martedì 17 marzo 2020

Micro-recensioni 61-70 del 2020: "The Big Red One" di Fuller è migliore di "1917"

Strana decina questa … molti buoni film, ma nessuna eccellenza e solo uno a mio parere scadente (Cotton Club) ma ormai è noto a tutti che Coppola ha i suoi alti e bassi.

   

Ci sono 3 americani degli anni ’80 e di genere molto diverso fra loro, ma tutti diretti da registi che hanno fatto storia, due quali emblemi del Nuovo Cinema Americano (Coppola e Spielberg, ancora sulla breccia) e da un anarchico (per il cinema) quale Samuel Fuller.
The Big Red One (Samuel Fuller, USA, 1980-2004)
The Cotton Club (Francis Ford Coppola, USA, 1984)
Empire of the Sun (Steven Spielberg, USA, 1987)
In quanto al primo c’è da precisare che l’edizione del 1980 giunse in sala drasticamente tagliata dalla produzione (1h53’) ma nel 2004 le riprese furono riassemblate in 2h42’, in base al progetto originale di Fuller (morto nel 1997). Inizialmente il regista aveva presentato un film di circa 4 ore, poi ridotte alla metà, ma la produzione lo estromise completamente e fecero di testa loro. The Big Red One reconstruction fu curato da Richard Schickel, assistito dal montatore Bryan McKenzie e da Peter Bogdanovich. Da questa opera di restauro e ricostruzione è stato prodotto anche un documentario di 5h16’. Non da ultimo, si deve sottolineare che Fuller partecipò attivamente alle campagne europee della WWII tanto da essere anche pluridecorato, mentre Lee Marvin (protagonista) partecipò come marine alle azioni nel Pacifico; varie esperienze reali sono state riprodotte in questo eccellente B-movie bellico. Come sottolineò un critico, le grandi produzioni si basano sulla guerra e le grandi manovre, i B-movie sui combattenti, ma non per questo sono di qualità inferiore. Nel complesso, lo giudico migliore e certamente più credibile dell’acclamatissimo 1917, pur essendo costato solo 4,5 milioni (equivalenti a 14 attuali) contro i 100 milioni del film di Sam Mendes.
Gli altri due sono ben noti e quindi scrivo solo poche parole. Il primo è limitato non solo da sceneggiatura scadente ma anche da un cast mal assortito, guidato dall’incapace Richard Gere; l’altro mi è sembrato un po’ troppo fuori dalla realtà, a tratti quasi onirico/allegorico ma si può riconoscere il merito a Spielberg di aver scoperto e lanciato Christian Bale, all’epoca 13enne.

 
Gli altri due di Hollywood sono western degli anni ’50 con registi e attori di grido:
Vera Cruz (Robert Aldrich, USA, 1954) 
Warlock (Edward Dmytryk, USA, 1959)
Entrambi sono singolari anche se il secondo ricalca la trama classica del pistolero-sceriffo con spalla. La sua singolarità consiste nell’essere un adattamento del romanzo di Oakley Hall che fece storia nel 1958 per essere fra i finalisti del Premio Pulitzer pur essendo del solitamente disprezzato genere “western”. Henry Fonda è il pistolero, Anthony Quinn la sua spalla, Richard Widmark il terzo incomodo. Ovviamente ottimamente interpretato, ben orchestrato e con una trama dai vari risvolti non proprio scontati.
Anche l’altro conta su due ottimi attori quali Gary Cooper e Burt Lancaster, soci ma anche in costante antagonismo, diretti dall’affidabile Aldrich, ma la storia ambientata in Messico fra rivoluzionari, austriaci di Massimiliano d’Asburgo Imperatore del Messico in fuga e avventurieri americani è ben poca cosa, di una banalità a volte sconcertante.
 
L’altra metà è composta da 2 giapponesi, 2 svedesi aventi in comune Hasse Ekman e un film d’animazione sulle conseguenze di un ipotetico attacco nucleare.
Children in the Wind (Hiroshi Shimizu, Jap, 1937)
Cash Calls Hell (Hideo Gosha, Jap, 1966)
Sete - Thirst (Ingmar Bergman, Swe, 1949)
Girl with Hyacinths (Hasse Ekman, Swe, 1950)
When the Wind Blows (Jimmy T. Murakami, UK, 1986)
Quello di Shimizu propone l’ennesimo spaccato della società giapponese degli anni ’30, girato con garbo e mano sicura pur senza contare su avvenimenti notevoli. L’altro giapponese è un buon noir, ben girato, ma con la pecca di avere varie lacune e banalità intercalate in una storia al contrario originale e con vari twist.
   
Interessanti e rigorosi i due svedesi, che sono in un certo senso collegati fra loro in quanto uno dei protagonisti del film di Bergman (allora ancora poco conosciuto) è il regista dell’altro.
L’ultimo è un film d’animazione inglese che si va ad aggiungere alla serie di produzioni che negli anni ’80 trattarono del rischio di guerra nucleare e delle ipotetiche conseguenze. Giustamente drammatico, certamente non per giovincelli, risulta un po’ limitato negli spazi e ripetitivo nei discorsi e azioni della coppia di anziani (un po’ svagati) che vivono in una casa isolata di campagna.

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