domenica 24 aprile 2022

Microrecensioni 111-115: mix di film semisconosciuti, solo 3 più che buoni

Sembra strano che i tre che hanno il 100% di recensioni positive, non sono quelli che mi siano piaciuti. Secondo me l’argentino è sotto ogni aspetto di gran lunga inferiore al coreano che ha solo 83% … meglio non parlare del quinto, guardato solo per curiosità cinefila.

The Net (Geumul) (Kim Ki-Duk, 2016, Kor) tit. it. Il prigioniero coreano

Interessante dramma incentrato su una situazione kafkiana eppure assolutamente credibile e basato su una logica a dir poco perversa. Storicamente i sospetti o accuse infondate e i modi per “appurare la verità” hanno solo portato a violenze fisiche e psicologiche e finanche a torture … ma tali metodi non garantiscono certo la veridicità dei risultati, così come le confessioni forzate. Sullo sfondo degli arcinoti e ancora attuali attriti fra le due Coree si seguono le vicende di uno sfortunato pescatore che con la sua barchetta, a seguito di un problema al motore, viene trascinato dalla corrente oltreconfine. Passando dal nord al sud viene immediatamente sospettato di diserzione dai primi e di spionaggio mascherato con finta diserzione dagli altri. Pur tentando di convincere i servizi del sud della sua buona fede e della volontà di ritornare con la sua famiglia, il pescatore si rende conto che nel caso ci riuscisse dovrà subire simili interrogatori dall’altro lato del confine … comunque vada le prospettive non sono allettanti. Ben realizzato ed interpretato, affrontato più dal punto di vista psicologico che della inevitabile violenza, mostrata senza esagerazioni, merita la visione.

  

  • A Bread Factory: Part One (Patrick Wang, 2018, USA)
  • A Bread Factory: Part Two (Patrick Wang, 2018, USA)

Corposo film diviso in due parti di circa 2 ore ciascuna, di struttura doppiamente teatrale nel senso che oltre alla rappresentazione complessiva con tante inquadrature fisse, all’interno della trama sono inglobate prove e messa in scena della tragedia greca Ecuba, di Euripide, e in questo ricorda il recente vincitore di Oscar Drive My Car (di Hamaguchi) nel quale si preparava Zio Vania di Cechov. Ottimo cast e interessante sceneggiatura che segue parallelamente due argomenti: la gestione del centro culturale (prevalente in Part One) e la produzione teatrale (prevalente in Part Two). Per il primo tema si assiste allo scontro fra la cultura classica (con fondamentali artistici) e l’astratto teatro moderno con proposte spesso prive di contenuti ma con pretese artistiche e con grande interesse al lato economico. Molto interessanti i rapporti sociali e familiari non solo nell’ottica delle votazioni per l’affidamento della gestione del centro culturale, ma anche nella gestione del giornale locale e nella composizione del cast amatoriale per la tragedia greca. Strutturato quasi come una sitcom, con scene a sé stanti di argomenti spesso di diverso interesse: teatro, vita familiare, redazione del giornale, relazioni personali.

 

El perro que no calla
(Ana Katz, 2021, Arg)

Veramente deludente, privo di continuità, consiste in poco più di un’ora di brevi scene nelle quali il protagonista appare sempre in situazioni nuove, in ambienti diversi, in compagnie diverse. Un personaggio remissivo, senza aspirazioni, eppure di buona volontà, che si accontenta di tirare avanti onestamente cambiando mestiere e sostandosi da un lato all’altro dell’Argentina.

Flesh for Frankenstein (Paul Morrissey, 1973, USA/Ita)

Leggendo della mostra attualmente in scena a Napoli su Andy Wharol, mi sono ricordato dei suoi trascorsi cinematografici sia come regista (per lo più di lavori sperimentali), sia come produttore. Uno dei suoi accoliti più fedeli e produttivi della sua The Factory fu Paul Morrissey, che divenne famoso (con il suo attore feticcio Joe Dallesandro) per la sua trilogia Flesh (1968), Trash (1970) e Heat (1972) - che vidi all’epoca e ho reputato assolutamente inutile guardarli di nuovo – ma per curiosità ho voluto guardare questo suo film successivo. Se nei suddetti tre si poteva intravedere una logica e uno stile minimalista, provocatorio e di rottura (tutti film censurati e banditi), questo è semplicemente un pessimo horror, mal pensato e peggio prodotto. Cast pietoso, sceneggiatura e dialoghi assurdi e con effetti di scadentissimo livello ne fanno un film pessimo eppure (come ed insieme agli altri) chissà perché diventai cult (in verità per pochi), con titolo alternativo Andy Warhol's Frankenstein, proposto in Italia come Il mostro è in tavola... barone Frankenstein.

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