Ho completato la cinquina con due film
molto diversi, anche fra loro, ma notevoli nei rispettivi generi: un noir classico
americano ed una ancor più classica commedia messicana con l’ineffabile Cantinflas.
Sátántangó (Bela Tarr, Hun, 1994)
IMDb 8,4 RT 100% * Premio Caligari a
Berlino
Film senz’altro unico, non solo per la
durata, ma anche per la struttura e, soprattutto, per lo stile assolutamente
originale di Bela Tarr. Di questo regista ungherese avevo letto più
volte e ricordo di aver sempre visto i cofanetti dei suoi film esposti in bella
evidenza negli shop delle varie cineteche che ho frequentato (Paris, Ciudad de
Mexico, Lisboa, …). Non per niente la sua reputazione su RottenTomatoes è
eccellente, con 8 film quotati ha una media del 91%, 3 di essi al 100%, uno dei
quali è Sátántangó, unanimemente considerato la sua opera più significativa,
il suo capolavoro. Girato in bianco e nero e con presa diretta, è diviso in 12 capitoli
lungi dall’essere uniformi visto che variando da meno di un quarto d’ora a
quasi un’ora:
The News Is They Are Coming (41:23)
We Are Resurrected (31:05)
Knowing Something (59:07)
The Job of the Spider I (25:18)
Unraveling (52:02)
The Job of the Spider II (42:08)
Irimiás Gives A Speech (13:24)
The Perspective from the Front (51:33)
Going to Heaven? Having Nightmares? (29:11)
The Perspective from The Rear (30:28)
Just Trouble and Work (16:49)
The Circle Closes (28:23)
Caratteristiche sono le riprese con
camera fissa (talvolta anche con attori assolutamente immobili) che si
alternano a carrellate lente e infinite, in tutte le direzioni. I campi lunghi
e lunghissimi si alternano a primi piani che durano spesso più del normale. In
un’intervista Bela Tarr ha dichiarato che il film contiene circa 150
clip, il che equivale ad una durata media di 3 minuti a ripresa, ma ce ne sono
tante fra gli 8 e i 12 minuti che però non possono essere considerati veri e
propri piani sequenza visti i limitatissimi movimenti di macchina. Con questa
struttura, è logico che molte azioni siano presentate in tempo reale, senza
alcun montaggio.
Notevole anche il commento sonoro della
fisarmonica (composizioni di Mihály Víg, che nel film interpreta un
personaggio fondamentale, l’enigmatico Irimiás) che si affianca o
sovrappone ai rumori d’ambiente in presa diretta, come per esempio quello della
pioggia battente e pressoché incessante o il ticchettio dell’orologio nelle
lunghe scene nella taverna. Negli esterni dominano distese e strade fangose,
deserte, con pochi protagonisti o attraversate da animali quali maiali
grufolanti, polli, cani e bovini.
Della trama dico solo che si tratta di
come una dozzina di persone, già membri di una disciolta “fattoria collettiva”,
tentano di gestire la loro consistente “liquidazione”, fra sospetti e tentativi
di frode.
Non so quanti vorranno affrontare
questa ardua eppure gratificante visione (assolutamente consigliata) ma,
ammesso che abbiano tanto tempo disponibile, cerchino di guardare Sátántangó
alla miglior definizione possibile e su uno schermo grande, oltre che tutto
d’un fiato. Quanto detto è vero per quasi qualunque film, ma in questo caso, la
qualità dell’immagine è fondamentale … lasciate perdere effetti speciali, 3D,
digitale, CGI e altre diavolerie moderne … questo è cinema puro, con pellicola
35mm!
The Killers (Robert Siodmak, USA, 1946)
Recentemente ho guardato il cosiddetto
remake diretto da Don Siegel nel 1964, che in effetti ha sviluppo ben
diverso pur essendo basato sullo stesso racconto di Hemingway. Ricordo a
chi legge che con lo stesso titolo anche Tarkowski nel 1956 ha diretto e
interpretato insieme con alcuni suoi compagni di studi un corto che è quasi
identico all’inizio di questo di Siodmak (evidentemente seguendo più
fedelmente il testo).
Pur godendo di ottima critica ed essendo
oggettivamente ben realizzato (4 Nomination Oscar per regia, sceneggiatura, montaggio e commento musicale) devo dire che l’adattamento proposto
da Don Siegel risulta molto più avvincente.
Ahí está el detalle (Juan Bustillo Oro, Mex, 1940)
Si tratta di una delle più amate e
apprezzate commedie interpretate da Cantinflas, definito da Charlie
Chaplin “il più grande comico al mondo”. Lasciò gli studi per
seguire un circo itinerante dove imparò a cantare e a ballare, ad esibirsi come
acrobata e clown. Qualcuno lo ricorderà nei panni di Passepartout nella
famosa versione del Giro del mondo in 80 giorni del 1956, al fianco David
Niven.
I suoi personaggi caratteristici sono poveri,
apparentemente incapaci, di buon cuore e in un modo o nell’altro riescono a
trarsi d’impaccio in modi singolari. Altro segno distintivo è il suo linguaggio
sconclusionato, con frasi mai concluse e interpretazioni improbabili di
qualunque frase pronunciata da altri, illogico per la situazione ma logico per
le parole in sé.
Questo film, basato su uno scambio di
persona, un omicidio e un ricatto, è veramente godibile solo se si può
comprendere il messicano, non essendo possibile tradurre i giochi di parole.
Praticamente una situazione simile ai film dei fratelli Marx, nei quali
le parole (volutamente equivocate e/o mal interpretate) sono la sostanza.
Il modo di parlare di Cantinflas
generò addirittura il neologismo cantinflear, comunissimo oltreoceano ma
poi accettato anche in Spagna perfino dalla Real Academia Española
(equivalente della nostrana Crusca) con il significato di “parlare in modo
illogico e incongruente, senza dire nulla di concreto”.
Nessun commento:
Posta un commento