venerdì 28 aprile 2017

Satyajit Ray, eccezionale regista, eppure sconosciuto anche a molti “cinefili”

Ray, novello Carneade del mondo del cinema della seconda metà del secolo scorso, lodato e quasi osannato dalla quasi totalità di critici cinematografici e registi competenti e di ampie vedute, Oscar alla carriera nel 1992, nelle poche occasioni nelle quali fu invitato a importanti rassegne europee raccolse numerosi premi (6 a Berlino, 2 a Cannes, 5 a Venezia).
In questo post ho raccolto varie notizie e qualche commento di famose personalità del Cinema, di una quindicina di suoi film ho di recente brevemente scritto nella mia raccolta di micro-recensioni il 2017sarà "cinefilamente" ricco come il 2016?      
Mi preme sottolineare che l’intento è semplicemente quello di incuriosire coloro che sanno poco o niente di Satyajit Ray e spingerli a documentarsi e a guardare almeno qualcuno dei suoi film. In rete si trovano tanti approfondimenti e commenti attendibili e sapientemente esposti, certamente migliori dei miei, e anche i video completi di numerose delle sue opere migliori.
Fra i tanti, di lui hanno detto:
  • Uno dei 4 grandi del Cinema” (con Kurosawa, Bergman e Fellini) (Martin Scorsese)
  •  Indubbiamente un gigante nel modo del Cinema” (Henri Cartier Bresson)
  • Devi (The Goddess) è “poesia su celluloide"” (Elia Kazan e William Wyler)
  •  Non aver visto i film di Ray è come vivere senza vedere il sole o la luna” (Akira Kurosawa)
Stanley Kubrick fu enormemente colpito dalle sue regie e pare accertato che Scorsese sia stato uno dei principali fautori dell’Oscar a Ray e certamente si adoperò per il restauro di vari suoi lavori.  Per uno dei suoi migliori film (Taxi Driver) prese spunto da Abhijan (1962) di Ray, nel quale un guerriero rajput (invece di un reduce del Vietnam) si riduce a fare il tassista per guadagnarsi da vivere, si innamora di una prostituta e infine tenta di salvarla dalle grinfie dei suoi sfruttatori. Anche Spielberg per E.T. si ispirò a un lavoro di Ray (il racconto The Alien) anche se lo ammise dopo molto tempo e solo dopo essere stato addirittura accusato di plagio.
Si deve sottolineare che Ray non fu solo un ottimo regista, ma anche scrittore, sceneggiatore, grafico, editore, critico, illustratore e calligrafo, tutte attività nelle quali si distinse e fu molto apprezzato. Per chiarire l’essenza dell’ultima abilità citata, sappiate che creò 4 set di caratteri tipografici latini (Ray Roman, Ray Bizarre, Daphnis e Holiday Script) oltre a numerosi altri indiani.
Da sempre appassionato di Cinema, fondò un cineclub a Bombay e poi il Calcutta Film Society proponendo tante pellicole americane ed europee. Nel 1950 Ray fu incoraggiato a proseguire la sua attività dal regista francese Jean Renoir che si trovava in Bengala per girare The River (tit. it. Il fiume) e successivamente, in viaggio a Londra, ebbe modo di guardare Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica e si “convertì” al neorealismo. Mise ben presto a frutto questa "illuminazione" nella sua trilogia di ApuPather Panchali, (1955, Il lamento sul sentiero), Aparajito (1956) Leone d'Oro al  Venezia, Apur Sansar (Il mondo di Apu, 1959), rispettivamente primo, secondo e quinto dei suoi 29 lungometraggi.
  
In vari dei suoi migliori film Ray si avvalse di soggetti tratti da romanzi o altri lavori di Rabindranath Tagore (1861-1941, premio Nobel per la letteratura nel 1913, il primo assegnato a un non occidentale) il quale ebbe grande influenza anche sulle sue altre sceneggiature.
In conclusione, rinnovo il suggerimento di prendere in considerazione la visione dei suoi film. Fra quelli che ho visto, oltre alla trilogia, mi hanno particolarmente colpito The Music Room (1958), Devi (1960), Charulata (1964), Days and Nights in the Forest (1970), The Middleman (1975), The Home and the World (1984), Agantuk (1991). Tutti, secondo me, ottimi.

P.S. - chi volesse fare bella figura, impari l’incredibile corretta pronuncia del suo nome

giovedì 13 aprile 2017

Bela Lugosi (1882-1956), Christopher Lee (1922-2015) e Dracula (immortale ...)

Le leggende sui vampiri in genere risalgono alla notte dei tempi ... l’irlandese Sheridan Le Fanu (1814-1873) fu uno dei primi a scriverne, il suo compatriota Bram Stoker (1847-1912) con il suo romanzo Dracula (1897) le immortalò. Anche se ormai sono pochi quelli che (lo) leggono, da buon cinefilo ho scoperto che il personaggio compare o viene citato in oltre 600 film, secondo solo a Sherlock Holmes in questa particolarissima classifica.
   
Il primo film su Dracula potrebbe essere il sovietico Drakula del 1920 (notizie vaghe), o l’ungherese Dracula’s death (La morte di Dracula), ma quello che lanciò definitivamente il personaggio sul grande schermo fu Nosferatu: eine Symphonie des Grauens (1922, F.W. Murnau), capolavoro universalmente conosciuto semplicemente come Nosferatu. In questo film (la cui trama è molto fedele al romanzo di Stoker) non viene citato il nome Dracula in quanto gli eredi dello scrittore non ne permisero l’uso e vinsero anche la causa per l’utilizzo del soggetto con la conseguenza che venne ordinata la distruzione di tutte le copie del film, cosa che per fortuna non avvenne. Dalle varie pizze che scamparono allo “scempio” sono state ricavate le versioni restaurate che oggi possiamo ancora ammirare. Del film di Murnau fu realizzato uno splendido e molto fedele remake da Werner Herzog nel 1979, con Klaus Kinski nel ruolo del conte Dracula e non Orlok (come nel ’22), in quanto i diritti d’autore erano nel frattempo scaduti.
Il primo Dracula sonoro fu, ovviamente, hollywoodiano e fu diretto da Tod Browning il quale avrebbe voluto avere Lon Chaney come protagonista, ma questo grande trasformista, specializzato in personaggi horror, però morì nel 1930. Anche se Browning è conosciuto soprattutto per il suo famoso Freaks (1932), in passato aveva già diretto Lon Chaney in molti muti. L’improvvisa morte di quest’ultimo fece la fortuna di Bela Lugosi (1882-1956, ungherese, ma oggi sarebbe stato rumeno, quindi un “vampiro originale”) il quale, grazie a questo ruolo, divenne famoso nel mondo di Hollywood. La scelta cadde su di lui non solo in quanto già aveva partecipato a vari film in ruoli minori e aveva un passato di attore di muti in Ungheria prima degli anni ’20, ma soprattutto perché dal 1927 era stato protagonista a Broadway del Dracula di Deane e Balderston. Questo lavoro teatrale (non fedelissimo al romanzo di Bram Stoker) ebbe grande successo, tanto da restare in cartellone per ben 268 repliche prima di andare in tour per gli Stati Uniti e la sceneggiatura del film del 1931 si basava proprio sulla suddetta opera teatrale.
Subito dopo Lugosi si lasciò sfuggire un’altra grande occasione che (forse) lo avrebbe reso veramente "immortale" e per di più spianò la strada a colui che sarebbe divenuto un suo rivale. Infatti avrebbe dovuto interpretare “la creatura” in Frankenstein (1931, James Whale) ma per dissidi con la produzione abbandonò il progetto e gli subentrò Boris Karloff. Questi tuttavia rimase più legato al personaggio creato da Mary Shelley e agli horror-terror in genere ma non ai vampiri.
Chi subentrò a Lugosi come vampiro per antonomasia fu invece l’inglese Christopher Lee il quale, dopo aver interpretato vari ruoli di cattivo, nel 1957 cominciò a lavorare per la Hammer (casa di produzione specializzata in horror) guarda caso come “mostro” del Barone Frankenstein, nell’occasione interpretato da Peter Cushing. L’anno successivo fu consacrato nel ruolo in Dracula (1958, Terence Fisher) dopo aver interpretato Corridors of Blood al fianco di Boris Karloff. Sono oltre una dozzina i film nei quali Lee interpretò il più famoso conte della Transilvania.
Un altro famoso attore “horror” del secolo scorso fu Vincent Price (1911-1993), protagonista di tanti film di Roger Corman, tuttavia non ha mai impersonato Dracula.
Venendo ai film, oltre alle già citate pietre miliari del 1922 (Murnau - Shreck), 1931 (Browning - Lugosi) , 1958 (Fisher - Lee) e 1979 (Herzog - Kinski), sono senz’altro da menzionare:

  • Dracula (John Badham, 1979, con Frank Langella),
  • Dracula di Bram Stoker (Francis Ford Coppola, 1982, con Gary Oldman)
    
le parodie

  • Dance of the Vampires (Roman Polanski, 1967, aka The Fearless Vampire Killers, tit. it. Per favore non mordermi sul collo)
  • Dracula: Dead and Loving It (Mel Brooks, 1995, Dracula morto e contento) con Leslie Nielsen
e il misconosciuto

  • Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!! (Paul Morrissey, 1974, Blood for Dracula) prodotto in Italia, ma ideato da Andy Wharol, con Joe Dallesandro
Personalmente preferisco la trama originale ed in particolare quella proposta in Nosferatu (F.W. Murnau, 1922), secondo me il migliore di tutti con protagonista Dracula, forse eguagliato solo dal suo remake del 1979 di Werner Herzog.
Chiudo con una curiosità sul tema. La prima volta nella quale Christopher Lee interpretò Dracula dopo la serie per la Hammer, fu in Spagna nel 1969 (Dracula, di Jesse Franco) e in quell’occasione Renfield fu impersonato da Klaus Kinski.

domenica 9 aprile 2017

Meglio naturali, spontanee e piccole o ibridate, coltivate e grandi?

Parlo delle Orchidee, ma la domanda interpretata in senso lato potrebbe essere riferita a scelte simili in tanti altri campi.
Questo è stato più volte argomento di amichevole discussione con vari operatori del Foster Botanical Garden di Honolulu, in particolare con il curatore dell’Orchid Conservatory (una serra che ospita quasi esclusivamente orchidee) e l’organizzatrice di esposizioni floreali che, quando si tratta di orchidee, attraggono sempre un gran numero di persone.
Anche se dovrebbe essere superfluo sottolinearlo, ovviamente loro erano per la ricerca di fiori belli, grandi, appariscenti, dai colori spesso vivaci e contrastanti, mentre io sostenevo che la bellezza intrinseca delle piccole orchidee spontanee ed in particolare delle Ophrys non ha nulla da invidiare a quelle che loro curavano con tanta passione.
Tornato in patria, oggi sono andato a “caccia” (fotografica) e, oltre a qualche Serapias lingua (sotto a sx) e le immancabili Orchis italica, con non poca difficoltà ho trovato anche due diverse specie di Ophrys, piccole ma estremamente affascinanti. 
   
Faccio presente che queste foto sono macro, vale a dire che l'immagine è più grande del fiore reale. Per esempio il labello di queste Ophrys, varia mediamente fra i 10 e i 15 mm = 1,0-1,5 centimetri.
Al contrario, la maggior parte delle orchidee coltivate in serra, quasi tutte ibridi, sono molto più grandi e proprio per essere curate, protette, irrigate nei modi e tempi giusti, con la esposizione alla luce e temperature abbastanza controllate, la loro fioritura dura molto più tempo rispetto a quella delle spontanee che restano in piena forma per pochissimi giorni.
Qui in alto vedete una Ophrys sp. fotografata oggi alle falde di Monte Santa Croce e in basso varie specie di orchidee almeno 10 volte più grandi, coltivate nella serra del Conservatory del Foster.
A tutto ciò, dal punto di vista degli appassionati e fotografi come me, si deve aggiungere la contentezza per la sorpresa o soddisfazione per essere riusciti ad individuazione una piccola orchidea "mimetizzata" fra tanti altri fiori. 
   
  
    

giovedì 6 aprile 2017

I Botanical Gardens di Honolulu, lo staff ... ed io

Se passate per Honolulu (lo suggerisco e auguro a tutti), visitate almeno qualcuno dei cinque Orti Botanici, ognuno molto diverso dagli altri. 
Si va dallo storico Foster proprio al centro della città, a pochi minuti a piedi dal business district e Chinatown, all’Ho’omaluhia (il più grande, 160 ha, foto a sx) attorno ad un lago ai piedi delle ripidissime balze del Koʻolau Range, al Koko Crater all’estremità SE dell’isola, situato sul fondo di un cratere e dedicato alle specie dei climi aridi, a quello di Wahiawa (al centro dell’isola) che grazie alle sue più copiose precipitazioni si presenta quasi come una foresta tropicale, al piccolissimo Lili`uokalani, anch’esso in centro, attraversato da un ruscello. Parlo con cognizione di causa in quanto posso affermare di conoscere i primi 3 a menadito per aver passato molto del tempo nel corso del mio ultimo soggiorno mappandoli in dettaglio.
 Koko Crater Botanical Garden (l'intero fondo del cratere)
 il ponte sulla vallone del Wahiawa Botanical Garden
Si paga solo al Foster (5 dollari), per gli altri l’ingresso è gratuito così come le cartine (ora anche online) e qualunque di essi visitiate troverete uno staff estremamente disponibile anche se solo al Foster sono previsti regolari tour guidati (giornalieri e gratuiti). 
Dopo questa molto sommaria descrizione, mi sento in dovere di aggiungere un commento in merito ai dirigenti, dipendenti e volontari che popolano e fanno vivere i Botanical Gardens. Ancor più che in altri ambienti della città e dell’isola si nota la serenità con il quale ognuno svolge i propri compiti, probabilmente aiutati anche dalla tranquillità fornita della vegetazione che li circonda e che la fa da padrona. Risalta il grande spirito di collaborazione fra i “regolari” e fra questi e i volontari (numerosissimi in genere negli Stati Uniti e qui in particolare) che con molta professionalità si occupano di tanti aspetti che vanno dalla piccola manutenzione, alle visite guidate, alle lezioni divulgative per scolaresche, alle decorazioni e a tanto altro come per esempio (nel mio caso) la mappatura dei giardini.
Molte volte piccoli gruppi mangiano insieme nell’ora di spacco e almeno ogni due settimane si organizzano party o potluck. Ovviamente ne hanno organizzato uno negli ultimi giorni del mio soggiorno, non solo per il mio commiato, ma anche per festeggiare la realizzazione delle 3 nuove cartine e per invitarmi ufficialmente a tornare per mappare anche Wahiawa (cosa che spero di fare fra 2 o 3 anni).
Molti dei membri dello staff (direttore, botanici, amministrativi, giardinieri e volontari) hanno partecipato alla festa d’addio onorandomi di un bellissimo Haku Lei (la ghirlanda intrecciata che si indossa come corona, il tipo più composito a tre fili intrecciati) composto da Iris, una vera specialista. 
Fra le tante le foto di rito alle quali mi sono prestato in quanto specificamente richieste (non le amo per niente) ne ho scelte due, la prima è quella con Naomi (la botanica che, oltre ad assistermi talvolta nei rilievi, mi indicava le specie da riportare in mappa) ed l'altra di una parte dei convenuti schierati ai piedi di un "esile alberello", l’Adansonia digitata (comunemente noto come baobab) di una dozzina di metri di circonferenza, uno dei simboli del Foster.
... the wonderful new maps that she and our amazing volunteer Giovanni Visetti created. ... Good work, Naomi and Giovanni! (dal comunicato ufficiale degli Honolulu Botanical Gardens)
Grazie a tutti!   *  Thanks to everybody!