Ai quattro dei 7 documentari che compongono la serie The Blues (prodotta da Martin Scorsese, ma ognuno affidato ad un regista diverso) ho aggiunto un originale documentario indipendente che riguarda il più famoso e misterioso blues singer degli anni ’30. Oltre a questi diretti dallo stesso Scorsese, Wim Wenders, Clint Eastwood e Charles Burnett, gli altri 3 furono realizzati da Richard Pearce, Marc Levin e Mike Figgis. Comincio con l’enigmatica storia di Robert Johnson …
Crossroads Blues (John Doe, 1945, USA)
Un tale Robert Johnson va alla ricerca di elementi relativi alla brevissima vita artistica del suo omonimo che fra il 1936 e 1937 (pur essendo un perfetto sconosciuto) divenne un caso per registrare 29 ottimi pezzi blues in due diverse sessioni in Texas e poi sparire; poco tempo dopo fu trovato morto ma la causa non fu mai chiarita. La leggenda nata attorno alla sua storia vuole che la sua improvvisa bravura fosse conseguenza di un patto con il diavolo. Molti sono andati alla ricerca dell’incrocio presso il quale il musicista vendette la sua anima ma nessuno è giunto a conclusioni certe. L’autore di questo documentario (disponibile su archive.org) cerca anche di scoprire se effettivamente esistesse anche un 30imo pezzo, del quale molti favoleggiano. Per concludere, ciò che effettivamente resta di Robert Johnson sono i vinili originali, appena un paio di foto e 3 tombe!
Ho aggiungo questo breve video nel quale viene riassunta la parte nota e quella leggendaria della breve vita del King of the Delta Blues Singers, che negli altri documentari di questa cinquina tutta dedicata al Blues viene citato più volte.
The Soul of a man (Wim Wenders, 2003, USA)
Secondo me il
migliore e più interessante dei quattro, sostanzialmente segue le carriere di
tre artisti: Blind Willie Johnson (1897-1945), Skip James (1902 –
1969) e J. B. Lenoir (1929 –1967). Chiaramente si parla anche di
tanti altri soulman e gruppi moderni che si sono esibiti in cover
dei tre suddetti, ma sono numerosi i riferimenti alla storia americana con
filmati relativi al Vietnam e alle proteste per i diritti civili. Wenders
confessa che loro sono quelli che più ammira. Questo documentario contiene
molti filmati di repertorio e parte di un sorprendente doc amatoriale girato da
una coppia (lui americano, lei svedese) con lo scopo di far conoscere J. B.
Lenoir in Svezia. In effetti si apprende che i video di quest’artista sono
rarissime e quindi queste, seppur non professionali, sono quasi uniche.
Warming by the Devil's Fire (Charles Burnett, 2003, USA)
Ha conquistato la sua fama come direttore della fotografia più che come regista, tanto da meritarsi un premio onorario agli Oscar 2018. A differenza degli altri, ha scelto la strada di un docufilm, includendo alcune esperienze personali. L'ambiente del Blues viene descritto attraverso gli occhi di un ragazzino nato e cresciuto in California che viene mandato a trovare gli zii in Mississippi, ma viene praticamente "rapito" dallo zio bighellone, bevitore, donnaiolo e ovviamente appassionato di musica nera e non sarà raggiunto dall'altro zio predicatore, dal quale sarebbe dovuto andare, se non alla fine dell'esperienza della sua vita. Per fortuna, la sceneggiatura debole e le interpretazioni mediocri sono ben compensate dalla qualità di interessanti filmati di repertorio (musicali, di cronaca e di vita dell'apartheid) e dalla qualità dei blues d'epoca.
Feel Like Going Home (Martin Scorsese, 2003, USA)
L’idea di una stretta connessione fra il Blues e la musica africana (titolo italiano è esplicitamente Dal Mali al Mississippi) mi è sembrata alquanto forzata. Le scene girate oltreoceano (buona parte del finale) sono senz’altro interessanti, ma quasi fuori contesto. Anche in questo film, oltre al misterioso Robert Johnson, vengono citati in continuazione le pietre miliari del Blues classico e fra questi viene dedicato uno spazio particolare a Muddy Waters, Son House, John Lee Hooker e Otha Turner proponendo filmati d'epoca con le loro esibizioni.
Blues: Piano Blues (Clint
Eastwood, 2003, USA)
Mi è piaciuto meno degli altri, per vari motivi: tutto incentrato su pianisti, poco blues e molti generi derivati (forse), eccessiva presenza del regista. La colonna sonora composta da spezzoni di tanti brani interpretati da grandi artisti è al di sopra di ogni critica, ma il loro montaggio non gli rende merito. C’è tanto ragtime, boogie, jazz, bebop, con pianoforte solo o accompagnato da orchestre, e rispetto agli altri tratta di periodi più moderni. Anche le immagini di repertorio sono sempre professionali e a colori e fanno rimpiangere quelle in bianco e nero, in locali molto più piccoli o addirittura per strada, con un solo artista e la sua chitarra. In quanto alle interviste con vari anziani pianisti famosi (a cominciare da Ray Charles al quale viene dedicato molto spazio), trovo che occupano troppo spazio, iniziano sempre con la stessa domanda (“Come hai iniziato?") e diventano noiose le monotone inquadrature delle mani che scorrono sui tasti, osservate dal buon Clint perennemente seduto spalla a spalla con chi suona.
Trailer francese della serie di 7 film, che mi sembra più significativo e certamente più conciso di altri disponibili in rete.
Nessun commento:
Posta un commento