mercoledì 24 aprile 2019

31° gruppo di 5 micro-recensioni 2019 (151-155)

Anche questa volta, oltre al film d'epoca (francese, ben lontano dalla qualità di Citizen Kane), ci sono 4 produzioni di nazionalità diverse (Corea, Ungheria, Brasile e Francia / Senegal) e 3 di essi hanno ricevuto riconoscimenti in Festival importanti quali Cannes, Berlino e Venezia.

   


152  Burning  (Chang-dong Lee, Kor, 2018) tit. or. “Beoning” * con Ah-in Yoo, Steven Yeun, Jong-seo Jun * IMDb  7,6  RT 94% * 2 Premi a Cannes e Nomination Palma d’Oro
Acclamato, ma non convincente, estremamente lento (è stata la prima volta in questa settimana che ho visto spettatori uscire prima del tempo), forse troppo lungo (2h30’) ma è evidente che sia una “tattica” precisa del regista (non condivisa da tutti) per creare dubbi e tensioni.
Insignito del gran Premio della Giuria a Cannes pochi mesi fa, mi lasciava molto ben sperare ... sono rimasto un po' deluso e spiego perché. La sceneggiatura è un adattamento di una short story di Haruki Murakami che non ho dubbi sia affascinante per l'intreccio di storie, ricordi e "bugie", fra fantasia e mitomania. Ci sono un protagonista e due co-protagonisti e la trama si sviluppa fornendo pochissime certezze; dopo un poco e fino alla fine lo spettatore viene spinto a dubitare di tutto, in quanto quasi niente di quanto detto in precedenza viene chiaramente confermato, ma neanche smentito.
Si deve aggiungere che solo il protagonista sembra avere una vita "normale", la ragazza sembra essere colei che fa più affermazioni non verificate, del terzo, oltre a sapere che è ricco, non si sa praticamente niente.
Dov'è il problema? Come dicevo, Chang-dong Lee (secondo me e molti altri) ha esposto tale situazione ad un ritmo ingiustificatamente lento e, non essendo certo un Tarkovski, diventa tedioso e soporifero. Non si distingue neanche per un particolare lavoro di macchina o inquadrature. Passare da un racconto breve ad un film di due ore e mezza mi sembra pretenzioso. 
In conclusione, il soggetto che mantiene lo spettatore in un'eterna condizione di dubbio e/o sospetto è ottimo e dà pregio al film, che merita di essere visto; resta il rammarico della quantomeno non perfetta realizzazione.

154  Félicité  (Alain Gomis, Fra/Sen, 2017) * con Véro Tshanda Beya Mputu, Gaetan Claudia, Papi Mpaka  * IMDb  6,4  RT 96%  *  Gran Premio della Giuria e Nomination Orso d’Oro a Berlino
Film sostanzialmente "africano" con il Senegal paese co-produttore, girato in un sobborgo di Kinshasa (capitale della Repubblica Democratica del Congo, già Zaire) con attori locali, diretti da Alain Gomis (anche co-sceneggiatore), nato a Parigi da padre senegalese. Interessante per essere quindi simile a un black movie americano, come quelli che si giravano a metà secolo scorso, con cast interamente di afroamericani in quel caso, di africani di colore in questo. Con questi presupposti è lecito credere che quanto mostrato sia in gran parte ciò che accade nella realtà e non totale finzione creata da sceneggiatori e/o registi che l'Africa non l'hanno vissuta. 
L'ambiente è quello quasi povero, vale a dire che ognuno di arrangia come può, ma ha un appartamento o almeno una stanza, con elettricità e qualche elettrodomestico, ed anche i soldi per andare a bere ....
Félicité si guadagna da vivere cantando in un locale notturno ma, per pagare l'operazione della quale ha bisogno il figlio ferito in un incidente stradale, si trova a dover racimolare quanto prima possibile una certa somma, in un modo o nell'altro. Seguendola in questa specie di questua, vengono mostrati i vari rapporti con colleghi, amici, parenti, chiesa, clienti del locale, ex-marito (padre del ragazzo), polizia, infermieri, dottori. Ne viene fuori un interessante spaccato della società congolese che sopravvive come può, dignitosamente per quanto possibile.

      


155  Arábia (João Dumans, Affonso Uchoa, Bra, 2017) * con Aristides de Sousa, Murilo Caliari, Gláucia Vandeveld * IMDb  7,4 RT 93%
Film singolare che trasforma in immagini un diario di un operaio industriale, appena deceduto sul lavoro. A trovarselo fra le mani è un ragazzo che lo conosceva e che è stato mandato a recuperare i suoi effetti personali. 
Vengono così descritte le sue varie occupazioni (quasi tutte in ambito di industria pesante) le sue disavventure, i suoi compagni di lavoro, le sue speranze, la sua temporanea compagna. Ritratto ben fatto di un lavoratore sostanzialmente onesto e sensibile. 
Per niente pretenzioso, semplicemente ben realizzato, sicuramente sopra la sufficienza.

151  Jenny (Marcel Carné, Fra, 1936) * con Françoise Rosay, Albert Préjean, Lisette Lanvin * IMDb  6,6 
Un quasi noir di Carné, con adattamento e dialoghi di Jacques Prévert, un intreccio di personaggi abbastanza equivoci (tranne una) che ruotano attorno a madame Jenny, tenutaria di un locale altrettanto equivoco, ma di lusso. Le bugie e omissioni regnano sovrane e solo grazie alle continue menzogne e riserve mentali il film regge può andare avanti per oltre un'ora e mezza.
Nel night-ristorante di lusso la clientela è di un certo livello ed elegante, non semplicemente danarosa, e ciò permette alla maitresse di nascondere per un po’ la sua vera attività alla figlia, tornata a casa dopo un'assenza di vari anni. La storia, dal soggetto più volte sfruttato, si complica a causa di vari personaggi (clienti e non) che gravitano nell’ambiente per differenti motivi, che tuttavia portano ad una certa rivalità fra vari di loro.
Nel cast c’è anche un volto ben noto anche in Italia, quello di Charles Vanel, divenuto poi famoso soprattutto per le sue partecipazioni a film polizieschi, sia come criminale che dalla parte della legge.
Molto datato, ma ben realizzato.


153  Sunset  (László Nemes, Hun, 2018) tit. or. “Napszállta”, tit. it. “Tramonto” * con Susanne Wuest, Juli Jakab, Evelin Dobos * IMDb  6,6  RT 57% * Premio FIPRESCI e Nomination Leone d’Oro a Venezia
Per 80% del tempo la camera si muove a non oltre due metri dal soggetto, riprendendolo di fronte, di spalle o di lato e seguendolo dovunque, fra la folla, per le scale, nelle stanze, sempre con pochissima profondità di campo lasciando così tutto il resto della scena assolutamente fuori fuoco. A tratti dà addirittura l’idea che le riprese dei soggetti in primo piano siano state sovrapposte alle altre (a mo’ di fondali), come era pratica comune nei film di metà secolo scorso, in particolare nelle scene in auto (ricordate quante volte senza muovere il volante le auto sembravano affrontare curve o, al contrario, girandolo, l’immagine nel lunotto posteriore rimaneva sempre la stessa?). A ciò si aggiunge spesso il fastidioso respiro affannoso del soggetto di turno, come se veramente lo spettatore stesse a un metro di distanza. Se nel precedente lavoro di László Nemes (Son of Saul, Oscar 2016) in tanti, me compreso, avevano apprezzato questa tecnica, in particolare quando il protagonista si addentrava nella folla fra gride quasi disumane, come fosse un girone dantesco, stavolta appaiono senz'altro eccessive.
A prescindere dalla parte tecnica, anche la sceneggiatura è molto confusa e non conoscendo abbastanza della situazione politica dell'impero austro-ungarico alle soglie della Grande Guerra, tanti avvenimenti e personaggi sono poco chiari. Lascia perplessi anche l’estrema libertà con la quale la protagonista si muove da sola. Pretenzioso, stucchevole per la ripetitività delle riprese, restano alcune interessanti scenografie e bei costumi, specialmente i copricapo (una fabbrica di cappelli è il perno di tutto il film). 
Non ve lo consiglio.

Le oltre 1.400 precedenti micro-recensioni dei film visti a partire dal 2016 sono sul mio sito www.giovis.com; le nuove continueranno ad essere pubblicate su questo blog. 

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