venerdì 24 aprile 2020

Micro-recensioni 131-135: insolito cinema giapponese, ma di qualità

Ho concluso il mio lungo giro in Asia, con un’altra cinquina di un paese di grandi tradizioni cinematografiche e, pur scavando fra titoli meno noti, ho trovato titoli più che interessanti. In particolare l’ottimo Children of the Beehive, che segna il ritorno alla regia di Shimizu dopo la guerra e il noir-crime d’avanguardia Tokyo Drifter di Suzuki, al quale si sono ispirati in vari casi Quentin Tarantino e Takeshi Kitano. Fra gli altri ce n’è anche uno con 2 Oscar e Gran Premio a Cannes e gli altri compaiono fra i primi 10 migliori film nelle classifiche annuali di Cahiers du Cinéma.
 
Children of the Beehive (Hiroshi Shimizu, Jap, 1948)
Tokyo Drifter (Seijun Suzuki, Jap, 1956)

Dopo aver apprezzato vari film di Shimizu, sempre molto ben diretti, spesso basati su semplici storie ambientate in aree rurali, mi sono imbattuto in questo comunemente giudicato uno dei suoi migliori. Per capirne il background è importante sapere che, nonostante il regista sia stato molto prolifico (quasi 150 film in una trentina d’anni), dal 1942 al 1947 rimase praticamente inattivo dedicandosi invece all’assistenza di bambini orfani e rifugiati (protagonisti del film). In Children of the Beehive tratta proprio di un gruppo di orfani di guerra che sopravvivono come possono, coordinati da un losco individuo senza una gamba. Alla stazione entrano in contatto con un soldato che torna a casa (che non ha) e condivide con lor quel poco che ha. Per il resto del film saranno dibattuti fra il seguire il reduce che insegna loro a lavorare onestamente e il restare con lo storpio; non manca una giovane donna, anche lei sola, senza lavoro e senza soldi …
Tutti gli interpreti sono non professionisti, e si difendono più che bene, ma la regia di Shimizu è talmente espressiva che coprirebbe anche eventuali pecche degli attori. In particolare con i campi medi e lunghi trasmette alla perfezione le titubanze e i timori dei ragazzini che avanzano, retrocedono, si separano, scappano, ritornano in da soli, in piccoli gruppi o compatti. Un film da non perdere, non solo per come è realizzato ma anche per la sceneggiatura, compatta e pressoché perfetta. Il film è legato al precedente Introspection Tower (1941), quasi un sequel.

Altro film molto particolare è Tokyo Drifter, dalla trama banale (per una storia di gangster fra innumerevoli sparatorie, doppiogioco e tradimenti) ma dalla messa in scena straordinaria caratterizzata da scenografie minimaliste, luci inusuali, interni quasi assolutamente vuoti, montaggio a tratti frenetico che lascia molto all’immaginazione, salti temporali e commento musicale sui generis. In apertura ho citato Tarantino il quale, in Kill Bill: Vol. 1, riprende l’idea di Suzuki cominciando il film in bianco e nero e proseguendo poi a colori dopo i titoli, ma anche alcune scene con i yakuza che si affrontano e la musica tambureggiante, nonché l’originale fischiettio del protagonista. Chi apprezza Tarantino e Kitano non se lo dovrebbe perdere!
The Gate of Hell (Teinosuke Kinugasa, Jap, 1953) Gran Prix a Cannes
Rhapsody in August (Akira Kurosawa, Jap, 1991) 10° per Cahiers du Cinéma
Shara (Naomi Kawase, Jap, 2003) 5° Cahiers, Nomination Palma d’Oro

Uno o due Oscar? Questione di lana caprina, ma io direi due. The Gate of Hell si aggiudicò l’Oscar per i costumi, ma nella stessa occasione ottenne anche il Premio Onorario per il miglior film in lingua non inglese. Tale premio fu istituito dopo la guerra e solo nel 1956 fu convertito in Oscar, cambiando solo nei metodi di selezione. Per puro spirito storico/statistico, aggiungo che i 7 premiati negli anni precedenti furono Sciuscià e Ladri di biciclette, altri 2 giapponesi (Rashomon e Samurai, entrambi con Toshiro Mifune come protagonista), 2 francesi (Monsieur Vincent e Giochi proibiti) e l’italo francese Le mura di Malapaga … e il primo Oscar ufficiale per film stranieri fu di nuovo italiano con La Strada (Federico Fellini).
I coloratissimi costumi sono effettivamente spettacolari al di là delle loro fogge e disegni sui tessuti. La storia, ambientata nel XII secolo, è singolare in quanto mette insieme una storia di un amore impossibile con le solite rivalità fra feudatari (e gli inevitabili tradimenti) e i codici d’onore non solo dei samurai. Non è di pari livello con i migliori film di samurai e le lame vengono sfoderate in poche occasioni, ma certamente merita per sceneggiatura, scenografia e realizzazione.

Penultimo film di Kurosawa, dopo Kagemusha, Ran e Sogni e prima di Madadayo, oserei dire un passo falso. Questo suo adattamento di un romanzo di Murata è valido e interessante quasi per i primi tre quarti, poi scende di tono e intensità e il finale non convince. Inoltre, mi chiedo perché, fra i tanti attori americani che avrebbero volentieri lavorato con lui gratis, ha scelto proprio l’incapace Richard Gere (che pare lavorò senza chiedere compenso) … per fortuna la sua presenza è relativamente breve. Interessante, per chi non ne fosse a conoscenza, è la descrizione dei sentimenti dei giapponesi nei confronti degli americani, della poca conoscenza che i giovani nipponici hanno del lancio delle atomiche e relative conseguenze, di quello che molti pensano non si possa dire in merito, il forte legame con le Hawaii (stato USA) dove i residenti di origine giapponese sono molti di più degli americani. Per fortuna, Kurosawa ha concluso la sua carriera con Madadayo

Infine, Shara. Anche questo non mi ha convinto del tutto anche se rimane più che apprezzabile il lavoro di camera a spalla (quasi per tutto il film) e il solito focalizzarsi su profondi rapporti umani della regista Kawase (forse molti la conoscono per An, 2015, distribuito in Italia come Le ricette della signora Toku). Gli esterni sono poco convincenti e alcune scene sono troppo lunghe, a cominciare dalla sfilata per il festival e l’insulso parto. Evitabile.

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