giovedì 29 ottobre 2020

Micro-recensioni 361-365: gruppo vario, sostanzialmente buono

Gruppo molto vario in quanto a generi (noir, drammatico, thriller, storia vera, commedia grottesca), ma con prevalenza anglofona. Ognuno ha i suoi pro e i suoi contro, non ci sono film memorabili, ma tutti certamente più che sufficienti.

 

The strange love of Martha Ivers (Lewis Milestone, USA, 1946)

Noto e apprezzato noir nel quale Kirk Douglas è già co-protagonista pur essendo al suo esordio assoluto sul grande schermo, dopo aver debuttato 5 anni prima in palcoscenico a Broadway. Si trova in ottima compagnia visto che i personaggi principali sono interpretati dai “veterani” Barbara StanwyckVan Heflin. Noir in stile abbastanza classico ma non il solito “guardie e ladri”, la trama è divisa in due tempi ben distinti, un prologo con i due adolescenti che saranno poi protagonisti della parte più consistente, quando si incontreranno di nuovo, quasi 20 anni dopo. Nomination Oscar per la sceneggiatura.

Iklimer (Nuri Bilge Ceylan, Tur, 2006)

Nonostante la lentezza estenuante, con dialoghi ridotti al minimo e lunghe inquadrature dei protagonisti immersi nei loro pensieri, il film è ben realizzato e conferma l’attenzione nella composizione delle inquadrature, nella fotografia in sé e per sé e nell’abilità di trovare punti di ripresa originali, giocando molto specialmente sulle profondità di campo. Coppia di professionisti borghesi (professore universitario lui, produttrice televisiva lei) in crisi, ma non solo per differenza di età. Il regista è anche protagonista e la più giovane compagna è interpretata da sua moglie Ebru. Succede molto poco nell’arco di vari mesi, scene allungate a dismisura. Premio FIPRESCI e Nomination Palma d’Oro a Cannes dove Nuri Bilge Ceylan ha riscosso sempre grande successo; con 7 film ha ottenuto 8 Premi e 6 Nomination.

  

In the Name of the Father (Jim Sheridan, Irl/UK, 1993)

Storia drammatica e avvilente, ma le ottime interpretazioni non bastano a farne un gran film in quanto ha i limiti di tanti film del genere, vale a dire storia vera (quindi conosciuta e di conseguenza senza grandi sorprese) alla quale si aggiunge una regia mediocre. È risaputo e riconosciuto che portando sul grande schermo situazioni di ingiustizie e clamorose prevaricazioni vari film - di sicuro cinematograficamente abbastanza piatti - sono arrivati fino agli Oscar. Quindi allo spettatore resta ammirazione per le prove di Daniel Day-Lewis e Pete Postlethwaite (la pur brava Emma Thompson ha parte molto marginale) e un senso di repulsione per i comportamenti di polizia e giudici in questo eclatante caso giudiziario dell’epoca, ma niente di più. Nonostante le 7 Nomination, non ottenne alcun Oscar.

El hombre sin rostro (Juan Bustillo Oro, Mex, 1950)     

Thriller psicologico (nel vero senso della parola) alla ricerca di un misterioso assassino seriale di donne, “l’uomo senza volto” del titolo. Chi gli dà la caccia è un ispettore palesemente turbato e ossessionato dal ricordo della sua defunta madre, che spesso si confronta con il suo amico collega medico legale che gli dà consigli sulla strada da seguire sia per risolvere i suoi problemi, sia per smascherare il killer. Fino alle ultime scene lo spettatore viene spinto a rimanere in dubbio su quale dei due sia il vero assassino … o è un terzo? Sempre affidabile Arturo de Córdova, buona la regia di Juan Bustillo Oro che, oltretutto, nelle scene dei sogni propone inaspettate scenografie che richiamano quelle dell’espressionismo tedesco degli anni ‘20.

Beat the Devil (John Huston, USA, 1953)

Ho ri-guardato per l’ennesima volta questa mediocre dark comedy, quasi fallimentare anche nel vero senso della parola in quanto portò sull’orlo della bancarotta Humprey Bogart, non solo protagonista ma anche produttore. Non bastano i tanti nomi famosi non solo fra gli attori (Jennifer Jones, Gina Lollobrigida, Peter Lorre, …) ma anche nel resto del cast (fotografia di Robert Capa e sceneggiatura di Truman Capote) a salvare questo film diretto da un regista di tutto rispetto: John Huston. A chi si chiede perché continui a guardare Beat the Devil rispondo: per essere stato in gran parte girato in Costiera Amalfitana (che mi azzardo a dire conosco come le mie tasche), con base a Ravello. Molti luoghi, piazze, strade e palazzi sono facilmente riconoscibili, seppur ovviamente oggi vari sono ben cambiati. Alcuni personaggi sono ben pensati e varie situazioni sono abbastanza originali, ma nel complesso la trama non sta né in cielo né in terra.

lunedì 26 ottobre 2020

Micro-recensioni 356-360: 5 cinematografie diverse, 2 opere prime

Ancora un gruppo eterogeneo (Messico, Brasile, Portogallo, Giappone e UK/USA) che stavolta include due film d’esordio, uno dei quali è senz’altro il più interessante della cinquina, considerando anche il prosieguo della carriera del regista sceneggiatore Martin McDonagh.

  

In Bruges (Martin McDonagh. UK/USA, 2008)

Commedia grottesca con sceneggiatura tagliente (nomination Oscar), molto poco buonista e certamente non politically correct. Non risparmia niente e nessuno, da quello che oggi è di moda chiamare body shaming, agli stereotipi di nazionalità, da traffico di droga e armi a killer “d’onore”. Perfetti nei rispettivi ruoli i protagonisti Colin Farrell e Brendan Gleeson, nonché Ralph Fiennes che però compare solo nella seconda parte; non da meno sono gli interpreti di personaggi minori, sempre ben caratterizzati da McDonagh, regista e unico sceneggiatore del film. Si potrebbe dire che è strutturato come una serie di sketch che presentano situazioni del tutto diverse (spesso memorabili), a volte con personaggi-meteora altre volte invece ricompaiono inaspettatamente.

In tempi nei quali pare non si possa dire o fare più niente senza che insorga questa o quella minoranza, In Bruges è un toccasana per chi sa cogliere il lato ironico delle cose e sa ridere anche dei propri difetti. Questo fu il primo film di McDonagh che poi, al suo terzo lavoro - ben 9 anni più tardi - Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, si fece conoscere dal mondo intero.

Vidas secas (Nelson Pereira dos Santos, Bra, 1963)

Uno dei film simbolo del Cinema Novo brasiliano, un neorealismo d’oltreoceano spesso ambientato nelle aride campagne del nord (il sertão) dove si lottava per sopravvivere, non solo contro la natura ma anche con i prepotenti, politici e militari. Apprezzabile la fotografia in b/n e le interpretazioni degli attori (tutti esordienti ingaggiati sul posto) dei quali solo Joffre Soares intraprese poi la carriera professionale conclusa con un centinaio di film all’attivo. Premiato a Cannes e Nomination Palma d’Oro.

  

The Snare (Yasuzô Masumura, Jap, 1973)

Questa volta Masumura si cimenta nel genere chambara (samurai e spade) dirigendo il secondo film della trilogia che vede protagonista Hanzo the Razor, un poliziotto violento ma incorruttibile, imbattibile sia con la spada che con qualunque altra arma, grande amatore, che persegue i propri fini agendo con audacia al limite della legalità. Esagerato come quasi tutti quelli di tale genere, ha una trama che tende più all’intrigo economico e politico che alla classica storia di samurai. Come gli altri del periodo conclusivo della sua carriera, anche questo è a colori … a mio giudizio si esprimeva meglio con il bianco e nero. Abbastanza violento ed in parte erotico (genere più volte trattato da Masumura nei suoi ultimi film) riesce ad essere comunque snello e pieno di colpi di scena e quindi si lascia guardare.

Los confines (Mitl Valdez, Mex, 1967)

Mitl Valdez esordì alla regia con questo film che combina un paio di racconti (Talpa e Diles que no me maten) e parte di un romanzo (Pedro Paramo) del notissimo (almeno in patria) autore messicano Juan Rulfo, capostipite del realismo magico, stile poi seguito anche da Gabriel García Márquez, suo grande estimatore. Se da un lato è visivamente ben presentato, dall’altro c’è da dire che Valdez abusa nel far recitare ad una voce fuori campo interi brani degli scritti ai quali si è ispirato. Di conseguenza ci sono contenuti più che buoni ma male adattati al grande schermo.

Recordações da Casa Amarela (João César Monteiro. Por, 1989)

Si tratta di un film strano, certamente quello più fuori dagli schemi in questo gruppo. Il protagonista (interpretato dallo stesso regista) è un uomo di mezza età, malaticcio, svagato, erotomane, sostanzialmente instabile, che vive in una casa di pensionanti di varie età, estrazioni sociali e professioni (se ne hanno una). Da ciò è facile intuire che la sostanza sta nei rapporti con i coinquilini, con la padrona di casa e qualche vicino.

 

#cinema #cinegiovis

lunedì 19 ottobre 2020

Micro-recensioni 351-355: di nuovo 5 cinematografie diverse

Stavolta si tratta di Giappone, Perù, India, USA e Cuba. Di livello certamente superiore è il film giapponese (l’ennesimo di Masumura, ma totalmente diverso dagli altri), interessanti il peruviano e l’indiano, al di sotto delle aspettative i rimanenti due. Tuttavia, i primi quattro hanno in comune il fatto di affrontare i rispettivi temi (guerra, ordine militare, terrorismo, ambiente) più o meno seriamente e fornire una morale o, quantomeno, un preciso punto di vista.

 

(The) Red Angel (Yasuzô Masumura, Jap, 1966)

Si tratta di uno dei più apprezzati film di Masumura, che in questo caso si cimenta nel genere bellico ma di combattimenti se ne vede solo uno, parziale e di minore importanza. Il tema è l’irrazionalità della guerra in sé (in questo caso quella in Cina) e quindi è dichiaratamente contro di essa. Protagonista (interpretata da Ayako Wakao, musa del regista, 25 film con lui) è una giovane infermiera, dislocata in un ospedale militare, poi uno da campo al fronte, e infine in un avamposto circondato dai cinesi. Non è film per spettatori troppo sensibili o deboli di stomaco, le operazioni quasi senza anestesia, i mucchi di arti amputati, gli ammassi di cadaveri e i feriti stipati sono affiancati da altri problemi altrettanto problematici e scottanti. In questa situazione nasce un legame fra l’infermiera e un chirurgo i quali spesso si trovano a discutere di quella che oggi si chiama bioetica.

Ottimo film, uno dei più apprezzati di Masumura … 7,8 su IMDb, solo 4 recensioni su RT (tutte più che positive), gradimento del pubblico 95%

La ciudad y los perros (Francisco Lombardi, Perù, 1985)

Tratto dall’omonimo romanzo di esordio di Mario Vargas Llosa, Premio Nobel per la letteratura nel 2010. Nel 1999 il regista Francisco Lombardi avrebbe poi adattato anche il remake di un altro suo romanzo, Pantaleón y las visitadoras (1973), che era già stato portato sul grande schermo dallo stesso autore nel 1976, ma senza grande successo tant’è che è rimasta la sua unica regia. Quasi tutto il film si svolge nel collegio militare di Lima ma la trama, pur comprendendo gli inevitabili classici episodi di nonnismo e bullismo (tristemente noti in ogni paese ed in ogni epoca), si distacca dal solito e prevedibile mettendo in evidenza il marciume che esiste anche nell’ambiente degli ufficiali e sottufficiali. Non quotato su RT (essendo peruviano non ha recensioni) appare comunque in IMDb con un più che buono 7,4.

  

A Wednesday (Neeraj Pandey. India, 2008)

Film d’esordio di Pandey, non solo regista ma anche sceneggiatore e produttore. Si tratta di uno dei vari film che prendono spunto dal terrorismo (frequenti gli attacchi di questo tipo in India) per costruirci sopra un thriller. Concettualmente è simile a tanti altri (ultimatum con determinate richieste da soddisfare per evitare una strage di civili) e si svolge in poche ore, ma la storia è abbastanza varia e piena di sorprese. Particolarmente apprezzabile è la tecnica di ripresa con camera quasi sempre in movimento, scene intense con montaggio velocissimo, ottimo commento musicale sempre adatto alle varie situazioni (ma niente a che vedere con Bollywood).

Solo nella seconda parte, poco prima del finale abbastanza inaspettato, rallenta per far proporre un lungo dialogo fra i due protagonisti che spiegano nel dettaglio le proprie ragioni: quelle dei cittadini comuni e quelle della legge. Dilemma morale ben noto e discusso da secoli, ma pur sempre interessante.

Da guardare, quantomeno per vedere un diverso approccio al tema rispetto ai soliti film americani.

The Misfits (John Huston, USA, 1961)

Fu l’ultimo film sia per Clarke Gable (infarto subito dopo il termine delle riprese) che per Marilyn Monroe (nota discussa morte l’anno successivo); li affiancano Montgomery Clift ed Eli Wallach. Noto forse più per i primi motivi e per avere nella sceneggiatura (pare) vari similitudini con la fine della relazione fra l’attrice ed Henry Miller (autore); riprese complicate dalla conclamata dipendenza di alcol e droghe di buona parte di loro e da un certo boicottaggio nei confronti di Eli Wallach.

C’è un po’ di tutto nella trama, Gable e Wallach si interessano alla Monroe appena divorziata e accompagnata dalla grande caratterista Thelma Ritter (6 Nomination Oscar non protagonista). Successivamente entra in gioco Montgomery Clift, parte relativamente breve, e scompare la Ritter.

A questo punto è bene precisare che misfits potrebbe e dovrebbe essere tradotto come “disadattati, asociali, …” e non Gli spostati (titolo italiano). Infatti, ognuno dei 4 ha le sue fisime e un suo personaggio al quale si attiene, in particolare i tre uomini. Non dico di ciò che avviene nel corso del film ma vado direttamente alla conclusione (non lo vedo come spoiler) nella quale si assiste ad uno scontro fra i 4 (quasi del tutto verbale) che molti hanno voluto interpretare come precursore delle idee anti-western, ambientaliste e animaliste, ma che non lega con i personaggi. Non mi ha convinto …

Guantanamera (Tomás Gutiérrez Alea, Cuba, 1995)

Ultimo film del regista cubano, girato subito dopo il suo più noto Fragola e cioccolato; un’altra commedia e anche in questo caso (come in La muerte de un burocrata, 1966) tutto ruota attorno un cadavere che deve essere sepolto dall’altra parte dell’isola. Sorgeranno innumerevoli intoppi, i carri funebri saranno cambiati più volte e seguiranno lo stesso itinerario di un camion guidato da due singolari autisti, uno dei quali è invaghito da tempo di una donna che viaggia nell’auto al seguito del morto …

Pur avendo messo tanta care a cuocere, Gutiérrez Alea e i suoi co-sceneggiatori non riescono ad essere brillanti come nel succitato film di 30 anni prima ed in particolare la parte romantica è abbastanza melensa. Evitabile.


#cinema #cinegiovis

martedì 13 ottobre 2020

Micro-recensioni 346-350: gruppo cosmopolita, film di 5 nazionalità diverse

L’unico noto è Baci rubati di Truffaut, un classico della Nouvelle Vague, gli altri film sono produzioni pressoché sconosciute, un iraniano e tre dell’America Latina; ognuno di essi ha le sue particolarità e tutti godono di buona critica tant’è che il rating medio su IMDb è di 7,5. Tuttavia, vari di essi mi hanno un po’ deluso.

 

Muerte de un burocrata (Tomás Gutiérrez Alea, Cuba, 1966)

Divertente e arguta commedia diretta grottesca e co-sceneggiata da Tomás Gutiérrez Alea, uno dei più conosciuti registi cubani al di fuori dell’isola, avendo diretto Fragole e cioccolato (1993, Nomination Oscar, Premio della Giuria e Orso d’Argento a Berlino per la regia). Tagliente critica alla burocrazia in genere e a quei dirigenti e impiegati che pretendono di seguire ciecamente leggi e regolamenti, anche quando è impossibile applicarli. Si presenta una situazione kafkiana, con circostanze degne di Comma 22, esaltata dal fatto che al centro del problema c’è un cadavere. Ottusità e paradossi regnano incontrastati in questa descrizione della lotta impari contro la burocrazia che alcuni di noi, di tanto in tanto, si trova a dover affrontare. Penso che il soggetto si potrebbe adattare a qualunque paese e a qualunque epoca; il limite della versione cubana consiste in alcune scene troppo paradossali ed esagerate, che contrastano con tutto il resto che è purtroppo abbastanza vicino alla realtà.

Consigliato come sagace e pungente passatempo.

La bestia debe morir (Román Viñoly Barreto, Arg, 1952)

Interessante noir narrato quasi interamente con un lungo flashback, a partire da una (probabile) morte per avvelenamento. La chiave della storia è una serie di casualità/coincidenze estremamente improbabili pur essendo certamente possibili, cosa assolutamente non nuova nei thriller. Interessante e ben messo in scena, descrive una ricca famiglia borghese nella quale regnano ipocrisia, gelosia, tradimenti, prevaricazione e anche violenza.

Film segnalato in una delle tante liste, peccato per la scarsa definizione e la pessima qualità del sonoro del file che ho trovato.

Curiosità: il soggetto è tratto da una storia di Cecil Day-Lewis, autore inglese padre del celebrato attore Daniel (Oscar per Il petroliere, Lincoln, Il mio piede sinistro, Nomination per Gangs of New York, Nel nome del padre e Il filo nascosto).

  

Sombra verde (Roberto Gavaldón Mex, 1956)

Gavaldón è uno di quei registi messicani che pur non avendo mai diretto capolavori assoluti è sempre affidabile, sceglie delle buone sceneggiature e dirige bene anche attori non famosissimi. Con narrazione svelta passa dai moderni uffici di una grande azienda nella capitale ad un avventuroso viaggio nella selva caraibica e infine ad un soggiorno “forzato” in un inaspettato “paradiso”, che proprio tale non è. Più che buone sono le riprese nella selva, mai semplici; il viaggio è occasione per pubblicizzare non solo l’ambiente, ma anche tradizioni come i voladores de Papantla e archeologia con El Tajin e la sua Piramide delle nicchie, singolare monumento maya poco conosciuto ma unico nel suo genere. Fra film d’avventura e dramma passionale-romantico, propone anche la visione indigena della selva e della sua sombra verde.

Baci rubati (François Truffaut, Fra, 1968) 

Non sono mai stato un gran ammiratore di Truffaut, ma continuo a guardare i suoi film in quanto riconosco che, in particolare i primi, introdussero un modo di filmare relativamente diverso da quello che all’epoca si considerava ortodosso.

Volutamente abbastanza banale e insulso, trovo Jean-Pierre Léaud perfetto per il ruolo data la sua insipienza. Da sottolineare invece la presenza di Delphine Seyrig, meteora nell'ambito della Nouvelle Vague, che esordì in L'année dernière à Marienbad (Alain Resnais, 1961); lei stessa regista sperimentale soprattutto di corti e documentari, oltre che attrice. Nomination Oscar film straniero.

Mossafer - Le passager (Abbas Kiarostami, Iran, 1974) 

Dei vari film di Kiarostami che ho guardato questo mi sembra essere il meno convincente. Si tratta del suo secondo lungometraggio che, come quasi sempre, è basato su una sua sceneggiatura originale che tratta di vite comuni, in piccole cittadine, spesso con protagonisti giovani e non professionisti.

Non appassionante, è comunque interessante per dare uno sguardo alla vita comune in Iran mezzo secolo fa.

#cinema #cinegiovis

domenica 11 ottobre 2020

Micro-recensioni 341-345: buon mix di sorprese e … gemelle

In questa cinquina ho inserito i due film che completano il triangolo di gemelle: due americani interpretati da Bette Davis e due con stesso soggetto con la versione messicana interpretata da Dolores del Rio. Ma ho anche recuperato tre film a me sconosciuti, con cast pieni di tanti grandi nomi; uno è sicuramente da non perdere, un altro si è rivelato piacevole e ben realizzato, ma molto datato, il terzo molto deludente.

Baby Doll (Elia Kazan, USA, 1956)

Film di qualità, eppure poco conosciuto nonostante i nomi dei cineasti impegnati e 4 Nomination Oscar. Inutile discutere del regista Elia Kazan e di Tennesse Williams, autore di questa sceneggiatura originale che ha una struttura chiaramente teatrale, con tre personaggi principali, in continua contrapposizione ma per motivi molto differenti. I tre (ottimi) interpreti sono Karl Malden (l’unico già molto apprezzato e di esperienza), Carroll Baker appena al suo terzo film ma considerate che nel secondo (Il gigante, dello stesso anno) era apparsa al lato di James Dean, Elizabeth Taylor e Rock Hudson, ed Eli Wallach al suo esordio assoluto sul grande schermo, dopo qualche anno di TV. Tennesse Williams ottenne la sua seconda Nomination Oscar dopo quella di 5 anni prima per Un tram chiamato desiderio, anche quello diretto da Elia Kazan e con Karl Malden che ottenne l’Oscar come non protagonista; candidate Oscare furono anche le due sole donne del film, Carroll Baker protagonista e Mildred Dunnock non protagonista; l’altra Nomination andò a Boris Kaufman (Oscar per Fronte del porto) per la fotografia.

La singolare storia (e situazione quasi surreale) narra di un uomo maturo (Malden) che ha sposato una giovane e avvenente ragazza (Baker) ma, per contratto, deve aspettare il compimento dei suoi 20 anni prima di condividere il letto coniugale. Il giorno prima del fatidico compleanno irrompe in scena il siciliano Silva Vaccaro (Wallach) che ha un conto da regolare con Malden … e non dirò di più. Divertenti alcune frasi in dialetto che evidentemente erano talmente conosciute da non richiedere sottotitolo neanche nella versione originale; t’aggia romp’re i corna - Mamma mia! - Cose e pazz!

Senz’altro consigliato.

 

La otra (Roberto Gavaldón, Mex, 1946)

Vi avevo anticipato l’intenzione di una nuova visione di questo film per avere identico soggetto del successivo Dead Ringer (1964), guardato per la prima volta e commentato la settimana scorsa.

In effetti il trattamento è abbastanza differente; il primo (messicano) tende più al romantico, l’altro (hollywoodiano) più al crime. Molto diversi vengono descritti i due spasimanti poliziotti ed è singolare che anche il cane abbia carattere opposto e in uno dei due risulta addirittura fondamentale.

Fra i due preferisco questo come atmosfera e fotografia, l’altro per essere più avvincente, con tensioni e colpi di scena più significativi.

A Stolen Life (Curtis Bernhardt, USA, 1946)

Questo è invece il film nel quale Bette Davis interpretò la prima volta due gemelle assolutamente identiche ma dai caratteri e stili di vita molto diversi e che indusse la Warner a rimandare Dead Ringer per essere concettualmente uguale (sostituzione di persona), seppur diverso nella sostanza. Senz’altro sufficiente, ma assolutamente poco avvincente.

 

Desire (Frank Borzage, USA, 1936)

Crime-comedy leggera con un giovane Gary Cooper in cerca d’avventure amorose che, nel corso di un viaggio premio sulle strade di Spagna, trova sulla sua strada l’affascinante truffatrice internazionale Marlene DietrichTrama ben congegnata nella quale l'attrice tedesca si cala perfettamente nel personaggio della femme fatale di turno, mentre sorprende vedere Cooper in un ruolo non abituale ... comunque se la cava più che bene. Buon passatempo.

The Comedy of Terrors (Jacques Tourneur, USA, 1963)

Questo l’ho scelto semplicemente per aver visto un vecchio enorme poster della versione portoghese (O Gato Miou Três Vezes, in Italia fu titolato Il clan del terrore) e per il cast che metteva insieme icone quali Vincent Price, Peter Lorre, Boris Karloff e Basil Rathborne (15 film nelle vesti di Sherlock Holmes). In effetti solo i dialoghi sono abbastanza brillanti, gli eventi sono scontati e/o esagerati. Il soggetto poteva essere sfruttato in modo migliore, risulta chiaro che però l’obiettivo era quello di produrre film popolare e di cassetta. Il regista Jacques Tourneur sarà certamente ricordato per alcuni suoi noir e western, non certo per questo film.

mercoledì 7 ottobre 2020

E dopo Lisbona, di nuovo a Portimão (Algarve)

Come nella capitale, anche qui ho trovato tante novità … e non tutte buone. Varie chiusure di trattorie tipiche (fra le quali le mie preferite), qualche cambio di gestione (in peggio) ma per fortuna tutti i percorsi lungo i margini delle scogliere e falesie resistono e vari di essi sono stati migliorati. Le viste e i panorami sono rimasti eccellenti e qualunque camminatore, anche con un telefonino economico, non ha difficoltà a ottenere belle immagini ma ha il solo problema di non riempire la memoria, visto che ogni pochi metri lo scenario cambia e gli stessi soggetti sembra diversi.

Ho creato tre album diversi per le tre prime uscite di 12-15km, tutte in zona, senza necessità di alcun trasporto. Vi propongo poche foto ma sotto ciascuna coppia ho aggiunto il link alle altre scattate nelle relative passeggiate.

 

Lunedì pomeriggio: spiagge di Portimão, da Praia da Rocha a Praia de Boião

Come si vede, le spiagge sono ampie, sappiate però che è possibile percorrerle in continuità, senza bagnarsi, solo per meno di un’ora per ogni ciclo di marea. Alcune quasi scompaiono, l’ampiezza di altre varia di decine e decine di metri fra massima e minima. L’ultima foto è bacalhau com nata (baccalà con panna); a primo acchito la combinazione non suona bene ma una volta superati i preconcetti è senz’altro promosso. Provato più volte, anche al nord del Portogallo, sempre più che soddisfacente … ci sono anche tocchetti di patate.

 

Martedì mattina: da Ferragudo a Ponta do Altar

Ferragudo è una piccola e caratteristica cittadina, dirimpettaia di Portimão dalla quale è divisa dalla foce del fiume Arade. Dalla Ponta do Altar (faro) si può proseguire con vari saliscendi fino al paesino successivo lungo la costa: Carvoeiro. Fra Ferragudo e il promontorio con il faro ci sono varie spiagge accessibili e sorvegliate.

 

Martedì pomeriggio: algar, calanchi e scogli fra Praia do Vau a João de Arens

Gli algar sono degli sprofondamenti (più o meno di forma circolare) che si vengono a creare a seguito del crollo della volta di una delle tante grotte costiere. Il problema dell’erosione e della conseguente poca stabilità dei cigli dei costoni è da tener sempre ben presente, sia trovandosi in cima che alla base. Non è assolutamente opportuno stendersi ai piedi della parete (casomai per trovare un poco d’ombra) per rischio caduta pietre ed egualmente non ci si deve avvicinare troppo al bordo di scogliere e algar (molti dei quali sono protetti da solide staccionate.

martedì 6 ottobre 2020

Micro-recensioni 336-340: primo Herzog, una doppia Bette Davis e 3 Roy Andersson

Un gran bel film di Werner Herzog, suo primo lungometraggio, ed un noir/crime non proprio classico, ma più che buono, dominano indiscutibilmente questa cinquina avendo come contendenti tre film del tanto acclamato (secondo me sopravvalutato) e discusso regista svedese Roy Andersson.

Non vi perdete il breve video estratto dal film di Herzog!

 

Segni di vita (Werner Herzog, Ger, 1968)

Ottimo film di Herzog, girato in b/n sull’isola greca di Kos, con l’aggiunta di qualche ripresa a Creta, che vede protagonisti uno sparuto gruppo di soldati tedeschi a guardia di un deposito di munizioni custodito in un vecchio forte veneziano. Il personaggio principale (Stroszek … un caso?) viene tenuto lì in convalescenza dopo essere stato ferito alla testa ma con il procedere della storia si vedrà che “non tutto è andato per il verso giusto”. In questo suo primo lungometraggio, il regista tedesco già mostra vari dei suoi temi e stili preferiti: personaggi particolari, sfide impossibili, presenza significativa di animali, il commento sonoro, attenzione alle location in stile tendente al documentaristico. A tal proposito vi propongo un clip (seconda parte) in cui i soldati di ronda si trovano davanti ad una valle letteralmente piena di mulini a vento … location e musica incredibili, riferimento anche a Don Chisciotte?

Premio come Miglior opera prima e Nomination Orso d'Oro a Berlino, il film è tutto girato magistralmente con una bella fotografia b/n, con pochi attori (non tanto conosciuti) e tante comparse locali, sulla base di una sceneggiatura scritta dallo stesso Herzog, vagamente ispirata al racconto L'invalido folle del forte Ratonneau, scritto nel 1818 di scritto da Ludwig Achim von Arnimennesima dimostrazione del fatto che per produrre buoni film non ci vogliono budget esorbitanti e star, bastano idee, cultura, creatività e il saper dirigere riprese e postproduzione.

Dead Ringer (Paul Hendreid, USA, 1964)

Ottimo film che vede l’antipatica (almeno per la maggior parte dei suoi ruoli) eppur brava Bette Davis nei panni di due gemelle. Appena lette le due righe introduttive, la mente è andata a La otra, film messicano del 1946 di identico soggetto, nel quale la (doppia) protagonista era Dolores del Rio. Quello che non si trova fra i trivia del film hollywoodiano si trova fra quelli del messicano, vale a dire che derivano da una stessa storia creata da Rian James nel 1944. Inoltre, ho appreso che la Warner, che pur aveva acquisito i diritti, rinunciò a produrlo all’epoca in quanto proprio nel 1946 uscì un A Stolen Life (con Bette Davis nel ruolo di due gemelle) e trama troppo simile anche se nella sostanza differente. Ora mi sento quindi "costretto" a guardare di nuovo La otra (visto anni fa, ma lo farò con piacere, IMDb 7,4) per apprezzare la differenza di trattamento nella sua sostanza e la diversa ambientazione fra anni ‘40 in Messico e ’60 in USA. Inoltre penso di recuperare anche A Stolen Life visto che oltretutto vanta un più che onorevole 7,3 su IMDb, alla pari di questo Dead Ringer

Non volendo svelare niente della avvincente trama, mi limiterò a dire che le sostituzioni di persona sono sempre più difficili del previsto.

  

A Swedish Love Story (Roy Andersson, Sve, 1970)

Primo lungometraggio dei soli 6 che Andersson ha diretto nella sua lunga carriera, il successivo Giliap (un flop) uscì 5 anni dopo e poi seguì una pausa di 25 anni fino all'inizio della Trilogia. Questi primi due sono i soli ad avere un minimo di trama, i successivi sono commedie dell’assurdo con tendenze al surrealismo. In breve, si tratta di un innamoramento adolescenziale, con un po’ di bullismo (per rivalità), un po’ di sesso e un po’ di ingerenze da parte degli adulti. Verso la fine, però, già si fa notare la predisposizione all’assurdo del regista che nella scena della festa anticipa stile ed alcuni dei temi che saranno le colonne portanti dei suoi successivi lavori. Pluripremiato a Berlino, guardabile.  

Canzoni del secondo piano (Roy Andersson, Sve, 2000)

Primo pezzo della Trilogia, terzo, quarto e quinto film di Andersson girati a 7 anni di distanza l’uno dall’altro. Atmosfere surreali derivanti da scene assurde, mancanza di colori minimamente vivi (tutti fra le varie tonalità di grigio e di beige), macchina rigorosamente immobile senza neanche una zoomata (ricordo solo una carrellata all’indietro), serie di brevi sketch spesso slegati fra loro, altre volte con personaggi già proposti. Poche volte si sorride, specialmente noi mediterranei che non riusciamo a comprendere quanto sia soffocante e intollerabile la vita routinaria nei paesi nordici, ipoteticamente perfetti ma con noti grandi problemi di alcolismo, depressione e alti tassi di suicidi.

Certamente il regista/sceneggiatore si rende conto di ciò e il suo dark humor tende appunto a ridicolizzare la società scandinava e le fisime dei protagonisti sia in ambito lavorativo che familiare. Premio della Giuria e Nomination Palma d’Oro a Cannes.

You, the Living (Roy Andersson, Sve, 2007)

Secondo elemento della Trilogia dell’esistenza, in stile molto simile agli altri due, quindi più o meno vale quanto appena scritto in merito al precedente. Inutile commentare e/o analizzare i vari sketch, situazioni e personaggi. Premio Un Certain Regard a Cannes.

Il terzo elemento della Trilogia (Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, 2014), fu Leone d’Oro e con il successivo Sulla infinitezza (2019) ottenne Leone d’Argento per la regia e Nomination Leone d’Oro a Venezia. Per completezza, riporto quanto scrissi in merito al piccione, come si legge, quasi niente cambia:

"Alcune idee sono quasi geniali, ma nel complesso sembra una collezione (mal riuscita) di scadenti sketch, ben lontani dalla media dei Monty Python (ai quali viene spesso paragonato - ndr). Si può apprezzare l'idea di avere alcuni o tutti i personaggi in campo quasi immobili in un quadro fisso e ad accentuare la staticità come ha fatto Andersson appiattendo le scene rendendole quasi monocromatiche, con colori che variano dal beige, all'ocra e al marrone. A ciò si aggiunge la recitazione con tono monotono e spesso un po' lamentoso... e la poco piacevole sonorità della lingua svedese aggrava la situazione. C'è chi ha voluto leggere significati strani (talvolta opposti, quindi qualcuno certamente sbaglia) in alcune scene che, comunque, lasciano un po' perplessi. Per esempio quelle con soldati d’altri tempi (anche con un cavallo) nel bar, quella della scimmia e quella con gli schiavi in quanto (almeno apparentemente) si allontanano più delle altre dal debole e difficilmente individuabile filo logico o conduttore, comunque al limite del surreale. Direi un film non-film, un esercizio cinematografico con qualche pregio e qualche citazione che lo distinguono dalla massa, ma a mio parere non lo elevano a prodotto notevole se non per la sua singolarità." (novembre 2017)

#cinema #cinegiovis

domenica 4 ottobre 2020

Micro-recensioni 331-335: classici portoghesi anni ’40 e Ruy Guerra

Con l’obiettivo di rinfrescare il mio scadente portoghese, mi sono messo alla ricerca di buoni film da guardare in tale idioma e ho scelto 3 apprezzate commedie classiche degli anni ‘40 (media IMDb 7,7), una delle quali diretta dall’emblematico cineasta lusitano Manuel de Oliveira, la cui mano si nota nella regia. 

Ho completato la cinquina con due film diretti dal brasiliano Ruy Guerra, il primo dei quali è senz'altro il più notevole e interessante del gruppo sia per pura tecnica cinematografica che per contenuti (soggetto dello stesso regista).

  

Aniki Bóbó (Manuel de Oliveira, Por, 1942)

Primo lungometraggio del più emblematico regista portoghese, nato e morto a Oporto, alla veneranda età di 106 anni. In precedenza, come poi anche nei seguenti 20 anni, si dedicò soprattutto a documentari e corti. Il titolo Aniki Bóbó è estrapolato dal tocco Aniki-Bebé/ Aniki-Bobó/ … /Tu és polícia/tu és ladrão, che si usava prima di giocare a guardie e ladri per decidere chi dovesse essere polícia e chi ladrão. Nel film si descrive la vita in strada di un gruppo di ragazzini dei quartieri poveri di Oporto, che passano il tempo fra scuola (poco), bagni nel Douro e litigi, ma parte importante ha la rivalità fra due di loro a causa dell’unica ragazzina del gruppo. Come anticipato, sulla borsa di Carlitos (il bambino protagonista) si legge il motto Sempre por bom camihno, che è anche legato alla trama per altri motivi. Ma c’è anche un’altra curiosità: in classe si legge il racconto João o parvo, simile a quello di titolo omonimo (se tradotto) di Giovanni lo scemo (che ricordo raccontato dai miei nonni) … chissà quale fu il paese di origine e da quanti secoli si narrano tali storie esemplari. IMDb 7,6

O pai tirano (António Lopes Ribeiro, Por, 1941)

A metà strada fra commedia e farsa, si sviluppa in parallelo fra la realtà e una messa in scena ma le situazioni simili e dialoghi adattabili ad entrambe i contesti condurranno ovviamente ad una serie di equivoci. I protagonisti fanno parte del gruppo teatrale amatoriale Os Grandelinhas, essendo tutti impiegati dei famosissimi e lussuosi grandi magazzini Grandela, tuttora esistenti al centro di Lisbona. Ecco un paio di curiosità … . All’ingresso dei magazzini resiste ancora oggi (dall’inaugurazione del 1907) il grosso ovale scolpito recante un motto di origine incerta ma che ben presto divenne un detto popolare Sempre por bom camihno e segue (= segui sempre la retta via * foto a sinistra). Ripetuto e mostrato più volte, lo si ritrova anche nell’altro film di questo gruppo (Aniki Bóbó), scritto sulla cartella del protagonista. La rappresentazione dei finti nobili ricorda molto quella famosa nel film Miseria e nobiltà (1954, ma la commedia di Scarpetta è del 1887). Prodotto certamente datato, ma si lascia guardare e serve a chi vuole farsi l’orecchio con il portoghese … almeno quello classico. IMDb 7,9

O Leão da Estrela (Arthur Duarte, Por, 1947)

Altra classica commedia amatissima dai portoghesi, noti per le grandi rivalità calcistiche. Infatti Leão (leone, il simbolo dello Sporting Lisbona) è anche il soprannome dei tifosi della squadra, acerrimi rivali di Benfica e Oporto. Il protagonista Anastácio, impiegato di limitate disponibilità finanziarie, per seguire i suoi beniamini in trasferta si avventura in una straordinaria serie di bugie coinvolgendo e sfruttando le conoscenze di moglie e figlie, nonché della cameriera e del suo fidanzato chauffeur, per andare ad “accamparsi” a casa di una ricchissima famiglia portuense. Nella serie di equivoci e bugie si inserisce anche un misterioso e ricco vicino, dai misteriosi traffici internazionali. IMDb 7,6

 

Os fuzis (Ruy Guerra, Bra, 1964)

Film che i cinefili dovrebbero recuperare e guardare con attenzione per l’ottima regia (Orso d’Argento a Ruy Guerra e Nomination Orso d’Oro a Berlino). Atmosfera a tratti quasi surreale con campi lunghi su una moltitudine di disperati guardati a vista da soldati che devono proteggere il trasporto del raccolto. A causa della siccità gli abitanti di Milagres, villaggio nel nord del Brasile, sono infatti affamati e per loro l’unica alternativa sembra essere quella di pregare, spesso in processione, seguendo un farneticante santone che porta in giro un bue secondo lui sacro; nell’arido territorio le prediche urlate si alternano a canti sacri e litanie. Parallelamente si sviluppano storie personali di alcuni soldati, annoiati ed in parte impauriti, e dei loro rapporti con qualche civile.

Bella e nitida la fotografia b/n che si adatta perfettamente agli ottimi piano sequenza, spesso con più movimento di personaggi (che escono e rientrano in scena) che movimenti di macchina, comunque per lo più a mano.

Eréndira (Ruy Guerra, Mex, 1983)

La sceneggiatura è di Gabriel García Márquez, adattamento del suo romanzo breve del 1972, pubblicato in Italia con titolo La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturataChi lo volesse cercare stia attento a non confonderlo con altro film messicano quasi omonimo, Eréndira la indomable (2006), che niente ha a che vedere con il testo di Gabo. Film abbastanza noioso e slegato; inoltre, il cast internazionale non aiuta e i vari accenti, seppur in teoria plausibili, risultano essere una stonatura.

 

#cinema #cinegiovis

sabato 3 ottobre 2020

Per l'ennesima volta Lisboa non mi delude

Dalla mia prima volta (41 anni fa) è ovviamente cambiata molto, si è rigenerata, il centro ha perso un po' del suo appeal diventando troppo turistico ma, in compenso, i servizi in genere sono diventati ottimi; metà dell'allora malfamata Alfama ora appare piena di piccoli ristoranti, cervejarias, negozi di artigianato e souvenir e varie case cadenti sono state trasformate in b&b quasi di lusso. I musei si sono moltiplicati (alcuni molto originali, vedi sotto) e riorganizzati, i retiros originali del fado si stanno perdendo e di conseguenza anche il genere resta vivo quasi solo per i turisti (almeno a Lisbona).

 

Di questa mia nuova visita (condizionata dal covid, mascherina x trasporti e locali pubblici, per fortuna non per strada) ripropongo alcune foto di luoghi ed elementi per fortuna ancora originali visto che purtroppo sono destinati a scomparire o ad essere profondamente modificati entro i prossimi anni. Comunque è sempre piacevole andare in giro e scoprire le novità di una città dinamica in continua evoluzione che tuttavia riesce a preservare molte delle sue tradizioni.

  

Preziosa insegna / pannello di azulejos (classiche mattonelle portoghesi monocromatiche, azul = azzurro) che purtroppo temo scomparirà a breve. Non pensate a male... Minhota (pron. Mignota) significa nativa della regione del Minho. A destra un piccolo pannello visto nella parte alta di Alfama mi è parso molto strano, certamente inusuale ... a voi non sembra una scimmia con occhiali?

Ieri sera ho trovato chiuso O Cantinho de São José (ma per fortuna riapre domani) dove speravo di trovare un ensopado de borrego o una chanfana, in compenso oggi sono tornato per l'ennesima volta al Tunel de Alfama del quale ho già scritto più volte. Conoscendo le dimensioni delle porzioni, ho saggiamente rinunciato alla sopa e non ho toccato il pane... comunque ho dovuto fare una pausa dopo il coniglio (coelho à caçador) e me ne sono andato più che sazio dopo aver concluso con una macedonia (uva, mela, kiwi, pesca e arancia) e caffè ... il tutto per 7,50 euro! 

 

Il locale è frequentatissimo dai locali (di solito di una certa età e da lavoratori in pausa) il che è già un ottimo segno, ma l'altra cosa simpatica è che fra le 14.30 e le 15.00 il signor Abel (proprietario-gestore-cameriere, foto sopra) si siede a tavola con Iris (cuoca) con due porzioni di quello che è rimasto e un litro di vino (nel menù è compreso 1/2 litro a persona) ... esattamente come tutti i clienti, molti dei quali stanno ancora finendo di mangiare.

 

 
 
Le foto sopra rappresentano l'ingresso della mia cara Cinemateca Portuguesa, la scalinata del Jardim de Graça, il Pantheon, Campo das Cebolasil singolare e affascinante palazzetto sopra la fontana Chafariz d'El Rei e la stranota Praça do Comércio e Arco da Rua Augusta
Chiudo con altri due simboli di Lisboa: il Castelo de São Jorge e il Ponte 25 Abril (visti dal Miradouro da Graça).