mercoledì 1 aprile 2020

Micro-recensioni 91-100 del 2020: l'avanguardia francese degli anni '20, fra surrealismo e innovazione

Decina quasi monotematica, con i film muti di due soli registi dell’avant-garde francese degli anni ’20, Germaine Dulac e Jean Epstein, veri innovatori soprattutto nel campo del montaggio e delle riprese, con tanti primissimi piani dei protagonisti e un ottimo uso delle doppie esposizioni che rivelano i loro pensieri, sogni e ricordi. Queste furono peculiarità dell’impressionismo (cinematografico) francese che centra gran parte dell’attenzione sui protagonisti ottenendo una narrazione chiarissima, che non avrebbe neanche bisogno dei sottotitoli (comunque molto pochi).
La souriante Madame Beudet (1923, 43’)
La coquille et le clergyman (1928, 41’)
Comincio con questi due film (restaurati e ricostruiti, con alcuni minuti in più delle versioni che circolavano in precedenza) di Germaine Dulac, seconda regista nella storia del cinema francese, critica teatrale e cinematografica, impegnata nel movimento delle suffragette, teorica del cinema. Il primo è un classico esempio dell’impressionismo francese e oltretutto uno dei primi film etichettati come femmisti, mentre il secondo è certamente surrealista (da molti considerato il primo di tale genere) e precede di oltre un anno la pietra miliare del cinema Un chien andalou, opera di Buñuel e Dalì. Certamente non è paragonabile a questo né al loro successivo L’age d’or (1930), ma gli si deve oggettivamente riconoscere l’originalità della messa in scena, le varie interessanti scenografie che richiamano l’espressionismo tedesco, l’associazione di sensualità e libidine con il prete in abito talare, gli artifici con la pellicola (antesignani degli effetti speciali).
Ho poi proseguito con una serie di medio- e lungometraggi di Jean Epstein, teorico e regista emblematico dell’avant-garde francese, rinviando a data da destinarsi i suoi vari short e documentari (altrettanto ben quotati) disponibili in rete. Questi sono i titoli (anno, durata) degli 8 film guardati, che trattano ambienti ed epoche molto diversi ma in sostanza c’è sempre una parte melodrammatica predominante.
L'auberge rouge (1923, 72’) (poster nella fila sotto) 
Dramma ambientato a cavallo dell’800, con due episodi nettamente distinti, con un protagonista comune. Nel corso di una cena in una ricca residenza, uno dei commensali narra (così come gli fu riportato) un fatto di sangue avvenuto 20 anni prima in una locanda di campagna nel corso di un nubifragio. Le scene si alternano e la tensione viene ben mantenuta nel corso dell’intero film.
Coeur fidèle (1923, 87’)
Ambientato nei bassifondi, quasi realistico, ben proposto e interpretato. Storia d’amore interrotta dalla prepotenza di un piccolo criminale malvagio, violento e alcolizzato. Uno dei migliori di questo gruppo.
La belle Nivernaise (1924, 69’)
Vita su una peniche lungo i canali del nord della Francia; il titolo è il nome della chiatta e ciò non può non far pensare al famoso L’Atalante (1934) di Jean Vigo. Pur essendo questo solo il suo terzo film, Epstein si autocita mostrando un poster del suo primo lungometraggio L’auberge rouge (1923) sulla parete del cinema dove vanno i due giovani protagonisti.
Le lion des mogols (1925, 102’)
Anche in questo quasi kolossal (scene di massa e ricchi costumi per rappresentare una reggia del tiranno di un paese esotico non meglio identificato) c’è un riferimento cinematografico e ben più importante. Due ambientazioni ben distinte con l’altra sui set e teatri francesi. Il protagonista è interpretato da Ivan Mosjoukine (qui anche cosceneggiatore), famosissimo in patria fino al momento della rivoluzione; condannato a morte, riuscì a sfuggire all’Armata Rossa e ebbe un discreto successo anche in Europa, ma solo fino alla rivoluzione del sonoro.
Le double amour (1925, 103’)
Interessante melodramma psicologico condizionato dal gioco d’azzardo compulsivo con corsi e ricorsi a distanza di 20 anni.
Six et demi, onze (1927, 84’)
Sarebbe apparso molto migliore se si fosse evitato il pesantissimo, eccessivo e ingiustificato trucco dei fratelli (medici) protagonisti … solo per loro. Faccia bianca, contorno degli occhi e palpebre scurissime, labbra molto marcate, praticamente clown bianchi in questo ennesimo melodramma nel quale tutti gli altri appaiono “normali”.
La glace à trois faces (1927, 45’)
Mediometraggio quasi a episodi (punti di vista, ricordi e speranze di tre donne rispetto ad uno stesso (fatuo) ricco giovane. Ciò che dà valore al film, che per questo è apprezzato, è la tecnica; sceneggiatura debole, riduzione (forse eccessiva vista la durata del film) un romanzo di Paul Morand.
La chute de la maison Usher (1928, 63’)
Probabilmente il più famoso dei film di Epstein, basato sul famoso omonimo racconto di Edgar Allan Poe, adattato da Luis Buñuel che fu anche suo assistente regista come lo era già stato per Mauprat (1925). In questo terror classico si può facilmente ipotizzare la mano di Buñuel per alcuni dettagli non strettamente pertinenti alla trama. La seconda parte del film è un vero esercizio di montaggio e riprese. Parafrasando il titolo di un commento (che condivido): guardatelo sotto ogni aspetto tranne che per la trama e lo troverete ottimo.


In conclusione, questa incursione fra i 13 muti di Epstein evidenzia la sua continua ricerca tecnica ed espressiva, nei vari generi affrontati seppur tutti hanno in comune una parte melodrammatica. Grande importanza ai primissimi piani dei volti, ai dettagli e alla recitazione con le mani. Come punti deboli, vedo l’indugiare troppo a lungo su singole scene (anche quando è perfettamente chiaro il significato) e la scelta (ma solo nei primi film) di far muovere estremamente lentamente i protagonisti, quasi come automi, assolutamente in modo irreale e poco plausibile, inutilmente teatrale. 

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