giovedì 19 maggio 2022

Microrecensioni 136-140: interessante mix, con punti in comune

Due ottimi classici poco visti del 1963, i primi due film di Joachim Trier (recentemente assurto a notorietà internazionale con la Nomination Oscar per The Worst Person in the World) e un buon franco-alemanno, ancorché un po’ deludente.

 
Le feu follet (Louis Malle, 1963, Fra)

Tratto dall’omonimo romanzo del 1931 di Pierre Drieu la Rochelle, tratta dei tormenti di un giovane uomo appena disintossicatosi. Combattendo la solitudine e alla ricerca di una ragione di vita, Alain (Maurice Ronet) ritorna per un giorno a Parigi nel tentativo di tornare alla normalità; ma il fatto di rincontrare i suoi amici parigini e frequentare i soliti locali sembra non aiutarlo minimamente. L’ambiente è quello dell’alta società e della cultura, nel quale il protagonista si rivela essere stato personaggio conosciuto e ricordato con affetto anche da personale di albergo, bar e ristoranti … forse gli unici veramente sinceri. Interessante anche se deprimente, teatrale, ottimamente interpretato, profondo. Unanimemente giudicato uno fra i migliori film di Malle, così come una delle migliori interpretazioni di Ronet. Premio speciale della Giuria, Premio Pasinetti e Nomination Leone d’Oro a Venezia.

I basilischi (Lina Wertmuller, 1963, Ita)

Un classico cult italiano, opera prima di Lina Wertmuller (con esperienza di aiuto regista di Federico Fellini per il film ) che, ispirata anche dal maestro, già metteva in mostra il suo stile satirico al limite del grottesco, attentissima alla vita di provincia fatta di stereotipi regionali nonché alla parlata (ma senza esagerare), alle tradizioni ancestrali e ai personaggi particolari. Il merito è certamente tutto suo essendo non solo regista ma anche autrice unica di soggetto e sceneggiatura. L’ambiente è quello di una cittadina dell’entroterra pugliese, al confine con la Basilicata, con economia indissolubilmente legata all’agricoltura. E un film tutto da vedere e da ascoltare, con dialoghi sagaci e divertenti, senz’altro realistici. Da non perdere.

  
Oslo, 31. August (Joachim Trier, 2011, Nor)

Seppur più vagamente, anche questo film di Trier (niente a che vedere con il danese Lars von Trier, co-fondatori di Dogma 95 con Thomas Vinterberg) si ispira a Le feu follet, ma la scena è quella di una Oslo di un decennio fa, con tanti giovani che sembrano ancora indecisi sul loro futuro e poco soddisfatti delle loro esperienze. Anche in questo caso tutti gli eventi sono raccolti in una giornata (da cui il titolo) raccontati attraverso gli incontri di un giovane che, avendo un giorno di permesso dal centro di recupero dove ha trascorso gli ultimi mesi, torna in città per incontrare amici, conoscenti, ex, vecchie fiamme. Non una grande presentazione dei giovani norvegesi, che appaiono per lo più superficiali e disillusi; questi sono argomenti ricorrenti nei 3 dei soli 5 film di Trier che ho visto (dei quali è anche sceneggiatore) ed è lecito supporre che anche gli altri due trattino temi simili. L’impressione è che questa monotematicità sia un suo limite, mentre è assolutamente da apprezzare per il suo modo di filmare, con grande e buon uso di macchina a mano, piani ravvicinati, montaggio rapido. Cimentandosi in altro tipo di produzioni e affidandosi ad altri sceneggiatori potrebbe guadagnarci molto. Tornando al soggetto, risulta certamente perdente nel confronto con l’adattamento di Luis Malle.

Reprise (Joachim Trier, 2006, Nor)

Questo fu l’esordio di Trier e, come appena scritto, anche in questo caso i protagonisti sono due giovani pieni di aspirazioni, ma anche di dubbi, certamente molto entusiasti ma altrettanto insicuri. I due sono aspiranti scrittori che perseguono i loro ideali, hanno i loro autori di riferimento, vengono spesso quasi derisi dai loro conoscenti. Anche in questo caso i giovani hanno problemi di alcool e droga ma risaltano anche l’ipocrisia e la cattiveria. Come spesso accade fra artisti, pseudoartisti ed aspiranti artisti, l’euforia di momentanei e improvvisi successi si alterna con la depressione e l’incapacità di produrre.

Transit (Christian Petzold, 2018, Ger/Fra)

In un certo senso la trama ricorda l’essenza del famoso Casablanca (1942, Michael Curtiz), fra persone in fuga da un regime dispotico, lasciapassare, passaporti falsi, biglietti per espatriare. L’intreccio degli incontri, le casualità, i personaggi appena accennati che ricompaiono all’improvviso, i tanti twist che continuano fino all’ultima enigmatica scena sono certamente un valore aggiunto per la sceneggiatura. Questo è un adattamento (curato dallo stesso regista) dell’omonimo romanzo di Anna Seghers del 1944; ardito in quanto la scena è trasposta a tempi moderni, con fantomatici invasori della Francia, la maggior parte delle persone in fuga lasciano Parigi e le città del nord per ritrovarsi a Marsiglia in attesa di una fuga via nave verso i paesi di oltreatlantico. Non ho gradito la frequente narrazione con voce fuori campo, oltretutto di nessuno dei protagonisti … una soluzione che non mi è mai piaciuta, appena tollerata nei classici noir americani per i quelli veniva usata di frequente.

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