martedì 29 gennaio 2019

8° gruppo di 5 micro-recensioni 2019 (36-40)

Questo ottavo blocco, con tre “ripescaggi” (teoricamente di qualità) e due novità (una delle quali acclamata e l’altra molto criticata), mi ha riservato varie delusioni e una piacevole sorpresa. Alla fine, i due che ho preferito sono stati i meno titolati. Ecco i 5 in ordine di mio gradimento.

     

40  The House That Jack Built (Lars von Trier, Den, 2018) * con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman * IMDb  7,0  RT 58%
Il regista danese Lars von Trier, noto per essere il creatore di Dogma 95 con Vinterberg, per i suoi alti e bassi, per le sue storie e affermazioni spesso estreme, si cimenta con un quasi thriller, quasi dark comedy, certamente truculento e in alcuni casi disturbante, volutamente provocatorio. Un film articolato e complicato costituito da tre parti ben distinte eppure interlacciate, che singolarmente possono essere ammirevoli o stracriticabili.
La parte visuale (riprese, montaggio, inserti, ...) è senza dubbio eccezionale, i dialoghi sono certamente discutibili ma sollevano tante questioni interessanti (non riesco a ricordarne di banali, nel caso ci siano), la trama è quella che può dar più fastidio anche se molto del potenzialmente rivoltante è palesemente finto ... si rifugge dall’idea non dall’immagine (si vede molto di peggio sia in tanti acclamati film di guerra che in horror di cassetta).
Nei panni del protagonista c’è un Matt Dillon in grande spolvero, quasi onnipresente durante l’intero film. Questo è diviso in 5 "incidenti" più l'epilogo e viene accompagnato da un dialogo fra il protagonista e tale Verge che, a giudicare dal continuo sciabordio, sembrano avanzare nell'acqua nel buio più assoluto. Solo verso la fine saranno rivelati ruolo e volto di Verge, interpretato dal quasi 80enne Bruno Ganz che qualcuno ricorderà come protagonista di opere maestre del Nuovo Cinema tedesco come Nosferatu (1979) di Herzog, L'amico americano (1977) e Il cielo sopra Berlino (1987) di Wenders, L’inganno (1981, di Schlöndorff).
La costruzione del film e il montaggio sono unici e spesso geniali, cambi di ritmo, tanta camera a mano, inserti bianco e nero, disegni animati, stili di ripresa contrastanti, immagini di opere d'arte di tutti i tipi e di ogni epoca, disegni, dipinti, incisioni e sculture, cambi di formato.
I dialoghi toccano i temi più vari filosofia, religione, misoginia e misantropia, ingegneria e architettura, caccia, prede e predatori, storia e politica, arte. In quest’ultimo campo il regista ha selezionato e inserito sia immagini reali di un’incredibile serie di opere, sia scene che a esse fanno riferimento, tutte collegate ai temi del film; così come mentre scorrono i titoli di coda si ascolta Hit the road jack, il famoso pezzo lanciato da Ray Charles nel 1961, qui nella versione di Buster Poindexter.
A dimostrazione di come il film abbia diviso sia pubblico che critica, ricordo che alla prima mondiale a Cannes 2018 quasi un centinaio di spettatori abbandonarono la sala (alcuni dopo neanche un’ora), ma i più restarono fino alla fine (due ore e mezza) ed espressero il loro apprezzamento con una lunga standing ovation. Considerate che ad una al Festival di Cannes si suppone che assistano addetti ai lavori, critici, distributori, giornalisti.
Aggiungo che, se la prestigiosa e storica rivista francese Cahiers du Cinéma pone The House That Jack Built all’ottavo posto fra i migliori film dell’anno, deve pur avere vari meriti. Purtroppo molti si fermano a Hollywood, Disney e ora Netflix, ma c’è anche chi produce non mirando solo ed esclusivamente al successo al botteghino, indipendentemente dal piacere o meno. Ci sono tanti film di qualità che restano emarginati nei paesi di produzione (Estremo Oriente e America Latina su tutti) e altri indipendenti che, pur essendo di produzione europea o americana, non vengono adeguatamente distribuiti.
Direi "questo è cinema", a prescindere dal fatto che possa piacere o meno, ma c'è creatività, gusto dell'immagine pur trattando spesso scene violente e cruente.
Se non siete troppo sensibili, è un film da non perdere.

38  La tía Alejandra (Arturo Ripstein, Mex, 1979) tit. int. “Aunt Alejandra” * con Diana Bracho, Isabela Corona, Manuel Ojeda * IMDb  7,0 
Ho trovato un altro film di Ripstein, singolare come gli altri, ma stavolta si tratta di un'incursione (unica del regista e con il solo scopo di proporre un film popolare) nel mistery/horror. Questo è un genere non molto comune nella cinematografia messicana e i pochi cult sono sempre al limite, abbastanza distanti dagli horror puri. L'eccellente Macario (di Roberto Gavaldón, 1960, 8,4 su IMDb, candidato Oscar e Palma d'Oro, spesso paragonato a Il settimo sigillo di Bergman) tende nettamente al filosofico, El esquéleto de la señora Morales (8,2 con l’ottimo Arturo de Córdova) alla comedia negra, El vampiro (1957, di Fernando Méndez) è praticamente l'unico che rientra negli schemi classici.
La capacità di Ripstein si vede già dalla scena iniziale, ancor prima dei titoli di testa, con una perfetta inquadratura fissa dal basso, con il soggetto che si allontana rimanendo esattamente al centro dello schermo. Seppur minimalista e senza grandi effetti, La tía Alejandra avvince e allo stesso tempo lascia volutamente molte questioni aperte e sarà lo spettatore a decidere dove finisce la possibile magia nera (la brujería, in America Latina molto più trattata del vampirismo) e dove comincia altro.
Non certo uno dei più graffianti film di Ripstein, che si esprime al meglio nelle rappresentazioni di ambienti degradati ed esseri umani tormentati, emarginati eppure vitali. 

      

Questi tre film, oltremodo sopravvalutati, sono a pari merito i peggiori dei 5, nonostante la loro fama e in vari casi il coinvolgimento di registi o di ottimi attori di indiscusso livello. Non sapendo decidere quale mi ha deluso di più, li elenco in ordine di visione.

36  If Beale Street Could Talk (Berry Jenkins, USA, 2018) tit. it. “Se la strada potesse parlare” * con KiKi Layne, Stephan James, Regina King * IMDb  7,8  RT 95% * 3 Nomination Oscar (sceneggiatura adattata, Regina King non protagonista, commento sonoro)Ho cominciato a sbadigliare dopo appena 20' ed era il primo spettacolo pomeridiano, non l'ultimo a notte fonda. Dialoghi banali e risibili, riprese scure e deprimenti, panoramiche lentissime, talvolta impiegate al posto del classico campo/controcampo, verso la fine tanti primi piani fissi con l’attore di turno che guarda diritto nell’obiettivo, vociare e rumori di ambiente senza che si veda nessuno in giro e di pioggia senza che si veda una goccia  ... per fortuna non l’hanno candidato anche per la regia!. Ho contato solo 3 situazioni/dialoghi un po' più movimentati. Musica estenuante (c'è solo un brevissimo spezzone di un brano di qualità cantato dall’inconfondibile Nina Simone). Chiude in modo penoso con una serie di foto di schiavi, afroamericani arrestati, perquisiti e maltrattati mentre la voce fuori campo ricorda tutti i torti e soprusi da loro subiti.
Chiedendomi cosa avessero trovato altri in questo film sono andato a guardare i commenti su IMDb (attualmente 7,8, ma prevedo una discesa). Se andate a dare uno sguardo almeno ai titoli e ai voti vedrete quante insufficienze ci sono.
Certamente è molto sopravvalutato, probabilmente per l’eredità del regista Jennings che 2 anni fa con Moonlight vinse l’Oscar (meritato?) per la sceneggiatura e fu candidato per la miglior regia.
Sconsigliato ... scegliete altro.

37  Hair (Milos Forman, USA, 1979) * con John Savage, Treat Williams, Beverly D'Angelo * IMDb  7,6  RT 89%
Non essendo amante dei musical (pur apprezzando quelli ben realizzati) avevo sempre rinviato la visione del famoso Hair. Sono rimasto molto deluso sotto quasi tutti i punti di vista. La storia non è plausibile, i brani cantati (tranne un paio più conosciuti come Aquarius e Let the Sunshine In) non mi sono sembrati un granché, le poche coreografie insoddisfacenti (anche se quella inziale con i cavalli lasciava ben sperare), trama e personaggi tendenti al ridicolo. Tutto gira attorno a un piccolo gruppo di hippies (sesso, droga e rock'n'roll) che non riescono ad essere empatici ed i loro discorsi e azioni non sono assolutamente convincenti.
Un mediocre film di Bollywood non ha niente da invidiare a questo Hair, generalmente giudicato un pessimo adattamento del lavoro teatrale. Nel campo dei musical c’è molto di meglio, anche in quegli stessi anni.

39  Shakespeare in Love (John Madden, USA, 1998) tit. it. “Vice - L'uomo nell'ombra” * con Gwyneth Paltrow, Joseph Fiennes, Geoffrey Rush, Julie Dench, Colin Firth * IMDb  7,1  RT 92% * 7 Oscar (miglior film, Gwyneth Paltrow protagonista, Julie Dench non protagonista, sceneggiatura, scenografia, musica, costumi) e 6 Nomination (regia, Geoffrey Rush protagonista, fotografia, montaggio, sonoro, trucco)
Un film che ottiene 13 Nomination (uno sproposito in assoluto), 7 delle quali convertite in Oscar, dovrebbe essere qualcosa di sensazionale, rasentando la perfezione sotto quasi ogni punto di vista. La mia delusione è stata ancor maggiore per essere giunto alla visione di Shakespeare in Love dopo aver ri-guardato l’ottimo Saving Private Ryan (5 Oscar da 11 Nomination nella stessa edizione) e quindi avevo un preciso termine di paragone. Sono rimasto allibito dalla pochezza del film, nonostante la presenza di vari ottimi attori e mi è tornato in mente il famoso fantozziano commento “... una cagata pazzesca!”, perfetto per questo film di Madden, certamente non per La Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (1925). 

I film sono disposti in ordine di (mio) gradimento, il numero indica solo l'ordine di visione. In attesa di importarle nel mio sito, e finché Google+ rimarrà attivo, si può accedere a tutte le altre micro-recensioni cliccando sui poster in queste pagine

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