venerdì 30 ottobre 2015

Jai Alai al Frontón México (1983)


Ciudad de México, marzo 1983

Accingendomi a tornare per la terza volta a Città del Messico sto riscorrendo mentalmente le mie esperienze precedenti, per determinare quali voglio approfondire, quali ripetere (ove possibile e seppur con gli inevitabili cambiamenti derivanti dal tempo trascorso) e in quali luoghi voglio tornare.
Fra le esperienze assolutamente irripetibili, in quanto troppo legate alle persone e all’ambiente umano, sono le serate passate al Frontón Mexico nell’83. Ricordo che più che altro ci andai per assistere ad un incontro di Jai Alai (pelota vasca o cesta punta) uno sport del quale avevo spesso sentito parlare in termini più che positivi, in particolare per la sua spettacolarità. Infatti, ormai solo pochi se ne ricordano, la pelota si giocava anche nello Sferisterio di Napoli, a Fuorigrotta, ma quando fui abbastanza grande da andarci già era scomparsa e lì si giocava solo a tamburello (non quello da spiaggia, chiaramente). Ma di questo parlerò in altro post.
Terminata questa divagazione, passo a raccontare ciò che ricordo delle mie frequentazioni del Frontón Mexico nel 1983, un posto affascinante e interessantissimo dal punto di vista sociologico, ancor più che per quello sportivo, assolutamente da non sottovalutare. Al di là dell’intrattenimento fornito dagli spettatori c’è da dire che la pelota è un gioco altamente spettacolare, specialmente se giocato da professionisti. Su YouTube si trovano tanti video di incontri di Jai Alai, per ora accontentatevi di queste poche foto. I salti apparentemente incredibili dei giocatori sono veri e possibili in quanto sfruttano il muro per spingersi in alto. Potrete immaginare il tempismo e la coordinazione necessari per arrivare lassù nel momento esatto nel quale giungeva anche la velocissima pallina.


L’edificio, inaugurato nel 1929, aveva una capienza di circa 2.000 spettatori e un campo di 54m di lunghezza (il più lungo fra quelli regolamentari). In occasione delle Olimpiadi del 1968, in omaggio alla grande popolarità, la cesta punta, che nel frattempo aveva avuto successo anche negli U.S.A., fu addirittura inserita nel programma olimpico ed ovviamente il Frontón ospitò le partite più importanti. Per regolamenti, misure, tipi di incontri, e tutto quanto relativo al gioco vi rimando alle solite facili ricerche in rete, limitandomi ora a descrivervi quello che accadeva fuori della cancha (campo di gioco).
Come quasi tutti i luoghi nei quali si scommette (ippodromi, cinodromi) il Frontón attirava un pubblico molto eterogeneo, ma le categorie più numerose erano ricchi borghesi per lo più anziani nobili e malavitosi di un certo livello (almeno così apparivano). Infatti dovete sapere che non era possibile scommettere ufficialmente solo pochi spiccioli e che la puntata minima era di ben 500 pesos. Per avere un termine di paragone vi dico che il mio budget medio giornaliero con il quale coprivo le spese per un letto in un posto spartano ma decente, tre pasti al giorno, trasporti, ingressi, ecc. era di 750 pesos (all’epoca equivalenti a soli 5 dollari!). La suddetta puntata minima era quindi ben oltre le possibilità di molti messicani.
In uno sferisterio gli spettatori siedono tutti da un lato del campo in quanto gli altri tre presentano un alto muro che viene utilizzato per far rimbalzare la palla, come è ben evidente in questa splendida foto del Frontón de la Habana, Cuba, scattata nel 1904. (ingranditela, è di ottima qualità)

Nella foto è possibile notare vari personaggi fra pubblico e campo, quelli seduti sono chiaramente arbitri, ma chi saranno mai quelli in piedi, in giacca bianca, con un basco sulla testa (tutti gli altri hanno cappelli con tesa), rivolti verso il pubblico? Sono gli allibratori il cui basco, almeno nel 1983, era di un rosso vivo e avevano un curiosissimo modo di riscuotere le puntate e consegnare le relative ricevute. Durante tutto un incontro gridavano continuamente le loro quote, fino a quando mancava un solo punto alla conclusione del match. Negli incontri ai 30 tantos (punti) si affrontavano due squadre di due giocatori ciascuna, contraddistinte dai colori azul (azzurro) e rojo (rosso). A seconda dell’andamento della partita si passava, per  esempio, dalle grida “80 azul” a “90 azul” e dopo aver passato la parità, a “90 rojo” e via discorrendo, ma in caso di recupero si tornava a “xx azul”. 
Quindi gli interessati a scommettere, raramente in prima fila, alzavano la mano e l’allibratore gli lanciava una pallina da tennis con un taglio lungo circa mezza circonferenza, chiaramente fatto all’uopo. Premendo i poli al limite del taglio la pallina si apriva e lo scommettitore infilava la banconota di 500 o 1.000 pesos, o anche più banconote all’interno e quindi la rilanciava all'allibratore il quale contava i soldi, scriveva la ricevuta riportando l’importo e la quota di quel momento e con lo stesso metodo la restituiva allo scommettitore. 
Questo poster spagnolo del 1894 (sotto) pubblicizza due incontri fra Valenciani Baschi, contraddistinti in questo caso dai colori bianco e azzurro, con squadre di 4 giocatori che si sarebbero affrontati sulla distanza di 60 e 50 tantos.
   
Chiaramente per consentire un buon numero di scommesse i giocatori facevano spesso delle pause e riprendevano solo quando il “traffico di palline” diminuiva. In questi intervalli chi come me non era interessato a scommettere aveva tutto il tempo per osservare gli spettatori ed in particolare gli scommettitori che, posso assicurare, erano uno spettacolo nello spettacolo. In particolare ricordo una signora, sulla settantina, che scommetteva con grande continuità e quindi consistenti somme di denaro. Ma la cosa che non dimenticherò mai era la sua prontezza di riflessi e l’abilità nell’afferrare la pallina al volo, con una sola mano e senza mai fallire un colpo!
Come dicevo non ero il solo ad osservare gli altri ed in un’occasione la mia attenzione cadde su un paio di scommettitori seduti poco distanti da me che osservavano con grande insistenza un persona di origine asiatica vestito in modo molto appariscente e con vario oro ben in mostra, con due accompagnatori ben piantati che davano tutta l’idea di essere guardaspalle. Ascoltare i loro commenti era “interessantissimo” e divertente. Uno dei due invitava costantemente l’altro a replicare le scommesse del chino, seppur puntando molto meno del probabile “boss”, in quanto presumeva, come del resto tanti altri, che le partite fossero per lo più combinate. Un commento che, ammiccando, ripeté più volte al suo amico e che ricordo con estrema precisione era: “El chino sabe ...” (il cinese sa ...).

Tutto ciò, tuttavia, era ben lontano dalle scene al limite del surreale alle quali era facile assistere nelle interminabili notti di tamburello allo Sferisterio di Napoli, ma di questo parlerò un’altra volta in quanto necessita, e merita, un post a sé.

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