martedì 31 maggio 2022

Microrecensioni 151-155: con cinematografie "rare" come Cambogia e Tunisia

In questo ennesimo gruppo eterogeneo anche le altre (Iran e Polonia) non sono fra le più conosciute tranne, ovviamente, la Francia.  

 
Ballad of a White Cow (Maryam Moghadam, Behtash Sanaeeha, 2020, Iran)

Il titolo si riferisce ad una sura del Corano, conosciuta come quella della vacca, metafora di un innocente condannato a morte. Maryam Moghadam è co-regista (esordiente), co-sceneggiatrice e protagonista di questo film dalle tante sfaccettature: pena di morte, errori giudiziari, espiazione, condizione femminile nell’Iran moderno. Finale un po’ a sorpresa, sia per l’essenza che per i modi. Dramma che tuttavia corre quasi al limite del romantico, ma che include una serie di disavventure. Ben girato e interpretato, di buon ritmo, certamente un po’ avvilente per i contenuti, molti dei quali si possono ritrovare anche nelle società occidentali. Dall’Iran, in un modo o nell’altro, continuano a giungere film senz’altro al di sopra della media; questo a Berlino fu candidato al Premio del pubblico e all’Orso d’Oro.

The Last Family (Jan P. Matuszynski, 2016, Pol)

Nella prima parte, se non ci si è informati, non è chiaro dove il regista voglia andare a parare, ma con passare dei minuti il film biografico si fra apprezzare per la buona, seppur oggettivamente difficile, descrizione della famiglia Beksinski. Il capofamiglia Zdzislaw è stato apprezzatissimo fotografo, scultore e pittore specializzato nel surrealismo distopico, universalmente riconosciuto come il più famoso artista polacco della seconda metà del secolo scorso. La vita della famiglia viene proposta come apparentemente normale, in un appartamento di grande condominio dove l’artista vive con la moglie Zofia e con madre e suocera; di tanto in tanto li raggiunge il figlio Tomasz (noto presentatore radiofonico, critico musicale, traduttore e doppiatore), con evidenti problemi psicologici. Ottime le interpretazioni, interessante la fotografia quasi tutta in interni.    

  
Deux jours, une nuit (Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, 2014, Fra)

Marion Cotillard interpreta magistralmente una donna che si trova nel pieno di un dramma personale poiché rischia di perdere il posto di lavoro, ottenendo la Nomination Oscar come protagonista, dopo averlo vinto nel 2008 nelle vesti di Edith Piaf in La Vie En Rose. Nonostante il supporto del (pazientissimo) marito e l’affetto dei due figlioletti, non riesce a staccarsi dagli ansiolitici e ciò non l’aiuta di certo a cercare di convincere i suoi colleghi di lavoro, nel breve tempo di un weekend, a votare per farla rimanere in azienda, rinunciando ad un bonus. Trama per lo più scontata e ripetitiva. Nomination Palma d'Oro a Cannes.

White Building (Kavich Neang, 2021, Cam)

La Cambogia, come paese di produzione, mi mancava … ora ho colmato anche questa lacuna. Il film non è un granché, ma certamente non è da bocciare del tutto. Non per niente a Venezia, nel settore Orizzonti, Piseth Chhun è stato premiato come miglior attore e Kavich Neang candidato miglior regista. Si tratta della storia di una delle tante famiglie che vivono sotto l’incubo di uno sfratto dal grande e malandato condominio (quello del titolo) nel quale hanno vissuto per anni. Ben proposte sia le dinamiche familiari, che i rapporti del vero protagonista (il figlio, Piseth Chhun) con gli amici e le ragazze, nonché le diverse visioni degli altri vicini che, oltre a perdere la casa, si rendono conto che con la piccola somma loro offerta, potranno solo trasferirsi fuori Phnom Penh. Dal mio punto di vista di viaggiatore, interessante anche dare uno sguardo alla Cambogia moderna, ovviamente ancora con molti contrasti fra tradizione e globalizzazione.

Inhebek Hedi (Mohamed Ben Attia, 2010, Tun)

Deludente, per l’ignavia e la falsità del protagonista, oltretutto eterno indeciso, per il ritmo inutilmente lento, per le troppe scene poco illuminate e per l'eccessivo uso delle riprese con l'obiettivo quasi attaccato alla nuca del giovane … soluzione ottima in Son of Saul (2015, László Nemes, premio Oscar) fra la bolgia infernale di reclusi ai lavori forzati, fuori luogo in questo caso. In quanto agli altri personaggi, la madre viene presentata come insopportabile (ma il protagonista se ne sarebbe dovuto accorgere molti anni prima) e l'animatrice troppo vacua e superficiale. In conclusione, sceneggiatura debole, quasi insulsa, e realizzazione scadente. Tutavia, restando in ambito tunisino, mi preme sottolineare che ci sono molti nuovi registi che si cimentano in vari generi e con un certo successo; è il caso di Manele Labidi con la piacevole commedia quasi grottesca Un divan à Tunis (tit. int. Arab Blues, 2019, RT 92%) della quale scrissi un anno e mezzo fa.

giovedì 26 maggio 2022

Microrecensioni 146-150: 2 documentari di gran qualità, 2 buoni film e …

Comincio dai documentari, quello firmato da Wim Wenders insieme con il figlio del fotografo sul quale è incentrata la narrazione è a dir poco eccezionale; l’altro ha grandi meriti, ma solo per i cultori della storia del cinema. I due film dei quali non conoscevo l’esistenza sono risultati più che soddisfacenti, il quinto del gruppo è stato assolutamente deludente.

 
The Salt of the Earth (Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, 2014, Fra/Bra/Ita)

Ottimo documentario, al di là di ogni più rosea aspettativa non solo per la qualità delle immagini ma anche, e forse soprattutto, per la personalità del fotografo (per lo più sociale) brasiliano Sebastião Salgado. Girato quasi interamente in bianco e nero, unisce riprese curate da suo figlio Juliano Ribeiro Salgado e fotografie scattate per lo più in Africa e America Latina, ma non mancano incursioni nella ex Jugoslavia e in Kuwait. Salgado si è sempre interessato molto più alle persone che ai paesaggi, con un occhio particolare alle conseguenze delle guerre, carestie, siccità, migrazioni, povertà, malattie. Come se non fosse bastata la sua collaborazione con Medici Senza Frontiere e missioni ONU, insieme con la moglie si è reso protagonista di un’impresa ecologica a dir poco incredibile. Tornato in Brasile dopo molti anni, il fotografo trovò la grande tenuta di famiglia quasi completamente inaridita e con pochissimi alberi delle foreste che coprivano i 600 ettari di colline ancora in vita. Creò quindi la Fondazione Terra, fece piantare oltre 2 milioni di alberi e ora si è già tornati alle condizioni originali della macchia atlantica. Dopo tanti anni passati portando a termine grandi progetti fotografici sociali della durata di vari anni ciascuno (The Other Americas, Sahel, Workers, Migrations, Exodus, Africa, Genesis, …), questa esperienza ambientale lo portò ad interessarsi anche della fotografia naturalistica e così ha continuato ad andare in giro per il mondo riprendendo trichechi sulle rive dell’Artico, gorilla in Africa, iguana e tanto altro alla Galapagos. 

 
Fra le foto che lo resero famoso nei primi anni della sua carriera fotografica (dopo aver lasciato l’economia) sono quelle della Serra Pelada (in alto un paio di esempi), la famosa miniera d’oro a cielo aperto, una voragine paragonata all’inferno dantesco nella quale operavano fra le 50mila e le 100mila persone, alla quale si interessò anche Godfrey Reggio con il suo documentario Powaqqatsi (1988). Ovviamente, ne consiglio la visione ma … ATTENZIONE! … non è adatto a persone molto sensibili poiché nelle parti dedicate all’Africa si vedono quantità di cadaveri, persone malnutrite al punto di sembrare scheletri viventi. Nomination Oscar e 3 Premi a Cannes.

Perdida (Lost in Time) (Viviana García-Besné, 2009, Mex/Spa)

Interessantissimo documentario per cinefili (in particolare per i conoscitori del cine mexicano), intrigante per gli altri grazie alle tante sfaccettature dei rapporti fra i peculiari membri della famiglia Calderón, dai primi anni del secolo scorso produttori, registi, proprietari di cinema in Messico e Stati Uniti, imprenditori, alcuni in settori al limite della legalità. La regista è discendente dei protagonisti del documentario ma, in apertura, dichiara che le era sempre stata nascosta buona parte della storia della famiglia. Il documentario segue quindi la sua ricerca e scoperta di vecchi filmati familiari, cinema ormai distrutti (ce n’era anche uno da 3.000 posti), locandine, interviste a parenti e altri cineasti.

  
Diva (Jean-Jacques Beineix, 1981, Fra)

Crime molto intricato, con tanti protagonisti che a Parigi si seguono e inseguono, per interessi propri per eliminare prove a proprio carico, o commerciali per una registrazione unica. Chi dovrebbe avere i nastri è un giovane postino che dovrà scappare da poliziotti (corrotti e non), taiwanesi e killer. Affascinanti sono gli spettacolari loft arredati con incredibile creatività, molto singolare l’inseguimento di un motorino Malaguti fra i corridoi della metro, scale, scale mobili e anche nei vagoni. Qui e là, fra inseguimenti, omicidi, esplosioni e minacce, Beineix inserisce alcune inquadrature di ottima fattura, fotografie oserei dire eccezionali. Film d’azione piacevole e d originale, merita una visione.

Monsieur Lazhar (Philippe Falardeau, 2011, Can)

Ottimo film canadese (Nomination Oscar) che riesce a combinare tanti elementi socialmente interessanti ed attuali con molto garbo e attenzione. Si inizia con un suicidio in una scuola, evento che naturalmente lascia i giovani studenti abbastanza scossi, e si continua con l’arrivo di un maestro algerino richiedente asilo politico. Si parla quindi di scuola, metodi di insegnamento, culture diverse, ingerenza delle famiglie nelle attività scolastiche, giudizio per l’accettazione del rifugiato, una certa rivalità fra insegnanti e psicologa, rapporti fra i ragazzini, alcuni dei quali immigrati. Consigliato.

6 donne per l'assassino Blood and Black Lace (Mario Bava, 1964, Ita/Fra/Ger)

Guardato per pura curiosità, sapendo della grande fama che Mario Bava si è guadagnato anche oltreoceano per i suoi horror a budget ridotto. Apprezzatissimo dal famoso regista/ produttore Roger Corman del quale, per certi versi, può essere considerato il suo omologo italiano. Come anticipato, questo film mi ha molto deluso sia per la prevedibilità degli eventi che per le interpretazioni, veramente di scadente livello.

martedì 24 maggio 2022

Microrecensioni 141-145: nuova buona cinquina messicana

Due sono commedie, seppur molto diverse fra loro, e tre sono al limite fra noir e melodramma in quel grande calderone di ficheras e cabareteras. Tutti i film, pur non essendo fra i più famosi della Epoca de Oro del Cine Mexicano, sono di livello più che buono grazie agli affermati registi e apprezzati attori.  

 
Azahares para tu boda (Julián Soler, 1950, Mex)

Gran cast per questo film corale e di impostazione teatrale, con il regista Julián Soler che dirige i suoi tre fratelli Domingo, Andrés e Fernando e altre icone del cinema messicano quali Sara García, Marga López, Joaquín Pardavé e Fernando “Mantequilla” Soto. Tutto si svolge nell’ambito di una agiata famiglia, nel periodo della fine del porfiriato (dittatura di Porfirio Díaz, presidente del Messico del 1876 al 1911). Il capofamiglia deve badare a 3 figlie da sposare, un figlio, irrequieto, un cognato scroccone e imbroglione e a mantenere un certo ordine e decoro nella grande casa nella quale bazzicano pretendenti delle figlie, amici e altri personaggi singolari. La storia si sviluppa in due periodi ben distinti, prima dei matrimoni delle figlie e una decina di anni dopo con il loro rientro con mariti e prole. Per tutti sono fornite ottime caratterizzazioni, rese quasi perfette dalla qualità del cast, che creano infinite occasioni per scontri, drammi, espulsioni, dichiarazioni d’amore, scene divertenti.

Mi desconocida esposa (Alberto Gout, 1958, Mex)

Commedia romantica brillante in puro stile hollywoodiano, la cui star è Silvia Pinal, che pochi anni dopo diventerà famosa nel mondo per essere protagonista di due fra i più famosi film di Buñuel: Viridiana (1961) e El ángel exterminador (1962). Alberto Gout regista di uno dei migliori film dell’Epoca de Oro, il noir caberetero Aventurera (1950), ma anche di Sensualidad (1951) e La sospechosa (1955, di nuovo con Silvia Pinal). La storia in questo caso è contemporanea con enormi appartamenti, hotel e sale da ballo che niente hanno da invidiare ai film americani. Per una serie di incredibili coincidenze ed equivoci (classici delle commedie) una mezza dozzina di persone, che poco o niente si conoscono, si ritrovano a fingere di essere altri. Ovviamente il filo conduttore è la storia d’amore che lentamente si sviluppa fra i protagonisti che inizia con aspri battibecchi per poi essere mal celata ed infine esplodere. Non ha niente da invidiare alle omologhe commedie americane coeve.

   
Ángeles de arrabal (Raúl de Anda, 1949, Mex)

Noir di ficheras del produttore Raúl de Anda (oltre 150 film in una cinquantina di anni), ma anche regista di 40 film. Come anticipato e come spesso accadeva, in questi film si miscelavano vari generi: crime (qui furto con refurtiva nascosta e scontri fra gangster), melodramma (riunione di madre e figlio e commissario che corteggia artista), spettacolo (cantante di cabaret, purtroppo per lei gran bevitrice di tequila), la cattiva fine dei prepotenti e non da ultimo l’onore, tutti argomenti che appassionavano il pubblico. Qui la particolarità è il difficilissimo rapporto fra le varie donne protagoniste, lasciando un po’ in secondo piano gangster e polizia.

Soledad (Miguel Zacarias, 1947, Mex)

Film drammatico solo parzialmente de ficheras che vede l’argentina Libertad Lamarque nei panni di una giovane di campagna che, sedotta e abbandonata dal figlio di un possidente, si riduce poi a diventare fichera per mantenere la figlia dalla quale però si allontana per poi ritrovarla una ventina di anni dopo, quando sarà diventata tutt’altra artista, acclamata nei cabaret di classe e non semisconosciuta cantante di cabaret familiar di terza categoria.

Angélica (Alfredo B. Crevenna, 1952, Mex)

Quest’altra pelicula de ficheras tende più al melodrammatico. Per una sfortunatissima casualità la protagonista viene incastrata da un gangster che con incredibile prontezza di spirito la convince di poterla ricattare e quindi la costringe a lavorare nel suo cabaret. L’attività di ficheras era quasi sempre abbinata a probabile prostituzione e la giovane e sprovveduta ragazza dovrà scegliere fra l’amore (a patto di confessare la sua attività senza la certezza di essere accettata) e la rinuncia allo stesso, a meno di affrontare il suo ricattatore. La situazione è in effetti al limite del credibile, tuttavia ben congegnata partendo dal presupposto della quasi cecità dell’amato. Finale un po’ confuso e, oggettivamente, la scelta della giovane sembra essere quella meno sensata.

giovedì 19 maggio 2022

Microrecensioni 136-140: interessante mix, con punti in comune

Due ottimi classici poco visti del 1963, i primi due film di Joachim Trier (recentemente assurto a notorietà internazionale con la Nomination Oscar per The Worst Person in the World) e un buon franco-alemanno, ancorché un po’ deludente.

 
Le feu follet (Louis Malle, 1963, Fra)

Tratto dall’omonimo romanzo del 1931 di Pierre Drieu la Rochelle, tratta dei tormenti di un giovane uomo appena disintossicatosi. Combattendo la solitudine e alla ricerca di una ragione di vita, Alain (Maurice Ronet) ritorna per un giorno a Parigi nel tentativo di tornare alla normalità; ma il fatto di rincontrare i suoi amici parigini e frequentare i soliti locali sembra non aiutarlo minimamente. L’ambiente è quello dell’alta società e della cultura, nel quale il protagonista si rivela essere stato personaggio conosciuto e ricordato con affetto anche da personale di albergo, bar e ristoranti … forse gli unici veramente sinceri. Interessante anche se deprimente, teatrale, ottimamente interpretato, profondo. Unanimemente giudicato uno fra i migliori film di Malle, così come una delle migliori interpretazioni di Ronet. Premio speciale della Giuria, Premio Pasinetti e Nomination Leone d’Oro a Venezia.

I basilischi (Lina Wertmuller, 1963, Ita)

Un classico cult italiano, opera prima di Lina Wertmuller (con esperienza di aiuto regista di Federico Fellini per il film ) che, ispirata anche dal maestro, già metteva in mostra il suo stile satirico al limite del grottesco, attentissima alla vita di provincia fatta di stereotipi regionali nonché alla parlata (ma senza esagerare), alle tradizioni ancestrali e ai personaggi particolari. Il merito è certamente tutto suo essendo non solo regista ma anche autrice unica di soggetto e sceneggiatura. L’ambiente è quello di una cittadina dell’entroterra pugliese, al confine con la Basilicata, con economia indissolubilmente legata all’agricoltura. E un film tutto da vedere e da ascoltare, con dialoghi sagaci e divertenti, senz’altro realistici. Da non perdere.

  
Oslo, 31. August (Joachim Trier, 2011, Nor)

Seppur più vagamente, anche questo film di Trier (niente a che vedere con il danese Lars von Trier, co-fondatori di Dogma 95 con Thomas Vinterberg) si ispira a Le feu follet, ma la scena è quella di una Oslo di un decennio fa, con tanti giovani che sembrano ancora indecisi sul loro futuro e poco soddisfatti delle loro esperienze. Anche in questo caso tutti gli eventi sono raccolti in una giornata (da cui il titolo) raccontati attraverso gli incontri di un giovane che, avendo un giorno di permesso dal centro di recupero dove ha trascorso gli ultimi mesi, torna in città per incontrare amici, conoscenti, ex, vecchie fiamme. Non una grande presentazione dei giovani norvegesi, che appaiono per lo più superficiali e disillusi; questi sono argomenti ricorrenti nei 3 dei soli 5 film di Trier che ho visto (dei quali è anche sceneggiatore) ed è lecito supporre che anche gli altri due trattino temi simili. L’impressione è che questa monotematicità sia un suo limite, mentre è assolutamente da apprezzare per il suo modo di filmare, con grande e buon uso di macchina a mano, piani ravvicinati, montaggio rapido. Cimentandosi in altro tipo di produzioni e affidandosi ad altri sceneggiatori potrebbe guadagnarci molto. Tornando al soggetto, risulta certamente perdente nel confronto con l’adattamento di Luis Malle.

Reprise (Joachim Trier, 2006, Nor)

Questo fu l’esordio di Trier e, come appena scritto, anche in questo caso i protagonisti sono due giovani pieni di aspirazioni, ma anche di dubbi, certamente molto entusiasti ma altrettanto insicuri. I due sono aspiranti scrittori che perseguono i loro ideali, hanno i loro autori di riferimento, vengono spesso quasi derisi dai loro conoscenti. Anche in questo caso i giovani hanno problemi di alcool e droga ma risaltano anche l’ipocrisia e la cattiveria. Come spesso accade fra artisti, pseudoartisti ed aspiranti artisti, l’euforia di momentanei e improvvisi successi si alterna con la depressione e l’incapacità di produrre.

Transit (Christian Petzold, 2018, Ger/Fra)

In un certo senso la trama ricorda l’essenza del famoso Casablanca (1942, Michael Curtiz), fra persone in fuga da un regime dispotico, lasciapassare, passaporti falsi, biglietti per espatriare. L’intreccio degli incontri, le casualità, i personaggi appena accennati che ricompaiono all’improvviso, i tanti twist che continuano fino all’ultima enigmatica scena sono certamente un valore aggiunto per la sceneggiatura. Questo è un adattamento (curato dallo stesso regista) dell’omonimo romanzo di Anna Seghers del 1944; ardito in quanto la scena è trasposta a tempi moderni, con fantomatici invasori della Francia, la maggior parte delle persone in fuga lasciano Parigi e le città del nord per ritrovarsi a Marsiglia in attesa di una fuga via nave verso i paesi di oltreatlantico. Non ho gradito la frequente narrazione con voce fuori campo, oltretutto di nessuno dei protagonisti … una soluzione che non mi è mai piaciuta, appena tollerata nei classici noir americani per i quelli veniva usata di frequente.

sabato 14 maggio 2022

Microrecensioni 131-135: 10 Asian-American movies (6-10)

Seconda cinquina dei 10 film scelti dalla classifica Rotten Tomatoes The 81 Best Asian-American Movies (vedi post del 7 maggio).

Searching (Aneesh Chaganty, 2018, USA)

Film veramente sui generis, con storia narrata quasi esclusivamente attraverso schermate di cellulari e laptop. Ero abbastanza perplesso prima di affrontarne la visione ma i più che buoni rating (7,6 su IMDb e 91% RT) mi hanno convinto e non me ne sono assolutamente pentito. Ottimo thriller, con tanti twist, eventi, deduzioni e sospetti derivanti dalla spasmodica ricerca di indizi e tracce per ritrovare una 16enne misteriosamente scomparsa. Il padre riesce ad accedere alle pagine, chat e account della ragazza attraverso il computer lasciato a casa e, da un certo punto in poi, è affiancato da una detective della polizia, specializzata nella ricerca di persone scomparse. Attraverso messaggi testuali e vocali, registrazioni di dirette, video YouTube, telefonate, email e rubriche, agli spettatori vengono fornite le stesse informazioni a disposizione del padre, in contemporanea. Fino alla fine ognuno potrà fare le sue illazioni, spaziando fra rapimento, allontanamento volontario, incidente e altre ipotesi. Un minimo di conoscenza in merito all’uso di smartphone, laptop, app e social facilita la visione e la rende ancor più interessante, dando quasi l’idea di partecipare alle ricerche. Questo è il film di esordio di Aneesh Chaganty (classe 1991, di origini indiane ma nato in USA), geniale giovane che a 23 anni realizzò uno spot per Google Glass, subito virale con un milione di visualizzazioni nelle prime 24 ore. Subito ingaggiato dal Google Creative Lab di New York, per un paio di anni si è dedicato ai corti prima di scrivere e dirigere Searching. Per varie versioni straniere (inclusa quella italiana) sono state replicate nei relativi idiomi tutti le chat e schermate ma chi ne volesse usufruire dovrà sorbirsi il solito pessimo doppiaggio …

 
Columbus (Kogonada, 2017, USA)

Molto lento ma interessante e girato con gran gusto e tecnica. Kogonada è in effetti più saggista e critico cinematografico che regista, regolare collaboratore della rivista Sight & Sound di The Criterion Collection, che in questo suo primo lungometraggio (del quale è anche sceneggiatore e responsabile del montaggio) si diletta a dividere nettamente le inquadrature con tante linee ben definite, spesso nascondendo i protagonisti che stanno parlando o duplicandoli con sapienti giochi di specchi. Fa anche scoprire agli spettatori molti dei peculiari edifici modernisti per i quali la città di Columbus (Ohio, USA) è nota nel mondo dell’architettura e per questo detta “la Mecca del Midwest per l’architettura”. Indiscutibilmente un art house film vale a dire di quelli, di solito indipendenti, diretti a un pubblico di nicchia; “lavori seri, artistici e spesso sperimentali non destinati alle masse”, “prodotti soprattutto per fini estetici e non commerciali”.

Driveways (Andrew Ahn, 2019, USA)

Film quasi rohmeriano, basato sui rapporti interpersonali fra persone che poco si conoscono, di differenti culture ed età. Una giovane madre single di origini indocinesi con suo figlio di 9 anni si trova a dover svuotare e ripulire la casa di sua sorella, appena deceduta e con la quale aveva pochi rapporti. La cosa non è semplice in quanto si rende subito conto che era una hoarder (accumulatrice seriale, compulsiva) che aveva riempito ogni stanza di oggetti accatastati. Nei pochi giorni di permanenza i due avranno a che fare con vicini socievoli e non, fra i quali spicca il veterano Del (Brian Dennehy, deceduto prima dell’uscita del film) che un rapporto particolare con il ragazzino. Ben realizzato e interpretato, ma sappiate che non c’è quasi azione … come nei film di Rohmer.

 
Crazy Rich Asians (Jon M. Chu, 2018, USA)

Commedia divertente solo a tratti, che pone in ridicolo le manie di grandezze di una famiglia di Singapore e del loro entourage. Un’americana (seppur di origini cinesi) si trova in mezzo a quella banda di giovani orientali straricchi e scatenati e meno giovani fuori di testa e viene bullizzata quasi da tutti per non essere considerata del loro stesso livello (ricchezza).

Gook (Justin Chon, 2017, USA)

Ben filmato con tanta camera a spalla e in bianco e nero, purtroppo con una sceneggiatura scadente e scadenti dialoghi (si possono definire cosi brevi scambi di battute per lo più pieni di f**k e f**king?). Oltretutto i due fratelli coreani protagonisti appaiono come degli assoluti imbecilli e ci si chiede come abbiano potuto mantenere la loro attività di commercio di scarpe, considerato anche il fatto che siano continuamente bullizzati da un gruppetto di balordi afroamericani. A ciò si aggiunge che il contrasto non è solo fra i rappresentanti delle due comunità ma anche fra di loro, seppur parenti stretti. Per bocca di un anziano commerciante coreano e della sorella undicenne di uno dei delinquenti (la vera protagonista, ben interpretata da Simone Baker) vengono fuori considerazioni sul razzismo fra i non-bianchi, che pure esiste anche se raramente se ne parla.

lunedì 9 maggio 2022

Microrecensioni 126-130: 10 Asian-American movies (1-5)

Le famiglie asiatiche protagoniste (con le loro culture) di questo gruppo sono cinesi (per i due film di Wayne Wang), indiane (2 di Mira Nair) e afghane (in questo caso regista americano ma sceneggiatura “afghana”). I migliori della cinquina, che su IMDb ha rating medi 7,3 e 91% su RT, sono senz'altro The Joy Luck Club The Big Sick, sotto ogni punto di vista, e per questo ne consiglio la visione.

 
Chan is Missing (Wayne Wang, 1982, USA)

Si tratta di film indipendente, con minimo budget e per questo girato a 16mm, solo successivamente ingrandito a 35mm per le sale. Si tratta del primo lungometraggio diretto dal solo Wang e tratta di due amici tassisti che vorrebbero recuperare una certa somma dal Chan del titolo. Le discussioni fra i due sono a volte esilaranti, specialmente quando tentano di giustificare e spiegare i modi di pensare e di agire dei loro compaesani che popolano la Chinatown di San Francisco. Col passare degli anni, è diventato un cult.

The Joy Luck Club (Wayne Wang, 1993, USA)

Molto articolato e ben più lungo di Chan is Missing, vanta un ricco cast di ottimo livello, narrando le storie di quattro amiche cinesi (nate e cresciute in Asia) e delle loro figlie nate in America. Le prime conservano molto della mentalità cinese e sono ancora condizionate dagli eventi sofferti prima di emigrare, che comprendono anche infanticidi, suicidi, abbandoni, divorzi e matrimoni combinati. Questi loro trascorsi vissuti in Cina, per lo più tragici anche se spesso in famiglie più che abbienti, sono narrati in flashback con belle scenografie e costumi. Le loro esperienze in un modo o nell’altro condizionano i rapporti talvolta quasi morbosi con le figlie che, essendo quasi del tutto americanizzate, vivono situazioni di amore/odio con le proprie madri. Nel corso di tutto il film si apprezzano (oltre alle solite appetitosissime tavole imbandite con una gran varietà di pietanze) le nette differenze di accento fra gli adulti (immigrati) e i giovani che si sentono americani a tutti gli effetti.

  
The Big Sick (Michael Showalter, 2017, USA)

Curiosa la storia di questo film, quasi autobiografico per Kumail Nanjiani, sceneggiatore che ricopre anche il ruolo di protagonista (praticamente sé stesso): un comedian afghano, ma nato in USA. Figlio di uno psichiatra, è quasi oppresso dalla madre che vorrebbe che sposasse una brava afghana di famiglia tradizionale e di comprovata fede e per questo invita regolarmente a cena possibili spose. Ovviamente le cose non vanno come i genitori vorrebbero e il flirt con una ragazza americana avrà sviluppi del tutto imprevisti (sostanzialmente veri). Questa commedia ha i suoi momenti migliori nei rapporti del protagonista sia con i suoi familiari che con i genitori della ragazza, che da soli valgono la visione, mentre le parti strettamente romantiche e gli stralci degli spettacoli (comici?) sono di media banalità ma non proprio malvagie. Proprio per le argute e credibili (anche se apparentemente incredibili) scene familiari, ottenne la Nomination Oscar per la sceneggiatura originale.

The Namesake (Mira Nair, 2006, USA)

Non lo inserirei fra i migliori della regista indiana che si fece conoscere con il drammatico Salaam Bombay! (1988, Nomination Oscar, premiato a Cannes) e poi ottenne grande successo di pubblico con la dramedy Monsoon Wedding (2001, premiato a Venezia). Tuttavia, il film ha i suoi meriti nonostante una storia che si sviluppa nell’arco di vari decenni fra India e Stati Uniti. Come quasi sempre accade, le nuove generazioni nate in USA non la pensano come i genitori e i contrasti sorgono per modi di vita, aspirazioni e compagnie.

Mississippi Masala (Mira Nair, 1991, USA)

Secondo film di Mira Nair, il primo girato in USA. Si differenzia dal resto perché aggiunge ai soliti problemi di integrazione degli immigrati asiatici, quelli dei rapporti con gli afroamericani discendenti degli schiavi portati a forza dall’Africa. Per complicare le cose, i membri della famiglia di etnia indiana (ma nati in Uganda) giungono in Mississippi dopo essere stati costretti a lasciare il paese dal dittatore Amin (1972, espulsione di tutti gli asiatici). Quindi, i contrasti familiari si sviluppano fra gli afroamericani (che certo non hanno avuto vita facile negli stati del sud) e asiatici cacciati dall’Africa secondo la teoria di Amin che quel continente dovesse essere solo per i Black Africans. A nulla valgono le idee di fratellanza portate avanti da qualche protagonista che sostiene che loro sono tutti in contrasto con i bianchi mentre loro, così come i gialli, sono tutti colored e quindi nella stessa barca. Argomenti interessanti, ma trattati troppo superficialmente in questa dramedy.

sabato 7 maggio 2022

I migliori film asiatico-americani, secondo RT

Rotten Tomatoes ha da poco pubblicato una di quelle famose liste che, pur lasciando il tempo che trovano, sono utili per indirizzare i cinefili in settori specifici, in questo caso The 81 Best Asian-American Movies


Saranno anche i migliori ma una buona metà sono sotto l'80%, con rating su IMDb similmente non troppo promettenti. Fra quelli nella parte alta della classifica, tolti alcuni già visti come Minari (Oscar + 5 Nomination), The Wedding Banquet (Nomination Oscar), The Farewell, Lucky Grandma, sono comunque riuscito a trovarne 10 che mi hanno convinto e sono disponibili in rete e quindi costituiscono questa e la prossima cinquina.

Alla base ci sono tradizioni familiari, banchetti, religioni, matrimoni combinati, anche se nella maggior parte dei casi certamente non forzati ma “proposti” dai genitori (vedi The Big Sick). Per quanto riguarda le famiglie provenienti dal subcontinente indiano si apprezza anche il valore dell’orgoglio degli abiti tradizionali, specialmente per gli spesso coloratissimi sari delle donne, indossati in casa così come in ogni occasione sociale. Le sfarzose feste di matrimonio, quando influenzate dalla cultura occidentale, raggiungono picchi talvolta eccessivi ma sempre rispettosi degli elementi essenziali specialmente negli abbigliamenti degli sposi, nel nascondere il volto fino al culmine della cerimonia, per non parlare degli indispensabili sette giri camminando insieme vicino al fuoco sacro.

La maggior parte dei film multietnici evidenziano le differenze culturali e spesso queste sono alla base della trama e in particolare se si tratta di film romantici, comedy o dramedy che siano. Si deve riconoscere che spesso ci sono delle esagerazioni nei cliché, ma è altrettanto vero che i registi e sceneggiatori asiatici sanno anche ridere di sé stessi, delle proprie etnie e delle difficoltà che si incontrano nei rapporti con gli americani (in questa serie di film) non solo per preconcetti e razzismo ma anche per semplici motivi pratici. Oltre a quelli relativi a tradizioni, stili di vita e alimentazione, ce ne sono anche di derivanti dal modo di pensare e ragionare e alcuni di essi sono spiegati con scene e dialoghi espliciti, come per esempio fa Wayne Wang in Chan is MissingRisalta anche l’importanza del cibo nelle cene conviviali, sia per i cinesi che indiani, e la sola visione di quelle tavole coperte da un mare di piatti con una gran varietà di pietanze non può che ingolosire e l’acquolina si spreca.

 
Altra caratteristica onnipresente è quella dell’evidente contrasto fra l’accento degli immigrati e quello dei loro figli nati e cresciuti in USA, ma per apprezzarlo è indispensabile l’audio originale (accontentatevi dei sottotitoli, altrimenti vi perdereste molto). Dove i protagonisti sono indiani o pakistani i più attenti (e chi ha già avuto contatti con tali etnie) non potrà fare a meno di notare il frequente e caratteristico movimento ondulatorio della testa, in inglese detto Indian head shake, bobbling o wobbling. Nel breve video che segue si apprezzano non solo vari modi di scuotere la testa (praticamente adatti a qualunque situazione) ma anche alcune peculiarità della pronuncia indiana come le w che diventano molto simili alle v e le t alle d, mentre le r a inizio di parola vengono rollate e accentuate, se non quasi raddoppiate, come in castigliano.

In sostanza nelle sceneggiature, alcune delle quali effettivamente tanto buone da ottenere candidature Oscar, i culture clash (scontri o contrasti di culture) rivestono sempre un ruolo importante se non fondamentale. Ciò fa di questi film un ottimo metodo per imparare alcuni principi alla base dei modi di vita di popoli di tutto il mondo (in questo caso asiatici) e quindi facilitare i soggiorni all'estero e prevenire atteggiamenti che, anche se derivanti dalle migliori intenzioni, possono seriamente offendere gli interlocutori. Per esempio quando Clint Eastwood innocentemente tocca la testa della bambina Hmong in Gran Torino (2008) ... guardate le espressioni degli astanti alla fine del clip.

martedì 3 maggio 2022

Microrecensioni 121-125: altri 3 To (HK) e 2 Huezo (Mex)

Ai quattro film di Johnnie To (icona del cinema di Hong Kong) inseriti nel precedente gruppo, ho aggiunto questi tre presentati a Cannes, uno candidato alla Palma d’Oro, gli altri due fuori concorso. Negli anni successivi altri 3 suoi film arrivarono al Festival e nel 2011 il regista fece parte della giuria. Tatiana Huezo è invece nativa di El Salvador, ma residente in Messico, molto impegnata sul fronte della giustizia sociale e diritti delle donne, fra narcos e corruzione della polizia. Nel complesso si tratta di una buona cinquina, anche se per quasi ogni film ci sono luci e ombre.

 
Tempestad (Tatiana Huezo, 2016, Mex)

Documentario che riporta tragiche storie parallele di donne, attraverso la narrazione con voce fuori campo e immagini non sempre connesse all’esposizione dei fatti. Una è arrestata ingiustamente come capro espiatorio e mandata dallo Yucatan all’estremo nord del paese, a 2.000km di distanza, in una specie di carcere gestito dalla malavita. Un’altra, di famiglia circense composta per lo più da donne, racconta della sua vita, dell’istruzione delle figlie e del rapimento di una di queste. In pratica storie estremamente serie, quasi raccapriccianti, ascoltate dalla viva voce delle protagoniste, ma troppo lentamente, con lunghe pause. Contemporaneamente le immagini descrivono altri ambienti, persone in viaggio, campi, strade … Ai Festival ha ottenuto una quindicina di riconoscimenti internazionali e altrettante Nomination; vanta un buon 7,8 su IMDb e 95% su RT.

Noche de fuego (Tatiana Huezo, 2021, Mex)

Primo lungometraggio fiction della Huezo, dopo i due apprezzati documentari El lugar más pequeño (2011, sulla guerra civile in El Salvador) e il succitato Tempestad. Si sviluppa in due momenti diversi in un piccolo villaggio di montagna i cui abitanti sono vessati dagli uomini dei cartelli. Le protagoniste sono tre amiche, bambine nella prima parte, adolescenti nella seconda. Le donne che non sono rapite dai narcos sono al loro servizio come raccoglitrici di oppio e per questo godono di una relativa protezione. Il film resta sospeso fra il dramma della vita nella terra dei narcos e il coming of age, ovviamente molto difficile in quelle aree. Anche questo è stato molto apprezzato ai Festival ottenendo 17 Premi (fra i quali Un Certain Regard Award a Cannes) e oltre 20 Nomination; ha 7,3 su IMDb e 96% su RT.

  
Breaking News (Johnnie To, 2004, HK)

L’idea di base è molto originale e più che valida ma, purtroppo, non sviluppata nel migliore dei modi. Dopo un violento scontro a fuoco fra polizia e malviventi (per caso ripreso dalle tv) i secondi si rifugiano in un grande condominio, che viene ben presto circondato. Le prime immagini mostrano un poliziotto che alza le mani implorando pietà, causando un mare di critiche in merito all’inefficienza della polizia. Per riparare a questo danno mediatico si decide di mostrare tutte e fasi successive organizzando un contro-show. I problemi (per il film) sorgono da questo punto in poi per situazioni poco plausibili, blocchi mancati, tante scale affrontate di corsa andando su e giù e, infine, centinaia di colpi che, pur da breve distanza, non vanno a segno. Cast convincente ma sceneggiatura scadente e lacunosa …

  • Election (Johnnie To, 2005, HK)
  • Triad Election (Johnnie To, 2006, HK) aka Election 2

Questi due noir/crime di To sono di tema identico essendo entrambi incentrati sull’elezione di una stessa triade a due anni di distanza e quindi propongono una certa continuità di trama e molti personaggi in comune. Rispetto agli altri crime menzionati nel gruppo precedente, presentano stile molto diverso ma, secondo me, non migliore. Se prima si procedeva con molta tensione e poca azione, riservando questa quasi esclusivamente alle scene finali, in questi c’è tanta violenza (direi un eccesso) e una continua serie di tradimenti e cambi di casacca che rendono la storia abbastanza confusa. Specialmente nel sequel in alcuni momenti sembra di star guardando più uno splatter che un normale crime nell’ambiente delle triadi cantonesi.