venerdì 5 giugno 2020

Micro-recensioni 196-200: tre commedie grottesche slave e …

Due film americani (che inseguivo da tempo) con tanti nomi altisonanti, ma non all’altezza delle potenzialità, e tre semisconosciute dark comedy slave.
Who's Singin' Over There? (Slobodan Sijan, Yug, 1980)
Road movie che narra di un viaggio su uno sgangherato bus di linea, lungo le strade sterrate della campagna iugoslava, nelle ore in cui le truppe tedesche occupavano Belgrado (6 aprile 1941). Loro malgrado, dovranno convivere una coppia di novelli sposi in fuga, un cacciatore, un filonazista, un sacerdote, un cantante, un anziano militare, due suonatori girovaghi “zingari”, padre e figlio che si alternano fra guida e assistenza passeggeri (preparando anche una grigliata) e tre maialini vivi. Succederà più o meno di tutto e le scene grottesche si alternano a dialoghi taglienti … il politically correct, per fortuna, non era stato ancora inventato. Personaggi ben descritti e interpretati e cast scelto alla perfezione ne fanno quasi un antesignano delle commedie di Kusturica, ma con protagonisti meno esagerati.

Cabaret Balkan (Goran Paskaljevic, Yug, 1998)
Anche in questo caso la linea temporale è molto limitata ed è “quasi” un road movie che si svolge in una lunga notte con tanti personaggi che vengono introdotti in scene diverse (per lo più violente o potenzialmente violente) e che poi, nel loro girovagare, si ritrovano in altre situazioni in altri luoghi. Goran Paskaljevic, che gode fama di essere fra i migliori registi serbi, riesce a dare continuità e suspense a scene al limite del surreale, con persone apparentemente “normali” che si devono confrontare con personaggi per lo più fuori di testa (almeno uno per ciascuna situazione). Si susseguono vorticosamente litigi, un tentato linciaggio, aggressioni sessuali, irragionevoli scontri che vanno da quelli semplicemente fisici, all’uso di bottiglie rotte, coltelli, armi da fuoco e perfino una bomba a mano. In vari punti mi ha ricordato molto Storie pazzesche (di Damián Szifron, 2014, Nomination Oscar). Penso di aver dato l’idea, riuscendo allo stesso tempo ad evitare spoiler.
Optimisti (Goran Paskaljevic, Ser, 2006)
Quest’altro film di Goran Paskaljevic è dichiaratamente diviso in 5 storie che non hanno niente a che vedere fra loro se non il vago concetto di ottimismo a tutti i costi; quello definito da Voltaire nel suo Candido, “… sostenere che tutto va bene quando tutto va male." Molto meno convincente rispetto a Cabaret Balkan, in questo caso protagonisti e situazioni tendono più alla stupidità che alla follia, tuttavia non mancano le scene violente che sembrano confermare lo stereotipo della perenne litigiosità delle etnie slave … innata o storica? Appena sufficiente nel complesso, solo in alcuni episodi ci sono situazioni notevoli, per il resto procede lentamente con pochi spunti arguti.

Rancho Notorius (Fritz Lang, USA, 1952)
Strano western diretto da Fritz Lang, con Marlene Dietrich (ad Hollywood nel 1930 sull’onda del successo in L’angelo azzurro, e Oscar l’anno seguente per Morocco, entrambi diretti da Josef von Sternberg) e Arthur Kennedy, che quell’anno ottenne la seconda delle sue 5 Nomination. Il soffre non solo di una debole sceneggiatura ma anche e soprattutto di scenografie di quart’ordine … completamente girato negli studios di Hollywood, con pessimi fondali. I classici campi lunghi, gli ampi panorami e le cavalcate sono del tutto assenti. Lo stimato regista fa quello che può ma non riesce a salvare Rancho Notorius.

The Fugitive (John Ford, USA, 1947)
Sorprendentemente, The Fugitive ha risultati ancora peggiori del suddetto film di Lang, nonostante la combinazione di tanti ottimi artisti (nei vari campi) che non ha prodotto che un film mediocre. La sceneggiatura è adattamento di uno di più celebrati romanzi di Graham Greene (The Power and the Glory), messa in scena da 2 registi di indiscussa fama (John Ford e Emilio “Indio” Fernández, il secondo uncredited), conta su tre star internazionali come protagonisti quali Henry Fonda, Dolores del Rio e Pedro Armendáriz e, come se non bastasse, la fotografia è affidata all’ottimo Gabriel Figueroa, un maestro del bianco e nero. In effetti l’unico all’altezza dei suoi trascorsi è quest’ultimo, anche se l’unico riconoscimento al film fu il Premio Internazionale attribuito a John Ford a Venezia. La croce di fuoco (questo il pessimo titolo italiano) è lento, basato su stereotipi, su poche scene prolungate, discontinuo e spesso illogico in quanto a tempi e luoghi, con il carattere del prete in fuga (Henry Fonda) proditoriamente stravolto rispetto al personaggio creato da Greene

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