lunedì 18 febbraio 2019

13° gruppo di 5 micro-recensioni 2019 (61-65)

Senza dubbio il migliore in questo gruppo è il giapponese After the Rain, seguito (più per l’originalità che per qualità assoluta) dal sudafricano Tsotsi, vincitore dell’Oscar 2006 fra i film non in lingua inglese, e poi dagli ultimi 3 film della mia serie di Allen, due dei quali apprezzati un po’ più dei precedenti. 
   


64  After the Rain (Takashi Koizumi, Jap, 1999) tit. it. “Quando cessa la pioggia”, tit. or. “Ame Agaru” * con Akira Terao, Yoshiko Miyazaki, Shirô Mifune * IMDb  7,5  RT 100% * Premio a Venezia, proposto dal Giappone per l’Oscar miglior film in lingua non inglese
Film poco conosciuto, “quasi” di Kurosawa. Proprio così, il grande regista giapponese è l’autore della sceneggiatura (basata su un racconto di Shûgorô Yamamoto) ed aveva anche già pressoché completato il piano delle riprese quando morì. Ci volle un po’ di tempo prima di trovare nuovi produttori che sostituissero quelli che si erano tirati indietro essendo venuto a mancare Kurosawa, e infine fu deciso di affidare la regia Takashi Koizumi che era sì al suo esordio, ma vantava una collaborazione quasi trentennale con il maestro e quindi avrebbe potuto interpretare al meglio quelle che erano le sue idee. Koizumi è stato aiuto regista degli ultimi 5 film di Kurosawa: Kagemusha (1980), Ran (1985), Sogni (1990), Rapsodia in agosto (1991) e Maadadayo (1993). Ulteriore elemento di continuità è rappresentato dalla presenza nel cast di Shirô Mifune (figlio del ben più famoso Toshirô) in un ruolo principale quale quello del signorotto locale Shigeaki.
Venendo al film vero e proprio, mi è sembrato un gioiellino, con un ronin generoso, sereno e “pacifista”, che interpreta il vero spirito delle arti marziali: combattere solo in caso di estrema necessità e soprattutto per aiutare i più deboli e per sanare ingiustizie. In questo è moralmente sostenuto dalla moglie che lo accompagna nel viaggio che, loro malgrado, devono sospendere a causa delle forti piogge che hanno reso impossibile il guado di un fiume. Molto belle le scene esterne, ma la descrizione del molto variegato gruppo di viaggiatori e trasportatori che come loro hanno trovato riparo nella locanda che li ospita e riprese nel castello di Shigeaki non sono da meno. Per pura pignoleria, devo dire che ho trovato fuori luogo (in quanto inutile) l’eccessiva illuminazione degli interni della locanda.
Raccomandato ... se vi accontentate, lo trovate su YouTube in HD 720p in v.o. con sottotitoli in inglese. 

65  Tsotsi (Gavin Hood, ZAF, 2005) tit. it. “Il suo nome è Tsotsi” * con Presley Chweneyagae, Mothusi Magano, Israel Makoe, Zola * IMDb  7,3  RT 88% * Oscar miglior film in lingua non inglese (per il Sudafrica)
Il protagonista Tsotsi è a capo di una piccola gang di 4 giovani delinquenti abbastanza fuori di testa, che vivono in una baraccopoli di Soweto (periferia di Johannesburg, Sudafrica). Oltre ad avere “accese discussioni” fra loro, vanno a compiere quotidiane azioni criminose in città e una di queste avrà ripercussioni sostanziali sugli atteggiamenti di Tsotsi e conseguenze anche sui suoi accoliti.
Gavin Hood mostra un mondo sconosciuto ai più, con due realtà sociali completamente diverse (la moderna, produttiva e funzionale vs il ghetto di gente di colore) divise da campi incolti dove trovano rifugio e sopravvivono giovanissimi soli, probabilmente destinati ad una carriera criminale .. se sopravvivono. Allo stesso tempo, mette in risalto l’umanità di tanti personaggi che cercano di divere dignitosamente e onestamente nonostante l’ambiente violento, povero, senza acqua corrente e senza elettricità.
La colonna sonora in stile Indestructible Beat of Soweto è quasi tutta a carico di Zola (musicista, poeta e attore) che nel film interpreta Fela, che sfoggia vestiti costosi e un’auto di lusso e quindi sembra l’unico ad avere soldi e successo in quell’ambiente.
Tsotsi non mi ha convinto del tutto e senza dubbio tante scene sono evidentemente artificiose, ma la struttura della sceneggiatura è più che buona e le interpretazioni credibili. Ancora una volta, il cinema è veicolo di cultura, nel senso che consente di dare uno sguardo su realtà delle quali sappiamo poco o niente, anche se ciò che si vede non può essere certamente generalizzato, né preso per oro colato.
Interessante visione, anche per la buona e originale fotografia.
      

61  Zelig (Woody Allen, USA, 1983) * con Woody Allen, Mia Farrow, Patrick Horgan * IMDb  7,8  RT 100% * 2 Nomination Oscar (fotografia e costumi)
63  Shadows and Fog (Woody Allen, USA, 1991) tit. it. “Ombre e nebbia” * con Woody Allen, Mia Farrow, Michael Kirby * IMDb  6,7  RT 48%
62  Broadway Danny Rose (Woody Allen, USA, 1984) * con Woody Allen, Mia Farrow, Nick Apollo Forte * IMDb  7,5  RT 100% * 2 Nomination Oscar (regia e sceneggiatura)
Commento cumulativo. Della notevole (certamente per quantità, non sempre per qualità) produzione di Woody Allen mi mancavano numerosi film e di recente ho provveduto a recuperarne vari , approfittando di una serie monografica di dvd a lui dedicata.
Fra questi ultimi tre visti, la preferenza va senz’altro a Zelig per il modo nel quale presenta una fake story, altro che le fake news dei nostri giorni. Tutti i suoi meriti risiedono nell'originalità dell’idea e nel modo in cui è proposta, in stile documentaristico con tanti finti notiziari d'epoca e riprese e foto del periodo fra le due guerre alle quali furono poi aggiunti, inseriti o sovrapposti Allen e a volte anche Mia Farrow. Tali operazioni richiesero tanto che nel frattempo Allen completò le riprese di A Midsummer Night's Sex Comedy e Broadway Danny Rose.
Tutto il film è in bianco e nero, ma c'è (volutamente) una netta differenza fra le immagini "pubbliche" (stile newsreel) e quella "private", che includo quelle psichiatriche. Per dare maggior autenticità, per le riprese furono utilizzati attrezzature d’epoca.
Shadows and Fog ha il solo merito di alcune buone scene esterne (fra ombre e nebbia, come appunto recita il titolo) e alcuni aspetti quasi kafkiani del soggetto che lasciano interdetto il povero protagonista. Altri aspetti e l’inutile abbondanza di bravi attori (Malcovich, Pleasance, Foster, Tomlin e perfino Madonna che attrice non è) non giovano più di tanto alla qualità complessiva.
Infine la trama di Broadway Danny Rose mi è sembrata assolutamente pretestuosa, poco plausibile e piena di stereotipi senza neanche riuscire ad essere divertente.
Dal mio (noto) punto di vista, dico che troppo spesso ciò che c’è di meritevole nella sceneggiatura (alcune idee e battute sono più che buone) viene puntualmente buttato alle ortiche dallo stesso Allen che si ostina a voler essere protagonista e non riesce a cambiare minimamente (o almeno a ridurre) i suoi balbettii né il suo frenetico e insulso gesticolare, riproponendo sostanzialmente sempre lo stesso tipo di personaggio più o meno insicuro e paranoico.
Molti non saranno d’accordo, ma io la penso così.

IMPORTANTE: vi ricordo che dal 2 aprile il mio GOOGLE+ sarà chiuso e che, di conseguenza, le raccolte degli anni 2016-2018 non saranno più accessibili. Tutte le 1.300 micro-recensioni sono ora organizzate in 26 pagine del mio sito www.giovis.com e facilmente rintracciabili grazie all’indice generaleIn detta pagina potrete effettuare ricerche per titolo, regista, interpreti principali, anno e paese di produzione e, utilizzando i link e i numeri d’ordine, giungere rapidamente a quella che vi interessa.

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