mercoledì 29 aprile 2020

Micro-recensioni 141-145: mix di arretrati asiatici … Iran, Jap, Kor e Taiwan

Avendo organizzato la visione delle precedenti cinquine asiatiche in modo abbastanza omogeneo, mi erano rimasti vari scampoli. Nonostante la generale buona fama dei titoli, vari di essi mi sono sembrati deludenti, certamente al di sotto delle mie aspettative. Quello che ho gradito di più è il più "povero".

A moment of Innocence (Mohsen Makhmalbaf, Iran, 1996) IMDb 7,9 RT 89%
Ancora una volta un film in un film iraniano, come quelli della trilogia di Koker di Kiarostami in uno dei quali Makhmalbaf interpretava sé stesso e si basava su un altro singolare evento della sua movimentata vita. Qui il regista dirige e interpreta di nuovo sé stesso e, da regista/sceneggiatore (anche nel film), mostra la produzione di un film che dovrebbe duplicare un episodio avvenuto 20 anni prima quando, da studente 17enne, pugnalò un poliziotto nel tentativo di disarmarlo … e dopo si fece anche 4 anni di carcere. Si comincia dal casting con l’aiuto del poliziotto accoltellato (non più in servizio, entusiasta per partecipare alle riprese, ma piuttosto riottoso) ognuno si deve scegliere, e quindi istruire, il suo interprete da giovane. Quindi ognuno ha un suo doppio, le scene vengono ripetute, così come i dialoghi, sia nella finzione che nella realtà della preparazione alle riprese.
Con una sceneggiatura sottile e brillante, cast striminzito composto da non professionisti, con regista e operatore spesso in campo (ma in questo caso giustificatamente), suppongo un budget ridicolo, Makhmalbaf realizzò un altro piccolo capolavoro di cinema minimalista ed essenziale.
Geniale e con un perfetto finale da short story.

The Housemaid (Ki-young Kim, Kor, 1960)  IMDb 7,3
Girato in modo egregio in bianco e nero e quasi tutto in interni, purtroppo si basa su una sceneggiatura (dello stesso Ki-young Kim) molto poco convincente ed un finale ridicolo. In particolare le riprese nella casa a due piani (che ha il suo elemento centrale nelle scale inquadrate da angolazioni sempre diverse) con alternanza di primi piani e riprese attraverso finestre e spiragli di porte, rendono molto bene un’atmosfera da dramma-thriller. Peccato però che i comportamenti dei protagonisti sono insulsi e poco credibili e le interpretazioni a dir poco scadenti, a cominciare dal primo attore veramente pessimo. Andando a cercare i motivi che giustificassero le buone critiche, ho visto che molti commenti concordano in linea massima con la mia opinione e ho anche scoperto due trivia interessanti: il ridicolo e completamente fuori tono finale fu aggiunto in postproduzione in quanto la vera conclusione fu reputata troppo scioccante e all’esordiente attrice che interpretò la squilibrata cameriera non furono più proposti altri ruoli (in effetti comparve in altri due film minori) si dice a causa del ruolo ricoperto in The Housemaid, ma penso anche perché non valeva un granché. Il film (restaurato grazie alla World Cinema Foundation di Martin Scorsese) si trova su YouTube a 720p e vale la pena guardalo per regia, fotografia e riprese, ma sappiate che molto probabilmente sarete delusi da sceneggiatura e interpretazioni.
Yi Yi (Edward Yang, Taiwan, 2000)  IMDb 8,1 RT 96%
Troppo lungo, lento e con troppa carne a cuocere, di conseguenza risulta discontinuo e dispersivo. Presenta una famiglia che comprende tre generazioni, con i problemi dei più giovani e di coppie evidentemente mal assortite anche a causa di vecchi amori che ritornano (non sempre graditi). Inoltre, finanza, malattia, religione, matrimoni e nascite si combinano – male – in questo film nel quale tutti sembrano scontenti e insoddisfatti mentre recriminano per il loro passato e per le loro azioni … e il regista/sceneggiatore Yang non riesce neanche a dargli la consistenza di un film corale. Nonostante sia stato premiato a Cannes per la miglior regia e in corsa per la Palma d’Oro, penso che sia ampiamente sopravvalutato e certamente le 3 ore di durata sono troppe per un film descrittivo. Anche questo è disponibile su YouTube a 720p.

Afraid To Die (Yasuzô Masumura, Jap, 1960)
Di Masumura ho parlato (bene) già varie volte ed anche il questo caso si conferma ottimo artigiano in grado di affrontare con successo qualsiasi genere, con solide messe in scena. Non ricordo suoi film eccezionali, ma non ce n’è uno che non sia ben realizzato.
In Afraid To Die si cimenta in un crime thriller in ambiente yakuza. Il protagonista Takeo, interpretato dallo scrittore Yukio Mishima (preso in considerazione per il Nobel, sui suoi lavori sono basati oltre 30 film), sa che appena uscito di prigione i suoi rivali tenteranno di ucciderlo. Un film ben congegnato, lineare ma non banale, con vari colpi di scena. Buon film di genere.

Mattone e specchio (Ebrahim Golestan, Iran, 1965)
Per quanto abbia apprezzato tanti film mediorientali, ho notato che vari di essi si basano su liti continue, discussioni senza fine e spesso senza senso, ripetitive e prevedibilmente prive di soluzioni (vedi i vari Farhadi, ma anche L’insulto), lasciando pensare che questo è il carattere di quelle popolazioni (ma non mi risulta). Sarà questo il loro modo di sviluppare una trama drammatica? La considerazione, già latente in mente mia, viene riportata in ballo per questo film, secondo me sopravvalutato, i cui dialoghi sono una litania di battibecchi, “consigli” scambiati aspramente fra sconosciuti, critiche filosofeggianti, accuse e ripicche. Inoltre, al contrario dell’appena citato The Housemaid, non è neanche particolarmente interessate dal punto di vista cinematografico.
Non comprendo la buona critica di cui gode … forse perché è l’antesignano del genere “litigioso”?

lunedì 27 aprile 2020

In vista dell'amnistia, preparatevi per la MaraTrail Amalfi - Colli S. Pietro

Nell’ambito degli incontri virtuali per approfondire di cartografia e orientamento in relazione all’escursionismo, i partecipanti (loro i profili altimetrici del percorso) hanno elaborato i percorsi di due MaraTrail ridotte al 75%, quindi poco più di una trentina di km, entrambe lineari ma quasi ad anello in quanto partenza e arrivo sono collegati da linea bus. In attesa di conoscere le condizioni di Palmentiello (tratto fondamentale per la Faito – Moiano via Capo Muro) ci siamo concentrati sulla Amalfi - Colli San Pietro, di 31km con circa 1.800m di dislivello, 1.100 dei quali nelle prime tre ore … poi sarà una vera passeggiata!
Infatti, si sale subito a S. Maria dei Monti (1.040m) passando per la Ferriera, San Marciano, sentiero alto Valle Ferriere, Scalandrone. Lasciata la piana del rifugio, si prosegue per oltre 10km fra falsipiani e brevi discese e salite, toccando il punto minimo a (935m) e il massimo a Capo Muro (1.079); l’unica breve salita degna di nota e quella per oltrepassare a nord Colle Sughero (circa 600m al 18%). Qui si potrebbero trovare dei rovi, ma niente di serio. Egualmente ce ne dovremo aspettare nel breve tratto della bretella FREE fra Crocella e Capo Muro e, molto più avanti a metà discesa da Monte Comune, subito dopo il noto rudere a 790m. Certamente molto dipenderà da quando ci sarà consentito di andare in giro liberamente.
Superata la frana, si affronta una lunga discesa pressoché continua ed in gran parte poco acclive, 4 chilometri da fare a passo allegro, prima della pausa caffè da Zi’ Peppe a Santa Maria del Castello.
Da qui solo 7,4km ci separano da Colli San Pietro, con più discesa che salita (-350m circa) ma questo tratto comprende l’ascesa a Monte Comune (1 km al 21%) che, con quasi 25km e 1.400m di dislivello nelle gambe, potrebbe sembrare più faticosa del solito. Prima della conclusione resta solo la breve e comoda salita dalla sella di Arola alla sella di Monte Vico Alvano, ma si tratta di appena 500m al 15%.
La salita mediamente più ripida di questa MaraTrail Amalfi - Colli San Pietro è quella fra sella San Marciano e Punta d’Aglio (900m al 24%), la più impegnativa sarà la lunga ascesa continua dello Scalandrone (3km al 17,5%) per andare dai 515m di Minuta ai 1.040 di S. Maria dei Monti.
In quanto alla logistica dipenderemo dall’orario del primo bus utile fra Sorrento ed Amalfi. Infatti, ai maratoneti della Penisola e probabilmente anche chi proviene dal lato di Napoli converrà raggiungere con mezzi propri Colli San Pietro, da dove andranno in bus ad Amalfi (dove troveranno i colleghi amalfitani) per poi tornare lì a piedi. In alternativa, con un congruo numero di sicuri partecipanti, si potrebbe anche organizzare un trasporto privato collettivo dai Colli fino a Amalfi. Gli Amalfitani avranno ovviamente bisogno del trasporto Colli – Amalfi a fine MaraTrail.
Anche se, chiaramente, i 31 km si possono fare in molto meno tempo, per goderci una MaraTrail comoda (sosta picnic, pausa caffè e foto) e sicura avremo bisogno di una decina di ore a disposizione. Altro elemento vincolante sarà il calar del sole, passato giugno ogni giorno sarà più corto ed avremo meno ore di luce. Pertanto, al momento non è possibile stilare una tabella di marcia precisa, non sapendo a che ora si potrà partire né entro che ora si dovrà concludere.


Anche se non ce ne dovrebbe essere più bisogno, si ricorda che per le MaraTrail vigono Decalogo FREE ed Eptalogo Camminanti.
Si sottolinea inoltre che la partecipazione è del tutto gratuita sotto la propria responsabilità e che sono necessari abbigliamento e calzature adatte, con suola antisdrucciolo.
Inoltre, è di fondamentale importanza essere assolutamente autosufficienti ed in grado di percorrere la distanza prevista (non sottovalutare i circa 1.800m di dislivello).
Si ricorda che i sentieri presentano fondo vario e spesso accidentato, salite e discese ripide, tante scale e brevi tratti esposti.

domenica 26 aprile 2020

Micro-recensioni 136-140: ottimo cinema ceco, estroso e fuori dagli schemi!


Dopo il lungo tour in Asia, torno in Europa con una cinquina di film molto particolari del periodo della Nouvelle Vague Ceca, fra la fine degli anni ’50 e inizio anni ’70. Tutti sono più che apprezzati dalla critica (notate i rating), ma per motivi completamente diversi: l’eccezionale fotografia in bianco e nero in formato panoramico che descrive una storia tragica e violenta del XIII secolo, la tecnica usata per parlare di morte e cremazione fra nazismo e buddismo, la follia di un narrazione cronologica sovrapposta a immagini proposte a ritroso, la combinazione (nel 1958) di animazione e disegni fra le parti con attori, un mix sperimentale fra surrealismo e viraggi in tanti colori.


Marketa Lazarová (Frantisek Vlácil, Cze, 1967)
IMDb 8,1 RT 100%

Veramente affascinante dal punto di vista fotografico! Eccellente descrizione dell’ambiente invernale, per lo più innevato, con alternanza di campi lunghi e particolari. La vita dell’epoca, anche con immagini abbastanza crude, viene proposta magistralmente, sia per quanto riguarda gli interni che gli esterni. Ciò è anche frutto dell’enorme lavoro di adattamento (4 anni circa) a partire dall’omonimo romanzo e delle pazienti riprese, distribuite su tre inverni (64-66). Oltretutto il regista, oserei dire abbastanza maniaco, per un lungo periodo fece vivere la troupe effettivamente nei boschi per calarsi nei loro personaggi e pretese che tutti i costumi fossero cuciti a mano.

Pur essendo stato acclamato a livello mondiale, Frantisek Vlácil si è sempre dichiarato insoddisfatto del risultato finale in quanto secondo lui si sente la mancanza degli almeno altri 30 minuti di riprese di interni. Infatti, la sua sceneggiatura prevedeva varie scene (definite “regie”) ambientate alla corte di Venceslao I, connesse con il momento storico e con i contrasti tra cristiani e pagani, e mai realizzate sia per questioni di budget sia per non oltrepassare le 3 ore di durata (la versione standard è di 2h45’). Questa la trovate in 720p su YouTube, sottotitolata in inglese ma, attenzione, i dialoghi sono abbastanza adattati al tempo e quindi non si tratta certo di un inglese moderno, con tanti vocaboli obsoleti o strettamente legati alla vita rutale medievale.

Suggerisco di approfondire su Wikipedia, nella pagina in inglese trovate la trama dettagliata. 
Viene in genere considerato il miglior film ceco di tutti i tempi e fra i migliori del genere storico a livello mondiale.


The Cremator (Juraj Herz, Cze, 1969) 
IMDb 8,0 RT 100%

Singolare per la trama e per come affronta il tema dell’arrivo del nazismo in Cecoslovacchia, conta su un’ottima tecnica cinematografica complessiva: regia, fotografia e montaggio. Tantissimi sono i primi piani e i primissimi piani, soprattutto di occhi e bocche, di umani ed animali; frequenti rapidi montaggi di scene di pochissimi fotogrammi; molto efficace il modo in cui vengono presentati gli incontri con il suo doppelgänger: grandangolo, sovraesposizione e ridotta profondità di campo …

La storia copre vari anni seguendo la carriera del “crematore”, il quale fornisce anche la voce narrante e pontifica senza sosta con una voce calma e suadente, filosofeggiando sulla vita e sulla morte, sulle miserie umane, sull’anima e la reincarnazione.

Pur sviluppandosi sostanzialmente fra il funebre e il macabro, non mancano frasi argute al limite della commedia nera (“Passiamo per il cimitero, è molto più piacevole” o “Ascoltiamo qualcosa di più allegro … la Danza macabra di Saint Saëns”).

Contenuti terribili e angoscianti sono proposti con tecnica sopraffina e sceneggiatura sagace, l’ottimo montaggio si avvale di pregevoli transizioni come quelle frequenti sui primi piani del protagonista usate anche per lo scorrere del tempo.

Nessun cinefilo dovrebbe perderselo.


Happy End (Oldrich Lipský, Cze, 1967) 
IMDb 8,0

Film fra il geniale, lo sperimentale e il folle, conosciuto e apprezzato proprio per tali motivi. Viene proposto letteralmente al rovescio, vale a dire che comincia dalla fine e torna indietro nel tempo mostrando però anche le scene al contrario, quindi persone che camminano all'indietro, e a tavola levano il cibo dalla bocca e lo mettono nel piatto.

Ma ciò che lo rende ancor più particolare sono i dialoghi assolutamente geniali. Infatti, la voce narrante che parla della vita del protagonista cronologicamente a cominciare dalla sua nascita viene intercalata ai dialoghi delle varie scene che si ascoltano invece in ordine opposto. Questi non risultano semplici da seguire in quanto si ascoltano prima le risposte e poi le domande alle quali la risposta precedente può essere adattata e si trova sempre in contrapposizione alla logica o alla situazione.

Altrettanto brillante è il posizionamento dei vari commenti della voce fuori campo in quanto sono logici nella narrazione cronologica della vita del protagonista però possono essere facilmente associati, seppur in modo molto sottile e ironico, alle situazioni mostrate. Non nego che ci voglia un discreto sforzo mentale per combinare le varie azioni osservando prima i risultati e poi le cause, ascoltando i dialoghi come detto al contrario e quindi apparentemente privi di logica o hanno logica opposta ai fatti. Si sovrappongono e si confondono vita, morte, matrimonio e altre situazioni che possono essere interpretate in modo opposto, a seconda dei punti di vista (il matrimonio è la tomba dell'amore?).

Il film si trova in ottima definizione 1080p su YouTube, ma in ceco. Tuttavia, in rete è facile trovare sottotitoli in varie lingue.
Consigliatissimo, ma penso che lo si debba guardare più di una volta per apprezzarlo appieno.


La diabolica invenzione (Karel Zeman, Cze, 1958)


Karel Zeman è conosciuto in ambito cinefilo soprattutto per la sua serie di film (6, fra il 1955 e il 1970) nei quali combinò molto bene storie fantastiche e disegni, talvolta animati. Fu uno dei registi più ammirati da Terry Gilliam dei Monty Python che oltre 10 anni dopo utilizzò simile tecnica ma, a suo dire, senza raggiungere i livelli del regista ceco. Questi film a tecnica mista sono storie fantasy o sci-fi basati su adattamenti di romanzi di Verne o combinazioni di essi, ma uno fu anche la trasposizione de Il barone di Munchausen. In vari casi ha utilizzato le illustrazioni originali dei romanzi, come quelle famose di Dorè, ma anche disegni nuovi fortemente ispirati ad essi.

Anche se ufficialmente ispirato ad uno dei 54 romanzi della serie Voyages extraordinaires (il poco noto Di fronte alla bandiera, 1896), in questo film sono amalgamati elementi di altri romanzi di Verne più famosi come per esempio Ventimila leghe sotto i mari, visto che ci sono sottomarini, palombari e incontri ravvicinati con piovre.

Brillante e piacevole lavoro anche se sostanzialmente ingenuo; notevole per essere stato un antesignano di un genere.


Daisies (Vera Chytilová, Cze, 1966)


Surreale, sconclusionato, parte in b/n e parte a colori (e in questi casi molto colorato), immagini virate in più colori che cambiano rapidamente, scene da comiche mute fino alle torte in faccia, disegni, forbici che compaio continuamente, usate anche per tagliare di tutto, carta, stoffe, cetrioli sottaceto, salsicce, uova sode, banane, …

La trama quasi non c’è, nel frenetico susseguirsi di immagini (un mixaggio più che montaggio) traspare una critica alla società. La lunga scena finale nella quale le protagoniste fanno scempio di una tavola imbandita attirò l’attenzione della censura e ciò fa supporre che la frase dedicato a quelle persone che si indignano solo per un petto di pollo calpestato”, sovrapposta a riprese reali di bombardamenti, sia stata aggiunta successivamente. Dopo questo film, la regista fu ostacolata in ogni modo pur senza essere inserita ufficialmente nella black list.

Certamente il più banale della cinquina, il più vicino allo stile dell’avanguardia dell’epoca.

sabato 25 aprile 2020

Prima dei Gipsy Kings, c’era Peret!

Pedro Pubill Calaf, meglio noto come Peret, fu il cantautore (sua la famosissima canzone Borriquito) che fece conoscere il genere della rumba catalana in Spagna e non solo. Prima di lui solo Antonio González "El Pescaílla" aveva riscosso un buon successo, ma solo entro i confini nazionali.
La rumba catalana viene definita come una derivazione della rumba flamenca con influenze afrocubane (non solo rumba, ma anche son, mambo, guaracha) e di rock & roll, nata nell’ambito delle comunità rom (gitani) della Catalogna e del sud della Francia. L’accompagnamento, oltre che sulla classica chitarra spagnola e palmas (battito di mani caratteristico del flamenco), conta su tipici strumenti caraibici come timbales, congas e atre percussioni, nonché su strumenti tipici del rock.
Nel suo genere, Peret fu superato in notorietà solo alla fine degli anni ’70, quando i Reyes e i Baliardo (figli e nipoti del cantante flamenco José Reyes e del famoso chitarrista Ricardo Baliardo, meglio noto come Manitas de Plata, tutti nati e cresciuti nel sud della Francia) costituirono il gruppo dei Gipsy Kings che portarono all’indiscusso successo internazionale la rumba catalana, con canzoni come Djobi Djoba, Bamboléo, Bem Bem Maria, …


In questo originale, movimentato e multietnico video, Peret reinterpreta in chiave moderna El muerto vivo che fu il suo primo hit che fu regolarmente riprodotto e ballato nelle discoteche. Questa famosa canzone del colombiano Guillermo González Arenas si basa su fatti realmente avvenuti e si inquadra fra le tante caraibiche nelle quali si parla di persone o di fatti singolari in modo ironico (testo in calce), classica musica allegra e coinvolgente, di aria festosa.

Propongo inoltre vari video originali, divertenti anche per rivedere (o guardare per la prima volta) lo stile delle interpretazioni, l’abbigliamento, le acconciature. Comincio con il famosissimo Borriquito (1971, musica e testo di Peret).

A seguire l'originale Una lagrima (apprezzare la mise ... ma erano gli anni '60!), lanciata nel1968, e poi una reinterpretazione della stessa canzone ad opera di Peret e El Pescaílla, già non più giovanissimi.




Infine, questa clip estratta da uno dei 10 film interpretati da Peret, la commedia El mesón del gitano (1970). Chi ha familiarità con lo spagnolo apprezzerà il modo in cui prende in giro i clienti del ristorante.



El Muerto Vivo
testo e musica di Guillermo González Arenas (1965)

A mi amigo Blanco Herrera le pagaron su salario
Y sin pensarlo dos veces salió para malgastarlo,
Una semana de juerga y perdió el conocimiento
Como no volvía a su casa todos le daban por muerto,

Y no estaba muerto no, no y no estaba muerto no, no,
Y no estaba muerto no, no, estaba tomando cañas, lerelele
Y no estaba muerto no, no y no estaba muerto no, no,
Y no estaba muerto no, no, chevere, chevere, chévere,

Pero al cabo de unos días de haber desaparecido
Encontraron uno muerto, un muerto muy parecido,
Le montaron un velorio y le rezaron la novena,
Le perdonaron sus deudas y lo enterraron con pena,

Y no estaba muerto no, no y no estaba muerto no, no,
Y no estaba muerto no, no, estaba tomando cañas, lerelele
Y no estaba muerto no, no y no estaba muerto no, no,
Y no estaba muerto no, no, chevere, chevere, chévere,

Pero un día se apareció lleno de vida y contento,
¡Diciéndole a todo el mundo eh! se equivocaron de muerto,
El lío que se formó eso sí que es puro cuento,
Su mujer ya no lo quiere, no quiere dormir con muertos,

No estaba muerto estaba de parranda
A mi papa el chocolate, le pagaron su salario
Y no estaba muerto no, no y no estaba muerto no, no,
Y no estaba muerto no, no, lerelele lerelé

venerdì 24 aprile 2020

Micro-recensioni 131-135: insolito cinema giapponese, ma di qualità

Ho concluso il mio lungo giro in Asia, con un’altra cinquina di un paese di grandi tradizioni cinematografiche e, pur scavando fra titoli meno noti, ho trovato titoli più che interessanti. In particolare l’ottimo Children of the Beehive, che segna il ritorno alla regia di Shimizu dopo la guerra e il noir-crime d’avanguardia Tokyo Drifter di Suzuki, al quale si sono ispirati in vari casi Quentin Tarantino e Takeshi Kitano. Fra gli altri ce n’è anche uno con 2 Oscar e Gran Premio a Cannes e gli altri compaiono fra i primi 10 migliori film nelle classifiche annuali di Cahiers du Cinéma.
 
Children of the Beehive (Hiroshi Shimizu, Jap, 1948)
Tokyo Drifter (Seijun Suzuki, Jap, 1956)

Dopo aver apprezzato vari film di Shimizu, sempre molto ben diretti, spesso basati su semplici storie ambientate in aree rurali, mi sono imbattuto in questo comunemente giudicato uno dei suoi migliori. Per capirne il background è importante sapere che, nonostante il regista sia stato molto prolifico (quasi 150 film in una trentina d’anni), dal 1942 al 1947 rimase praticamente inattivo dedicandosi invece all’assistenza di bambini orfani e rifugiati (protagonisti del film). In Children of the Beehive tratta proprio di un gruppo di orfani di guerra che sopravvivono come possono, coordinati da un losco individuo senza una gamba. Alla stazione entrano in contatto con un soldato che torna a casa (che non ha) e condivide con lor quel poco che ha. Per il resto del film saranno dibattuti fra il seguire il reduce che insegna loro a lavorare onestamente e il restare con lo storpio; non manca una giovane donna, anche lei sola, senza lavoro e senza soldi …
Tutti gli interpreti sono non professionisti, e si difendono più che bene, ma la regia di Shimizu è talmente espressiva che coprirebbe anche eventuali pecche degli attori. In particolare con i campi medi e lunghi trasmette alla perfezione le titubanze e i timori dei ragazzini che avanzano, retrocedono, si separano, scappano, ritornano in da soli, in piccoli gruppi o compatti. Un film da non perdere, non solo per come è realizzato ma anche per la sceneggiatura, compatta e pressoché perfetta. Il film è legato al precedente Introspection Tower (1941), quasi un sequel.

Altro film molto particolare è Tokyo Drifter, dalla trama banale (per una storia di gangster fra innumerevoli sparatorie, doppiogioco e tradimenti) ma dalla messa in scena straordinaria caratterizzata da scenografie minimaliste, luci inusuali, interni quasi assolutamente vuoti, montaggio a tratti frenetico che lascia molto all’immaginazione, salti temporali e commento musicale sui generis. In apertura ho citato Tarantino il quale, in Kill Bill: Vol. 1, riprende l’idea di Suzuki cominciando il film in bianco e nero e proseguendo poi a colori dopo i titoli, ma anche alcune scene con i yakuza che si affrontano e la musica tambureggiante, nonché l’originale fischiettio del protagonista. Chi apprezza Tarantino e Kitano non se lo dovrebbe perdere!
The Gate of Hell (Teinosuke Kinugasa, Jap, 1953) Gran Prix a Cannes
Rhapsody in August (Akira Kurosawa, Jap, 1991) 10° per Cahiers du Cinéma
Shara (Naomi Kawase, Jap, 2003) 5° Cahiers, Nomination Palma d’Oro

Uno o due Oscar? Questione di lana caprina, ma io direi due. The Gate of Hell si aggiudicò l’Oscar per i costumi, ma nella stessa occasione ottenne anche il Premio Onorario per il miglior film in lingua non inglese. Tale premio fu istituito dopo la guerra e solo nel 1956 fu convertito in Oscar, cambiando solo nei metodi di selezione. Per puro spirito storico/statistico, aggiungo che i 7 premiati negli anni precedenti furono Sciuscià e Ladri di biciclette, altri 2 giapponesi (Rashomon e Samurai, entrambi con Toshiro Mifune come protagonista), 2 francesi (Monsieur Vincent e Giochi proibiti) e l’italo francese Le mura di Malapaga … e il primo Oscar ufficiale per film stranieri fu di nuovo italiano con La Strada (Federico Fellini).
I coloratissimi costumi sono effettivamente spettacolari al di là delle loro fogge e disegni sui tessuti. La storia, ambientata nel XII secolo, è singolare in quanto mette insieme una storia di un amore impossibile con le solite rivalità fra feudatari (e gli inevitabili tradimenti) e i codici d’onore non solo dei samurai. Non è di pari livello con i migliori film di samurai e le lame vengono sfoderate in poche occasioni, ma certamente merita per sceneggiatura, scenografia e realizzazione.

Penultimo film di Kurosawa, dopo Kagemusha, Ran e Sogni e prima di Madadayo, oserei dire un passo falso. Questo suo adattamento di un romanzo di Murata è valido e interessante quasi per i primi tre quarti, poi scende di tono e intensità e il finale non convince. Inoltre, mi chiedo perché, fra i tanti attori americani che avrebbero volentieri lavorato con lui gratis, ha scelto proprio l’incapace Richard Gere (che pare lavorò senza chiedere compenso) … per fortuna la sua presenza è relativamente breve. Interessante, per chi non ne fosse a conoscenza, è la descrizione dei sentimenti dei giapponesi nei confronti degli americani, della poca conoscenza che i giovani nipponici hanno del lancio delle atomiche e relative conseguenze, di quello che molti pensano non si possa dire in merito, il forte legame con le Hawaii (stato USA) dove i residenti di origine giapponese sono molti di più degli americani. Per fortuna, Kurosawa ha concluso la sua carriera con Madadayo

Infine, Shara. Anche questo non mi ha convinto del tutto anche se rimane più che apprezzabile il lavoro di camera a spalla (quasi per tutto il film) e il solito focalizzarsi su profondi rapporti umani della regista Kawase (forse molti la conoscono per An, 2015, distribuito in Italia come Le ricette della signora Toku). Gli esterni sono poco convincenti e alcune scene sono troppo lunghe, a cominciare dalla sfilata per il festival e l’insulso parto. Evitabile.

lunedì 20 aprile 2020

Micro-recensioni 126-130: cinema thailandese e ritorno in Iran

Sono rimasto nel sudest asiatico per altri tre film del più famoso regista thailandese di questo secolo, forse di sempre, dal nome difficile perfino da leggere (Apichatpong Weerasethakul), Palma d’Oro nel 2010 e Gran Prix della Giuria nel 2006 a Cannes, e poi sono tornato in Iran per completare la triolgia di Koker del regista Abbas Kiarostami.
Sostanzialmente deludente il tanto acclamato regista thailandese, che già divise critica e pubblico dopo la Palma d’Oro vinta per Uncle Boonmee, molto migliori si sono rivelati i film iraniani girati con pochissimo, fra realismo e documentarismo, praticamente cinéma vérité.
Where is the Friend’s Home? (Abbas Kiarostami, Iran, 1987)
Life, and Nothing More (Abbas Kiarostami, Iran, 1992)

Dopo aver guardato Through the Olive Trees la settimana scorsa, scoprii che era l’ultimo elemento di una trilogia, detta di Koker che è il villaggio nel nord dell’Iran nei quali si svolgono i fatti. Lo stesso regista deve spesso ripetere che non era sua intenzione produrre tale trilogia in quanto, pur essendo tutti legati l’uno all’altro, i secondi due film sono indissolubilmente connessi con il terremoto del 1990, evento certamente non prevedibile nel 1987 quando fu girato il primo dei tre, Where is the Friend’s Home?
In breve ecco le semplici storie e i loro punti in comune. Si comincia con una specie di road movie … ma a piedi. Il piccolo Ahmed (8 anni) aiuta un suo compagno di classe a rialzarsi dopo una caduta e distrattamente mette il suo quaderno nella propria cartella. Se ne accorge solo a casa e, memore delle minacce del professore di espellere chi non avesse fatto i compiti sul quaderno, vaga fra il suo villaggio (Koker) e il vicino Toshen cercando la casa del suo amico per restituirgli il quaderno, incontrando personaggi di vario tipo e interagendo soprattutto con anziani ognuno dei quali ha una sua filosofia di vita.

Al contrario, il secondo è un vero e proprio road movie visto che narra del complicato viaggio del regista (impersonato da un attore) e suo figlio da Teheran a Koker, fra strade polverose di montagna e (veri) paesini in macerie dopo il terremoto. Fra finzione e documentario, Kiarostami descrive personaggi anonimi ma molto reali, che cercano di recuperare le loro poche cose e di sopravvivere in qualche modo. Stupisce la seraficità, la tranquillità e la rassegnazione (ma non disperazione) dei sopravvissuti al terremoto, una lezione di filosofia di vita. Il motivo del viaggio è quello di andare a cercare i bambini che erano stati gli interpreti di Where is the Friend’s Home?. Verso la metà del film c’è poi una scena che avevo già visto ripetuta pressoché identica nel successivo Through the Olive Trees, interpretata dallo stesso attore, davanti alla stessa casa. Tuttavia, nel secondo caso interpreta un attore che sta girando un film, mentre qui interpreta sé stesso, moglie e uomo seduto davanti alla casa invece cambiano.
I tre film hanno in comune dei perfetti e significativi campi lunghi con inquadrature fisse, della durata di vari minuti, che ben descrivono il “viaggio” dei protagonisti … nel primo il ragazzino che corre sul sentiero zigzagante da un paese a l’altro (vedi poster), nel secondo la Renault 5 che avanza, si ferma, torna indietro lungo i tornanti di una ripida strada sterrata, nel terzo la scena finale del pretendente che segue la ragazza e corre fra i campi al di là degli ulivi.
Mi sento di condividere assolutamente il consiglio letto in un commento relativo a Through the Olive Trees, di guardare gli altri due della trilogia per comprendere appieno la storia e i suoi personaggi.
Tropical Malady (Apichatpong Weerasethakul, Thai, 2004)
Sindromes and a Century (Apichatpong Weerasethakul, Thai, 2006)
Uncle Boonmee (Apichatpong Weerasethakul, Thai, 2010)

Come anticipato, lo stile e i contenuti di Apichatpong Weerasethakul non mi hanno per niente convinto e quindi mi associo senza dubbio ai tanti che lo hanno criticato, anche aspramente, dopo aver vinto la Palma d’Oro. I tre film che ho guardato, oltre a ottenere premi a Cannes e ad altri Festival, furono anche inseriti fra i migliori 10 dell’anno dalla prestigiosa rivista Cahiers du Cinéma.
Temi in comune e ricorrenti sono spiriti, reincarnazione, buddismo e militari. Già nel primo si nomina Uncle Boonmee che ricorda le sue vite precedenti, fino a 200 anni prima, proprio come il personaggio che dà il titolo al suo film più famoso. Tropical Malady ha una struttura a dir poco anomala in quanto unisce due storie ben distinte (una infatuazione gay e un soldato disperso nella foresta) che però hanno la stessa coppia di interpreti principali, ma non nei panni degli stessi personaggi. Il regista contesta il titolo internazionale in quanto la traduzione letterale sarebbe "Strange Animal".
Il secondo è ispirato alla vita dei genitori del regista, con molte scene ripetute ma in luoghi differenti e con alcuni personaggi diversi … ma non è certo il Buñuel di L’angelo sterminatore. Anche questo scorre lentamente, senza nulla di veramente interessante anche se i dialoghi non sono proprio malvagi.
Il terzo, Palma d’Oro nel 2010, miglio film dell’anno, quarto dell’intero decennio secondo Cahiers du Cinéma tratta non solo del tema della reincarnazione (richiamato nel titolo) ma anche degli spiriti dei parenti morti (nella fattispecie moglie e figlio del protagonista). Il regista dimostra una buona abilità nel filmare nella foresta e in ambiente naturale, ma non convince come sceneggiatore non tanto per i dialoghi ma la nel complesso.

venerdì 17 aprile 2020

Micro-recensioni 121-125: cinema vietnamita, non solo Tran Anh Hung

Dopo Iran e Turchia, sono saltato in Vietnam, al capo opposto dell’Asia, per una cinematografia ancora meno conosciuta delle precedenti. La parte del leone la fa il regista Tran Anh Hung (vietnamita, ma immigrato in Francia a 12 anni) che con The Scent of Green Papaya ottenne anche la Nomination Oscar per il miglior film straniero.
Nostalgia for the Countryside (Dang Nhat Minh, Vie/Jap, 1995)
Yellow Flowers on the Green Grass (Victor Vu, Vietnam, 2015)

Il film di Dang Nhat Minh è probabilmente il più classico (dal punto di vista cinematografico) e forse il più “vietnamita”, pur essendo una coproduzione viet-giapponese. Narra dei pochi giorni trascorsi da una donna moderna e indipendente nel suo villaggio natale nel mezzo della campagna vietnamita. Interessante e ben strutturato è quasi un film corale che coinvolge varie famiglie e protagonisti di età molto varie, da ragazzini ad anziani. Ben trattati gli esterni, come anche la descrizione degli interni delle case. La pecca, secondo me, è la “tragedia” inserita verso la fine del film, pressoché inutile ai fini della descrizione di quell’ambiente sociale rurale. Un piccolo merito lo vedo invece nell’inserimento di poche scene di uno spettacolo di tradizionali marionette acquatiche, assolutamente uniche e affascinanti, e ai Water Puppets Show ho dedicato il mio precedente post.

Tratto da un romanzo, Yellow Flowers on the Green Grass potrebbe essere visto come un film per ragazzi, ma parallelamente ai temi di amicizia, fantasie e sogni infantili, un po’ del solito bullismo, sono rappresentati troppi disastri e disavventure causate dai ragazzini stessi. Ben realizzato, con una bella fotografia che sfrutta per quanto possibile l’ambiente naturale e rurale, viene penalizzato da sceneggiatura e dialoghi di livello appena sufficiente. Questo è l'unica produzione esclusivamente vietnamita della cinquina.
The Scent of Green Papaya (Tran Anh Hung, Fra/Vie, 1993) 
Cyclo (Tran Anh Hung, Vie/Fra/HK, 1995) 
The Vertical Ray of the Sun (Tran Anh Hung, Vie/Fra/Ger, 2000)

C’è da premettere che Tran Anh Hung, dopo essersi laureato in filosofia, si avvicinò al mondo del cinema studiando fotografia presso la Louis Lumiere Academy dove in effetti si insegna direzione della fotografia per il cinema. Questo suo precedente spiega la quasi ossessione del regista per la fotografia, con tanti dettagli, primissimi piani e macro, specialmente naturalistici, che talvolta distolgono l’attenzione dalla trama principale non essendo per essa significativi. Ciò appare particolarmente evidente in The Scent of Green Papaya (suo film d’esordio, per il quale ottenne Nomination Oscar e 2 premi a Cannes, oltra a tanti altri riconoscimenti) oltretutto messo in scena esclusivamente negli studios parigini e, ad un occhio minimamente esperto, gli ambienti appaiono né autentici né genuini fin dalle prime immagini. Tutto il film si svolge in una ricca e grande casa cittadina e nella stradina che la costeggia. Tuttavia, è un ottimo esercizio di fotografia. Un’altra pecca l’ho vista nell’affidamento alla moglie del ruolo della protagonista da grande (si narra di due periodi distanti 10 anni) a Nu Yên-Khê Tran, moglie del regista, presente anche in tutti i suoi film successivi. A parte non essere, almeno all’epoca, grande attrice, pare che sia stata molto limitata dal fatto di essere anche lei emigrata giovanissima tanto da avere scarsa conoscenza della lingua vietnamita. Molti spiegano così la trasformazione della giovane Mui (attenta e loquace, interpretata dalla brava Man San Lu, nata in Francia, ma evidentemente in una famiglia nella quale si parla correntemente vietnamita) in una donna assolutamente silenziosa. Addirittura veri vietnamiti sostengono che non si muova né cammini come una vera nativa di quei luoghi. Indispongono e non poco i due rampolli della famiglia, viziati, dispettosi e “sadici” nei confronti di piccoli animali sulle cui sevizie (vere o finte che siano) il regista indugia più di una volta. Secondo me e strettamente dal punto di vista cinematografico è sopravvalutato.

Due anni dopo l’esordio, il regista Tran Anh Hung cambia completamente registro dirigendo Cyclo (Premio FIPRESCI e Leone d’Oro a Venezia) e passando a descrivere un ambiente di delinquenti cittadini e va a girare in Vietnam dove, per sua ammissione, comincia a conoscere e comprendere la realtà del paese, molto cambiato dopo 20 anni da quando lo aveva lasciato alla fine della guerra, dopo la caduta di Saigon. In questa narrazione risulta ancor più evidente la sua scelta di non voler necessariamente dare continuità e fluidità al racconto proponendo scene spesso staccate tra loro per tempo, luogo e protagonisti. Fra i protagonisti si fa notare quel Tony Leung che 5 anni dopo si sarebbe fatto conoscere per In the Mood for Love (miglior attore a Cannes). Film in sostanza poco coinvolgente, disorganico e confuso, ma anche in questo caso con una buona fotografia.

Dopo altri 5 anni ecco The Vertical Ray of the Sun, il terzo film di Tran Anh Hung. Ancora una volta risulta predominante l’attenzione alla fotografia (anche se non come nei precedenti); ci sono troppi interni e il montaggio (con tante scene repentinamente interrotte) lascia un po’ perplessi. Altre volte si perde in lunghe riprese con camera fissa come quella di 6 minuti in cui due sorelle si confidano sottovoce, nella penombra, supine sul letto.

Nel complesso, lo trovo senz’altro apprezzabile per la fotografia curata, anche per luci e colori, ma troppo spesso inserisce immagini avulse dalla trama e dai personaggi, peraltro in genere abbastanza blandi. Questa mia sensazione è probabilmente accentuata dal fatto di aver precedentemente guardato 4 film dell’ottimo regista turco Nuri Bilge Ceylan nei quali la fotografia è altrettanto ottima, ma molto più naturale (con scene anche molto scure) e i dialoghi (seri o faceti) sono contestualizzati e piazzati al momento giusto.