Pur avendone scelti 4 fra quelli più quotati (ma fra i meno conosciuti), non vi ho trovato quasi niente di buono e così, per risollevare il morale (cinefilo) e concludere in bellezza, mi sono dovuto affidare a un classico noir messicano della Epoca de Oro.
La noche avanza (Roberto Gavaldón, Mex, 1951)
L’ho voluto guardare ancora una volta non solo per la qualità complessiva (regia, sceneggiatura e interpretazioni) ma anche per il particolare ambiente degli sferisteri jai alai (pelota basca) nel quale si svolge e dei quale ho ricordi internazionali. A fine anni ’70 frequentavo quello di Napoli (semidistrutto dal terremoto del 1980) e nel 1983 andai più volte al Frontón di Ciudad de México (fra le location del film) che curiosamente fece la stessa fine per il terremoto del 1984. Non per niente vi dedicai due post (Jai Alai al Frontón México e Sferisterio di Napoli) che vi invito a leggere per rendervi conto un po’ meglio di questo strano e affascinante mondo che comprende non solo atleti e appassionati di ogni classe sociale, ma anche scommettitori e tipi loschi con conseguenti saltuarie combine.
Il protagonista è
Marcos (Pedro Armendáriz), il più famoso giocatore di jai alai
del momento, donnaiolo, infedele, bugiardo, litigioso e arrogante, insomma un
bel tipino. Dopo aver vinto 26 incontri di seguito e in procinto di trasferirsi
all'estero si trova invischiato in tre relazioni pseudo-amorose e complicate e
viene ricattato per perdere l’incontro successivo. Riusciranno i ricattatori
(che hanno conti in sospeso sia con Marcos che fra di loro) a portare a termine
i loro diabolici piani? Scagnozzi infedeli e amanti disperate e vendicative
complicano ulteriormente gli avvenimenti della seconda metà della storia, fino
alle varie sorprese finali. Classico noir messicano diretto dal sempre
affidabile Roberto Gavaldón, con solide interpretazioni di Pedro
Armendáriz e José María Linares-Rivas, ma anche il resto del cast,
che comprende Anita Blanch e Rebeca Iturbide, svolge un buon
lavoro. Giunse anche in Italia con l’ennesimo titolo ridicolo: Odio mortale
(sic!). Consigliato, in particolare a chi gradisce storie in ambienti di
nicchia poco conosciuti.
Blanco en Blanco (Théo Court, Spa/Chi, 2019)
Si distingue
soprattutto come esercizio di fotografia, ma purtroppo, specialmente nella
prima parte, la maggior parte delle scene sono talmente scure da riuscire a
malapena a distinguere persone e ambiente. Bene usare luce naturale e non ridicole
candele che improvvisamente illuminano l’intera stanza a giorno, ma esiste
anche una via di mezzo. Per fortuna degli spettatori, nella seconda parte la
fotografia la fa da padrona con delle belle composizioni. Infatti il
protagonista è un fotografo invitato da un ricco proprietario terriero in Tierra
del Fuego per immortalare il suo matrimonio. L’azione si svolge alla fine
dell’800 e ciò significa che prima di scattare si deve organizzare la scena
come un tableau vivant e convincere i soggetti a rimanere fermi per un
minuto e oltre, ma anche le semplici riprese in esterno sono meritevoli. Alla
fine il protagonista viene praticamente costretto a documentare l’eliminazione
fisica di gruppi di indigeni con foto simili e quelle che si fanno alla fine di
una battuta di caccia. Film un po’ sbilanciato fra la voglia di perseguire
obiettivi artistici e la critica dei metodi brutali degli europei per liberarsi
degli indigeni, pratiche che purtroppo proseguono ancora oggi, come in
Amazzonia. Le ultime scene furono girate nella caldera del Teide
(Tenerife, Canarias) e per la precisione nell’affascinante e (per me)
inconfondibile Llano de Ucanca. FIPRESCI e altri 2 Premi a Venezia.
Nuevo orden (Michel Franco,
Mex, 2019)
Altro film che
mi ha lasciato molto perplesso, scelto per vari motivi nonostante i rating non
certo entusiasmanti che contrastano con i premi ottenuti a Venezia (Gran Premio
della Giuria e Leoncino d’Oro). Già conoscevo il regista/sceneggiatore/produttore
Michel Franco noto per i suoi apprezzati film che affrontano temi
difficili, come in Después de Lucía (2012) e Las hijas de
Abril (2017), e a ciò si aggiunge il fatto di aver assistito al alcune
riprese al centro di Coyoacán. Pur avendo il merito di affrontare l’eterno
problema delle grandi differenze sociali tuttora presenti in Messico, secondo
me stavolta ha esagerato proponendo quasi un kolossal urbano (si parla di 3.000
comparse), eccedendo nella violenza e, al contrario, essendo troppo vago in
merito alle connivenze fra capitalisti, militari e rivoluzionari. Per
sottolineare lo spreco (mania di grandezza di Franco), posso dirvi che
delle riprese sul set organizzato per tre giorni sul sagrato della chiesa di Coyoacán,
con ben oltre un centinaio di comparse e tecnici, sono stati utilizzati solo
una dozzina di secondi; in precedenza aveva bloccato arterie principali di
Ciudad de México con un mare di carcasse di auto, barricate fumanti e finti
cadaveri per meno di dieci secondi di girato utilizzato.
Memoria (Apichatpong Weerasethakul, Col/Thai, 2021)
Il tanto
acclamato regista thailandese con questo film (il primo al di fuori del paese
natio) si sposta in Colombia ma resta nell’ambito onirico – mistico –
paranormale. Alcune situazioni non le ha certo scelte in modo peregrino, l’incontro
fra culture è ben esposto ed è apprezzabile il mantenimento del doppio idioma (castigliano
latino e inglese) con relativi accenti per i non madrelingua, ma si deve
rendere conto che non è Werner Herzog, né Bela Tarr, né Andy
Wharol per poter proporre lunghissime scene silenziose e inquadrature fisse.
Non a caso le più frequenti osservazioni – critiche sono proprio in merito alla
lentezza del film e, seppur non eccessiva, alla durata del film che alcuni pensano
che perfino dimezzato non perderebbe molto. La presenza di Tilda Swinton non basta a risollevare un film pretenzioso, soporifero e noioso
come altri suoi lavori, ma è statisticamente prevedibile che continueranno a
invitare e premiare Apichatpong Weerasethakul ai Festival per essere
fuori del comune. Premio della Giuria a Cannes, in precedenza una mezza dozzina
di presenze, con una Palma d’Oro nel 2010.
Kékszakállú (Gastón
Solnicki, Arg, 2016)
Non so come si
possa pensare di finanziare e realizzare film come questo, senza né capo né
coda, brutto esempio del genere ricchi rampolli sudamericani insulsi e nullafacenti,
prodotti che poi vengono mandati in giro (evidentemente raccomandati) e fanno
aumentare le perplessità in merito alle selezioni dei festival e dei metri di
giudizio delle giurie. I dialoghi sono ridotti all’osso (e probabilmente è una fortuna),
il sonoro per lo più in presa diretta con fastidiosissimi, spesso sovrastanti,
rumori di fondo, recitazione meno che amatoriale, la maggior parte delle
inquadrature sono fisse, incluse molte senza alcun senso di edifici. Di nuovo
per fortuna, il film dura poco più di un’ora. Penso sia il primo al quale ho
affibbiato un significativo 1 su 10 su IMDb! Se trovo già generoso il 5,5 su
tale piattaforma, giudico incredibile il 95% su RT, anche se probabilmente
derivante dalle poche recensioni scritte in occasione dei festival (a Venezia
ottenne il Premio FIPRESCI) nelle quali i critici invitati, raramente
stroncano … è tutto un business.
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