni punti.

Premesso che le varie località hanno perlopiù confini vaghi, quelle attraversate dal CAI 300 (alias Alta via dei Monti Lattari) fra Torca (Massa Lubrense) e Colli di Fontanelle (Sant’Agnello) e, fino alla ss 145, anche dal Circuito delle Sirenuse, sono in sequenza:

  • Monticello – popoloso agglomerato di case, che in un prossimo futuro potrebbe diventare frazione a sé stante;
  • Chiavazzano - area condivisa da Massa Lubrense e Sorrento; il confine si attraversa alla fine del primo tratto sterrato, quello in piano, spesso fangoso, con boschetto a valle. La breve successiva salita con fondo in cemento e i caratteristici grossi fichi d'india a destra è già territorio sorrentino;
  • Borra - toponimo tradizionale, ma solo recentemente assurto a uso comune, specialmente dopo che la località è diventata per mesi meta preferita di tanti evasi dal lockdown. Ricade interamente in territorio sorrentino e giunge, più o meno, fino alla casa rosa (quella del Professore), estendendosi perlopiù a valle del sentiero;
  • Malacoccola - toponimo classico che si ritrova anche su mappe, atti notarili e documenti d'epoca in forme leggermente diverse come Marecoccola (cfr. carta borbonica 1819), Maracoccola e Malecoccola. Come si vede dagli stralci in basso (nell’ordine: carta borbonica, IGM di metà secolo scorso, regionale di un paio di decenni fa, Tolomeo, CAI) si riferisce ai declivi a monte del sentiero, fino a crinale e al piccolo promontorio prominente a quota 489 m, detto …
  • Pizzetiello - come dovrebbe essere evidente, è quindi la sporgenza di forma rotondeggiante dalla quale si gode del più ampio panorama. Lungo il sentiero, il confine con Sant’Agnello si attraversa circa 500 m più in là, in corrispondenza dell’ampia curva che volge a NW.

Stiffa e Colli di Stiffa vengono utilizzati molto, molto raramente.





Nella seguente immagine estratta da GoogleEarth si nota bene l’ultimo tratto descritto (Sorrento) ma c’è da considerare le falesie fungono da confine con Sant’Agnello. Per quanto di mia conoscenza (da fonti ufficiali) il malcapitato escursionista potrebbe essere volato da Sorrento (nei pressi del Pizzetiello) e atterrato a Sant’Agnello. (*** aggiornamento: da testimoni oculari ho appreso che è caduto solo per una decina di metri, quindi è rimasto in territorio sorrentino). Lungi da me il voler ironizzare, ma giuridicamente quale dovrebbe essere indicato come luogo della morte?


Concludendo in modo più leggero, consiglierei di:

  • tornare ad indicare la passeggiata come quella della Malacoccola, come gli escursionisti hanno sempre fatto, e non di Borra;
  • non confondere Borra con il Pizzetiello (in caso di emergenza vi cercherebbero nel posto sbagliato);
  • non abbandonare i sentieri battuti e (relativamente) sicuri per raggiungere posti esposti;
  • non allontanarvi dalla guida o dai compagni di escursione senza prima avvertirli;
  • cercare di sapere sempre i nomi delle località in cui vi trovate e verso le quali vi state dirigendo, in modo da poter comunicare in modo quanto più preciso possibile la vostra posizione in caso di bisogno, anche senza GPS.

lunedì 17 ottobre 2022

Microrecensioni 296-300: due commedie romantiche e 3 splatter

Avevo cominciato con l’ultimo dei Contes des quatre saisons di Rohmer che ho abbinato ad una commedia muta di un altro maestro del genere: Ernst Lubitsch. Su MUBI è poi apparso un horror giapponese diventato subito un cult per aver incassato 1.000 volte la somma investita per la produzione. La mente è quindi andata ad un altro cult a bassissimo budget che ho voluto guardare di nuovo e ho completato la cinquina con uno splatter molto dark di Tim Burton.

One Cut of the Dead (Shinichirô Ueda, Jap, 2017) tit. it. Zombie contro zombie

La traduzione letterale del titolo originale è: Non fermare la ripresa! e si riferisce ovviamente al piano sequenza iniziale di 37 minuti realizzato per un programma televisivo in diretta. In effetti il film si può dividere in due parti ben distinte pur essendo sostanzialmente molto simili. Il tecnicamente molto pregevole (ancorché quasi amatoriale) piano sequenza con il quale si apre il film viene proposto come un programma in diretta sul tema zombie. Appena terminato, inizia un flashback che farà scoprire agli spettatori le origini dell’idea, il reclutamento del cast e infine come si è riusciti a portare a termine il lavoro nonostante i mille imprevisti che, ovviamente, non svelo. Di conseguenza, la prima parte si presenta veramente come un B-horror sgangherato, mentre la seconda appare molto più creativa e divertente svelando trucchi, improvvisazioni e incidenti … fino alla fine. Sostanzialmente è un’operazione perfettamente riuscita (100% di recensioni positive su RT, e sono 95, non due o tre) per questo gruppo composto per lo più da esordienti che hanno pagato loro stessi per produrre il film che è costato 25.000 $ e ne ha incassati 25 milioni! Un simile successo basato sull’idea di mostrare le riprese di un film amatoriale nel film fu The Blair Witch Project (1969) con 248 milioni incassati a fronte di 60.000$ investiti, anche se dopo l’enorme successo al Sundance fu sottoposto ad un gran lavoro di post-produzione raggiungendo il ½ milione). Fra gli altri film a ridottissimo budget diventi cult posso ricordare il geniale Tangerine (2015, di Sean Baker, girato con 3 iPhone) e El Mariachi (1992, esordio di Robert Rodriguez), che per tal motivo ho inserito in questa cinquina.

 
Conte d'automne (Éric Rohmer, Fra, 1998)

Ultimo dei Contes des quatre saisons che, a differenza degli altri, vede come protagonisti personaggi di mezza età, trattando solo marginalmente gli amori giovanili. Ambientato nelle campagne della valle del Rodano, propone un intreccio di relazioni amorose; varie amiche (ognuna senza dir niente alle altre) tentano di trovare un compagno ad una vedova che vive semi-isolata prendendosi cura del suo vigneto nell’Ardeche. Equivoci, casualità, discorsi accademici sull’amore e vita di coppia, aspirazioni, corteggiamenti e matrimoni, non fanno certo annoiare gli spettatori. Abbastanza più vario rispetto agli altri del ciclo.


El Mariachi (Robert Rodriguez, Mex/USA, 1992)

Primo lungometraggio di Robert Rodriguez, che diede seguito alla storia con Desperado (1995) nel quale inserì un cameo di Quentin Tarantino e da allora i due divennero collaboratori a tutti gli effetti. Infatti seguirono Dal tramonto all’alba (1996, sceneggiatura di Tarantino), l’ottimo Sin City (2005, co-diretto con Frank Miller e Quentin Tarantino come special guest director), Grindhouse (2007) doppio spettacolo con Planet Terror diretto da Rodriguez e Death Proof da Tarantino. Il regista aveva cominciato da piccolo a produrre short casalinghi e grazie a tale esperienza riuscì a girare questo film spendendo solo 7.000 dollari fungendo da produttore, regista, sceneggiatore, responsabile degli effetti speciali e operatore. La storia si basa su un classico scambio di persona: un mariachi itinerante con la sua chitarra e un pericoloso criminale che in una custodia simile nasconde un arsenale. Recitazione molto scadente ma per questo tipo di operazione, e a questi costi, tutto è giustificato. Premio del pubblico al Sundance.

 
The Marriage Circle (Ernst Lubitsch, USA, 1924)

Regista berlinese già applaudito in patria, nel 1923 iniziò la sua carriera hollywoodiana con Rosita (con Mary Pickford) e questa commedia sofisticata fu il suo secondo successo. Un intreccio di tentati corteggiamenti, speranze di divorzi, pedinamenti, quasi scambi di mogli e amicizie tradite nell’ambiente dell’alta società. Rispetto a molti film della stessa epoca, si distingue la moderazione nella recitazione, senza attori che si agitano in modo esagerato, controllo dei tempi e giusta quantità di cartelli. Non per niente Lubitsch fu un modello per tanti, ottenendo 3 Nomination Oscar e infine insignito dell’Oscar alla carriera nel 1947. Fra i suoi film più noti Ninotchka (1939), Il cielo può attendere (1943) Vogliamo vivere (1942, 228° miglior film di tutti i tempi).

Sweeney Todd (Tim Burton, USA/UK, 2007)

Penso che se Tim Burton avesse rinunciato proporlo in chiave musical, il film avrebbe potuto ottenere miglior successo. Troppe sono le canzoni e per niente avvincenti; a qualcuno probabilmente ha dato anche fastidio l’eccessivo spargimento di sangue conseguenza dei tanti sgozzamenti e lo “stile della cucina”. La sceneggiatura, comunque molto dark e con vari twist, è al contrario interessante e avvincente, con vari personaggi grotteschi interpretati da bravi attori, il tutto inquadrato nelle ottime scenografie completate da arredamenti e costumi di qualità.  Oscar per le scenografie a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, Nomination per i costumi e a Johnny Depp protagonista.

giovedì 13 ottobre 2022

Microrecensioni 291-295: cinquina varia di gran pregio

Questa cinquina di qualità è composta da un iconico film di Ingmar Bergman (uno dei suoi migliori non solo per la messa in scena, ma anche per i contenuti) 2 ottimi film del 1962 rispettivamente di Orson Welles e Roger Corman (purtroppo trascurati dal pubblico nonostante le loro gran qualità) e 2 di Éric Rohmer del ciclo I racconti delle quattro stagioni. I tre di 60 anni fa sono senza dubbio i migliori e fra i loro grandi pregi spiccano la fotografia b/n e le inquadrature che forniscono grande espressività visiva nell’evidenziare i problemi sociali e filosofici che affrontano. Gli altri due, a colori e degli anni ’90, sono molto più parlati e si focalizzano sui problemi di comunicazione e di relazione soprattutto fra le nuove generazioni … i dialoghi sono il loro fulcro. Volendo presentare i 5 film in ordine di gradimento, come spesso faccio, mi sono trovato un po’ in imbarazzo, essendo i primi 3 eccellenti sia per la tecnica che per stimolo all’analisi alcuni concetti universali, quindi difficili da paragonare. Alla fine ecco la mia scelta …

The Trial (Orson Welles, Fra/Ita/Ger, 1962)

Un film indubbiamente poco convenzionale, fra il surreale e l’astratto, adattato da uno dei più famosi romanzi di Franz Kafka, (1914-15, ma pubblicato postumo nel 1925), messo in scena in modo geniale da Orson Welles. Tema adatto, quasi perfetto, per l’utilizzo delle sue classiche riprese dal basso, delle lunghissime ombre e di un uso abbondante ma per niente eccessivo del grandangolo. Sorprendenti e affascinanti le ambientazioni e le scenografie, fra locali immensi, edifici decrepiti, depositi con faldoni accatastati senza alcun ordine. Tanti i personaggi in cui si imbatte il protagonista K. (Anthony Perkins), molti dei quali di professione incerta, così come lo sono le accuse (mai avanzate) e le regole e tempi dei procedimenti legali. La situazione nella quale si trova K. e i dialoghi con poliziotti, giudici o presunti tali, avvocati e detenuti (in semilibertà) in attesa di giudizio forniscono la perfetta idea del termine kafkiano! Alcune riprese della seconda parte ricordano molto (replicandole in modo quasi identico) alcune fra sue più famose di The Third Man (1942). Per i tanti personaggi, spesso grotteschi, creati dalla fervida mente di Kafka, Orson Welles assemblò un cast internazionale di alto livello, affiancando a Perkins uno stuolo di ottimi attori europei (produzione Ita/Fra/Ger), molti di provenienza teatrale. Ne cito una parte: Jeanne Moreau, Romy Schneider, Elsa Martinelli, Arnoldo Foà, Paola Mori, Akim Tamiroff, Michael Lonsdale. Orson Welles compare nelle vesti dell’avvocato Hastler e legge i titoli di coda. Film che si potrebbe definire angosciante o avvilente per il tema dell’impari lotta fra il cittadino e le istituzioni, in particolare quando si trova a dover affrontare, quasi impotente, i contorti macchinari della giustizia. Esemplificativo è l’aneddoto narrato all’inizio del film e brevemente ripreso nel finale. Chi è disposto ad affrontare 2 ore di dialoghi perlopiù costituiti da argute elucubrazioni, surreali sillogismi, paradossi dialettici e incoerenze, accompagnati da una eccezionale cinematografia (luci, angoli di ripresa, inquadrature, …), non dovrebbe perdersi per alcuna ragione un’attenta visione di The Trial!

 
The Intruder (Roger Corman, USA, 1962)

Uno dei pochi film drammatici del vate dei B-movies a basso budget, soprattutto noto per gli horror fra ii quali si conta l’ormai cult La piccola bottega degli orrori (1960) girato in soli 2 giorni. Corman affermava che questo L’odio esplode a Dallas (ridicolo titolo italiano, oltretutto non è ambientato a Dallas) fu l’unico a non recuperare le spese di produzione. Solo dopo vari decenni fu rivalutato grazie ai Festival che propongono anche retrospettive e pellicole restaurate (Tokio ’94, Locarno ‘99 ed Edimburgo 2009) e, nonostante ciò, nelle sale francesi è addirittura arrivato solo nell’agosto 2018! Subito dopo la premiere a New York, fu presentato al Festival di Venezia (settembre 1962), ma solo nel 1965 ebbe una (limitata) distribuzione nelle sale italiane. Incentrato sul serio tema del più becero razzismo, ha anche il pregio di contare su un’ottima fotografia e un incisivo commento sonoro, spesso quasi ossessivo. Il sobillatore professionista Adam Cramer (interpretato da William Shatner agli inizi della carriera, prima di diventare famoso come il Cap. Kirk nella saga di Star Trek) con il suo atteggiamento fra il seduttore, il venditore ed il predicatore, riesce in breve tirar fuori il peggio dalla maggior parte degli abitanti della fittizia piccola cittadina di Caxton, nel profondo sud. Dopo il continuo ed efficace crescendo di tensione si giunge ad un finale non del tutto scontato ma in effetti poco contundente. A chi rimproverava a Corman l’idea di essersi imbarcato in questa produzione economicamente (e prevedibilmente) fallimentare, il regista rispondeva che fu uno dei film dei quali andava più fiero. Fortemente suggerita la visione.

The Seventh Seal (Ingmar Bergman, Swe, 1957)

Il protagonista (interpretato da Max von Sydow in una delle sue migliori interpretazioni) è un cavaliere di ritorno da una crociata, insieme con il suo nichilista scudiero. Ad aspettarlo trova la Morte alla quale però non si consegna passivamente, ma la sfida in una partita a scacchi per rinviare il momento del trapasso. Così riesce a proseguire il viaggio verso casa durante il quale ci saranno occasioni per affrontare argomenti filosofici e religiosi a partire da eventi mondani e incontri fortuiti. A questo film viene spesso paragonato il messicano Macario (di Roberto Gavaldón, 1960, Nomination Oscar, 8,3 su IMDb e 100% su RT) nel quale il poverissimo e affamato protagonista similmente si confronta in successione con il Diavolo, Dio e la Morte. La sceneggiatura è un adattamento di Pittura su legno (1954), atto unico teatrale scritto dallo stesso Bergman. Premio della Giuria e Nomination Palma d’Oro a Cannes, 2° miglior film del 1957 per Cahiers du Cinéma, attualmente al 198° posto fra i migliori film di sempre per IMDb.

 
  • Conte de printemps (Éric Rohmer, Fra, 1990)
  • Conte d'été (Éric Rohmer, Fra, 1996)

Li metto insieme essendo il primo e terzo nei Contes des quatre saisons, terzo e ultimo dei suoi cicli, dopo Racconti morali e Commedie e proverbi. Fra i due girò quello dell’inverno (1992) per poi concludere nel 1998 con l’autunno (appena inserito nel prossimo gruppo). Come anticipato, entrambi sono incentrati perlopiù sui rapporti fra i giovani e sulle aspirazioni amorose, in qualche coppia si evidenzia una certa differenza di età, ma in ogni caso è l’indecisione che regna sovrana. Sia i protagonisti che i personaggi di contorno sono tutti ben descritti, così come l’ambiente nel quale vivono, di solito quello della media borghesia che si muove fra Parigi e la provincia. Fedele al suo stile, Rohmer (sceneggiatore unico dei 4 racconti) non conclude molto, si limita a descrivere osservando dall’esterno, ma facendo analizzare le diverse interpretazioni dell’amore ideale e dei giusti rapporti interpersonali dagli stessi protagonisti, attraverso lunghi dialoghi. Questo è uno dei motivi per i quali il suo lavoro non piace ad un certo tipo di spettatori, quelli che dei suoi film dicono “non succede niente …”.

giovedì 6 ottobre 2022

Microrecensioni 286-290: un ottimo film poco conosciuto, un 5 oscar e altro ...

Non vi perdete El espiritu de la colmena, apprezzatissimo "piccolo" film spagnolo di 50 anni fa, i cui rating (7,8 IMDb, 96% RT e 87 Metascore) sono tutti migliori di quelli di Hugo, megaproduzione hollywoodiana che una decina di anni fa ottenne 5 Oscar e altre 7 Nomination ... la qualità dei film non è direttamente proporzionale né strettamente legata a budget spropositati e grandi nomi! Molto interessante anche il recente esordio del regista indiano Fahim Irshad, anche lui focalizzato su una toccante storia che include tanti aspetti della vita di una famiglia islamica in India. Ho guardato di nuovo Hugo (omaggio di Scorsese ai pionieri del cinema) e ho completato la cinquina con due film argentini del semisconosciuto Leonardo Favio, eppure molto apprezzato in patria.

 
El espiritu de la colmena (Victor Erice, Spa, 1973) tit. it. Lo spirito dell'alveare

Primo lungometraggio di Victor Erice, regista basco unanimemente lodato, ma con una produzione quasi inesistente. A tutt’oggi si contano 7 corti (girati fra il 1961 e il 2007), 3 episodi in altrettanti film (quindi altri corti) e appena due lungometraggi; dopo questo solo El sur (1983) che, comunque, lui considera incompleto (il suo progetto prevedeva altre riprese, ma il produttore le rifiutò per motivi economici). Appassionante film con un bellissimo inizio, con le scene dl un cinema itinerante, con gli spettatori che arrivano portandosi le sedie, prima i bambini che si siedono ai piedi dello schermo (per 2 reales) poi le donne e infine gli uomini (tutti gli adulti a 1 peseta). Il film è il classico Frankenstein del 1931 (di James Whale, con Boris Karloff), pellicola che impressionerà molto la piccola Ana. Belle la scenografia e la fotografia, con le tante dissolvenze, utilizzate in modo magistrale, particolarmente significative. Interessante storia co-sceneggiata dallo stesso Erice, con tanti riferimenti alla guerra civile appena terminata (nel film, siamo nel 1940), al romanzo di Mary Shelley e al film con Boris Karloff. Bravissime le bambine Ana Torrent (7 anni all’epoca, altri 35 film successivamente) e Isabel Tellería, di poco più grande (ma questa rimase la sua unica esperienza cinematografica), e bravi anche Fernando Fernán Gómez e Teresa Gimpera che interpretano i genitori. Da non perdere!

Aani Maani (Fahim Irshad, Ind, 2019)

Apprezzato film che affronta gli storici e controversi argomenti della problematica convivenza delle minoranze islamiche in aree a prevalenza induista. A partire dalla semplice vita di una famiglia islamica, il regista / sceneggiatore affronta problemi religiosi, politici, di razzismo e di corruzione e taglieggiamento. Interessanti il commento musicale e la colonna sonora, buone le interpretazioni, ottima regia e fotografia. Particolarmente efficace è la rappresentazione delle attività giornaliere che si svolgono soprattutto nel piccolo cortile sul quale si aprono le porte delle varie stanze. In questo scenario si sviluppa un ottimo piano sequenza poco prima del finale che, pur chiarissimo nell’essenza, resta un po’ misterioso in quanto a modo e vere cause. Film molto interessante e piacevole, regista da tenere d’occhio.

  
Hugo (Martin Scorsese, USA, 2011) aka Hugo Cabret

Praticamente un sincero omaggio a George Méliès, il geniale inventore del vero CINEMA che, con la sua creatività, perfezionò già a inizio secolo scorso montaggio, trucchi e scenografie sensazionali, specialmente per l’epoca. Ai fratelli Lumière si riconosce certamente il merito dell’invenzione di una cinepresa e il suo perfezionamento oltre ad alcuni basilari movimenti di macchina, ma Méliès creò l’illusione. La trama del film è in effetti un po’ stucchevole e troppe volte sfocia nel caricaturale, in particolare con gli strani personaggi che popolano la stazione. Ottimi gli effetti speciali che, non a caso, ottennero il loro Oscar; altre 4 statuette arrivarono per la fotografia, scenografia, sound mixing e sound editing (il film conta anche altre 6 Nomination).

Crónica de un niño solo (Leonardo Favio, Arg, 1965)

Esordio dell’argentino Leonardo Favio, oltre che apprezzato regista, anche attore e cantante. Strano modo di girare (ma bene), probabilmente dovuto a limitati mezzi tecnici. Non c’è presa diretta né commento musicale, quindi nelle partii descrittive ci sono lunghi silenzi assoluti, sostenuti comunque da sapienti riprese, molte dall’alto. Il protagonista è un ragazzino irrequieto, rinchiuso in un riformatorio; lì si sviluppa la prima parte del film fra qualche litigio con gli altri e le vessazioni dei sovrintendenti. Nella seconda Polin vedrà che anche fuori la vita per lui non sarà facile. Molto datato, ma ben girato, anche se a tratti sembra quasi amatoriale.

Juan Moreira (Leonardo Favio, Arg, 1973)

Juan Moreira fu un personaggio storico della metà del XIX secolo (1829-1874), divenuto quasi leggendario in quanto simbolo della ribellione contro i soprusi. Fu gaucho, imprenditore, fuorilegge e guardia del corpo di un politico che promise di riabilitarlo, ma non mantenne la parola. Abilissimo con il coltello, dopo essere stato ingiustamente vessato da latifondisti e autorità, si fece spesso vendetta da solo; fu ucciso dopo una lunga caccia, accerchiato da una squadra speciale di oltre 20 agenti della polizia di Buenos Aires. Sulla sua odissea è stato scritto un popolare romanzo e Borges ne ha celebrato la morte in un racconto; dei quattro biopic (tutti con il suo nome come titolo) questo è il più noto e apprezzato. Bella fotografia (in particolare i controluce esterni nelle sconfinata pampa), anche se si eccede nei primissimi piani che, nelle scene di azione, diventano molto confusi (penso a anche in questo caso budget e mezzi limitati furono la causa). La sceneggiatura, con pochissimi dialoghi, tratta solo di pochi episodi dell’ultima parte della vita di Moreira in flashback; il film inizia con il riconoscimento del cadavere da parte di sua moglie.