giovedì 13 ottobre 2022

Microrecensioni 291-295: cinquina varia di gran pregio

Questa cinquina di qualità è composta da un iconico film di Ingmar Bergman (uno dei suoi migliori non solo per la messa in scena, ma anche per i contenuti) 2 ottimi film del 1962 rispettivamente di Orson Welles e Roger Corman (purtroppo trascurati dal pubblico nonostante le loro gran qualità) e 2 di Éric Rohmer del ciclo I racconti delle quattro stagioni. I tre di 60 anni fa sono senza dubbio i migliori e fra i loro grandi pregi spiccano la fotografia b/n e le inquadrature che forniscono grande espressività visiva nell’evidenziare i problemi sociali e filosofici che affrontano. Gli altri due, a colori e degli anni ’90, sono molto più parlati e si focalizzano sui problemi di comunicazione e di relazione soprattutto fra le nuove generazioni … i dialoghi sono il loro fulcro. Volendo presentare i 5 film in ordine di gradimento, come spesso faccio, mi sono trovato un po’ in imbarazzo, essendo i primi 3 eccellenti sia per la tecnica che per stimolo all’analisi alcuni concetti universali, quindi difficili da paragonare. Alla fine ecco la mia scelta …

The Trial (Orson Welles, Fra/Ita/Ger, 1962)

Un film indubbiamente poco convenzionale, fra il surreale e l’astratto, adattato da uno dei più famosi romanzi di Franz Kafka, (1914-15, ma pubblicato postumo nel 1925), messo in scena in modo geniale da Orson Welles. Tema adatto, quasi perfetto, per l’utilizzo delle sue classiche riprese dal basso, delle lunghissime ombre e di un uso abbondante ma per niente eccessivo del grandangolo. Sorprendenti e affascinanti le ambientazioni e le scenografie, fra locali immensi, edifici decrepiti, depositi con faldoni accatastati senza alcun ordine. Tanti i personaggi in cui si imbatte il protagonista K. (Anthony Perkins), molti dei quali di professione incerta, così come lo sono le accuse (mai avanzate) e le regole e tempi dei procedimenti legali. La situazione nella quale si trova K. e i dialoghi con poliziotti, giudici o presunti tali, avvocati e detenuti (in semilibertà) in attesa di giudizio forniscono la perfetta idea del termine kafkiano! Alcune riprese della seconda parte ricordano molto (replicandole in modo quasi identico) alcune fra sue più famose di The Third Man (1942). Per i tanti personaggi, spesso grotteschi, creati dalla fervida mente di Kafka, Orson Welles assemblò un cast internazionale di alto livello, affiancando a Perkins uno stuolo di ottimi attori europei (produzione Ita/Fra/Ger), molti di provenienza teatrale. Ne cito una parte: Jeanne Moreau, Romy Schneider, Elsa Martinelli, Arnoldo Foà, Paola Mori, Akim Tamiroff, Michael Lonsdale. Orson Welles compare nelle vesti dell’avvocato Hastler e legge i titoli di coda. Film che si potrebbe definire angosciante o avvilente per il tema dell’impari lotta fra il cittadino e le istituzioni, in particolare quando si trova a dover affrontare, quasi impotente, i contorti macchinari della giustizia. Esemplificativo è l’aneddoto narrato all’inizio del film e brevemente ripreso nel finale. Chi è disposto ad affrontare 2 ore di dialoghi perlopiù costituiti da argute elucubrazioni, surreali sillogismi, paradossi dialettici e incoerenze, accompagnati da una eccezionale cinematografia (luci, angoli di ripresa, inquadrature, …), non dovrebbe perdersi per alcuna ragione un’attenta visione di The Trial!

 
The Intruder (Roger Corman, USA, 1962)

Uno dei pochi film drammatici del vate dei B-movies a basso budget, soprattutto noto per gli horror fra ii quali si conta l’ormai cult La piccola bottega degli orrori (1960) girato in soli 2 giorni. Corman affermava che questo L’odio esplode a Dallas (ridicolo titolo italiano, oltretutto non è ambientato a Dallas) fu l’unico a non recuperare le spese di produzione. Solo dopo vari decenni fu rivalutato grazie ai Festival che propongono anche retrospettive e pellicole restaurate (Tokio ’94, Locarno ‘99 ed Edimburgo 2009) e, nonostante ciò, nelle sale francesi è addirittura arrivato solo nell’agosto 2018! Subito dopo la premiere a New York, fu presentato al Festival di Venezia (settembre 1962), ma solo nel 1965 ebbe una (limitata) distribuzione nelle sale italiane. Incentrato sul serio tema del più becero razzismo, ha anche il pregio di contare su un’ottima fotografia e un incisivo commento sonoro, spesso quasi ossessivo. Il sobillatore professionista Adam Cramer (interpretato da William Shatner agli inizi della carriera, prima di diventare famoso come il Cap. Kirk nella saga di Star Trek) con il suo atteggiamento fra il seduttore, il venditore ed il predicatore, riesce in breve tirar fuori il peggio dalla maggior parte degli abitanti della fittizia piccola cittadina di Caxton, nel profondo sud. Dopo il continuo ed efficace crescendo di tensione si giunge ad un finale non del tutto scontato ma in effetti poco contundente. A chi rimproverava a Corman l’idea di essersi imbarcato in questa produzione economicamente (e prevedibilmente) fallimentare, il regista rispondeva che fu uno dei film dei quali andava più fiero. Fortemente suggerita la visione.

The Seventh Seal (Ingmar Bergman, Swe, 1957)

Il protagonista (interpretato da Max von Sydow in una delle sue migliori interpretazioni) è un cavaliere di ritorno da una crociata, insieme con il suo nichilista scudiero. Ad aspettarlo trova la Morte alla quale però non si consegna passivamente, ma la sfida in una partita a scacchi per rinviare il momento del trapasso. Così riesce a proseguire il viaggio verso casa durante il quale ci saranno occasioni per affrontare argomenti filosofici e religiosi a partire da eventi mondani e incontri fortuiti. A questo film viene spesso paragonato il messicano Macario (di Roberto Gavaldón, 1960, Nomination Oscar, 8,3 su IMDb e 100% su RT) nel quale il poverissimo e affamato protagonista similmente si confronta in successione con il Diavolo, Dio e la Morte. La sceneggiatura è un adattamento di Pittura su legno (1954), atto unico teatrale scritto dallo stesso Bergman. Premio della Giuria e Nomination Palma d’Oro a Cannes, 2° miglior film del 1957 per Cahiers du Cinéma, attualmente al 198° posto fra i migliori film di sempre per IMDb.

 
  • Conte de printemps (Éric Rohmer, Fra, 1990)
  • Conte d'été (Éric Rohmer, Fra, 1996)

Li metto insieme essendo il primo e terzo nei Contes des quatre saisons, terzo e ultimo dei suoi cicli, dopo Racconti morali e Commedie e proverbi. Fra i due girò quello dell’inverno (1992) per poi concludere nel 1998 con l’autunno (appena inserito nel prossimo gruppo). Come anticipato, entrambi sono incentrati perlopiù sui rapporti fra i giovani e sulle aspirazioni amorose, in qualche coppia si evidenzia una certa differenza di età, ma in ogni caso è l’indecisione che regna sovrana. Sia i protagonisti che i personaggi di contorno sono tutti ben descritti, così come l’ambiente nel quale vivono, di solito quello della media borghesia che si muove fra Parigi e la provincia. Fedele al suo stile, Rohmer (sceneggiatore unico dei 4 racconti) non conclude molto, si limita a descrivere osservando dall’esterno, ma facendo analizzare le diverse interpretazioni dell’amore ideale e dei giusti rapporti interpersonali dagli stessi protagonisti, attraverso lunghi dialoghi. Questo è uno dei motivi per i quali il suo lavoro non piace ad un certo tipo di spettatori, quelli che dei suoi film dicono “non succede niente …”.

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