martedì 30 agosto 2022

Microrecensioni 251-255: neonoirs, 4 di David Lynch

Cineasta apparentemente poco prolifico, con appena 12 lungometraggi (10 con sua sceneggiatura) dal ’77 ad oggi, ma al contrario non lo è assolutamente se si aggiungono una trentina di corti e le tante serie televisive, la più nota delle quali è Twin Peaks e la più recente Weather Report (ben 152 episodi), ma è anche annunciata Unrecorded Night della quale sono già pronte 13 puntate. Caratteristiche di David Lynch sono le sempre ottime colonne sonore, di vario genere, ma con pezzi sempre molto ben scelti, la fotografia molto curata con gran prevalenza di sfondi scuri, non disdegna certo parti erotico-sensuali, il montaggio molto meticoloso che riesce a mettere insieme le storie principali con vari sub-plot che talvolta, a prima percezione, sembrano aver ben poco a che fare con i protagonisti. In quanto a violenza, humor nero e spargimenti di sangue talvolta viene accostato a Quentin Tarantino ma rispetto a questo è certamente molto più elegante e raffinato. Certamente differenti per struttura e (sottilmente) genere, tutti e 4 i film di Lynch meritano la visione.

 
Mulholland drive (David Lynch, USA, 2001)

Comunemente riconosciuto come miglior film di Lynch, per quanto enigmatico e criptico possa essere … Nomination Oscar per la regia, miglior film dell’anno e del decennio per Cahiers du Cinéma, miglior regia (alla pari con The Man Who Wasn't There di Joel Coen) e Nomination Palma d’Oro a Cannes e un’altra 50ina di Premi e altrettante nomination. Cinematografia molto raffinata per una storia che ha fatto scervellare parecchi spettatori nel tentativo di mettere insieme i vari pezzi della storia, i particolari e personaggi sparsi qua e là, che apparentemente scompaiono e poi riappaiono, a volte con altri nomi e differenti ruoli. Non a caso in rete si trovano tante pagine dedicate specificamente all’interpretazione del film, ma non mancano voci discordanti … certamente una sceneggiatura molto interessante ma che lascia perplessi, specialmente alla prima visione. Un film da non perdere, ma per apprezzarlo lo si deve guardare con grande attenzione altrimenti veramente non si capisce niente!

Blue Velvet (David Lynch, USA, 1986)

Indagine personale di un intraprendente (aggiungerei molto imprudente) giovane che coinvolge nella sua fissazione per la ricerca della verità la figlia di un detective e si trova a doversi confrontare con pericolosi criminali. La parte investigativa avvicina il film al genere crime anche se il coinvolgimento della polizia è marginale. Sceneggiatura come al solito sorprendente, nella quale si inseriscono personaggi molto particolari, interpretati brillantemente da Isabella Rossellini, Dennis Hopper e Dean Stockwell. Nomination Oscar per la regia

   
Wild at Heart (David Lynch, USA, 1990)

Questo è più vicino al genere dark comedy che vero e proprio neo noir. Essendo popolato da personaggi a dir poco grotteschi a cominciare da quello del sempre bravo Willem Dafoe. Il cast comprende anche Diane Ladd (Nomination Oscar non protagonista), Harry Dean Stanton, di nuovo Isabella Rossellini e Laura Dern (che anche qui non convince) e Nicolas Cage (interpretazione veramente scadente, come spesso gli accade). Due giovani amanti vengono perseguitati dalla madre di lei, assolutamente contraria al rapporto, apparentemente solo per mancanza di stima ma pian piano nel corso del film verranno alla luce ben altri motivi. Palma d’Oro a Cannes

Lost Highway (David Lynch, USA, 1997)

Incentrato su storie parallele, vale a dire classico caso di doppelganger o sosia (entrambe interpretate da Rosanna Arquette). Al limite del surreale e fantasy, fra i piccoli ma fondamentali ruoli cari a Lynch troviamo un misteriosissimo personaggio interpretato dal piccoletto Robert Blake che ebbe il suo breve periodo di gloria una cinquantina di anni fa come protagonista del primo adattamento del noto lavoro di Truman Capote In Cold Blood (1967, Richard Brooks, 4 Nomination Oscar) e poi con Electra Glide (1973, James William Guercio, Palma d’Oro a Cannes). Il film si sviluppa quindi quasi con due cast differenti e storie apparentemente ben distinte se non fosse per la straordinaria somiglianza delle due giovani donne e il “personaggio misterioso”. Terzo miglior film dell’anno per Cahiers du Cinéma.

To live and die in L.A. (William Friedkin, USA, 1985)

Questo è stato il primo della cinquina, l’avevo visto vari decenni fa e avevo curiosità di guardarlo di nuovo, ma alla fine sono rimasto deluso, lo ricordavo migliore. William Friedkin non è certo regista da poco avendo diretto The French Connection (aka Il braccio violento della legge, 1971, 5 Oscar e 3 Nomination) e The Exorcist (1973, 2 Oscar e 8 Nomination), ottenendo l’Oscar nel primo caso ma solo la Nomination nel secondo. Questo poliziesco si presenta però come un’americanata con inseguimenti impossibili nel famoso L. A. River (attualmente un grande canale cementato, visto in tanti film) e lungo le autostrade di Los Angeles, anche contromano nonostante il traffico. I detective protagonisti si comportano spesso in modo insulso e vista la loro incapacità ci si meraviglia come siano ancora vivi, visto che hanno a che fare con criminali senza scrupoli della peggior specie. Si può evitare la visione.

giovedì 25 agosto 2022

Microrecensioni 247-250: video-saggi e film della New Wave ceca

Dando un’occhiata ai documentari proposti nella pagina dell’ottimo Lascia stare i santi (già recensito nel post precedente) mi avevano colpito due titoli, già originali di per sé e anche molto ben quotati (7,8 e 7.6 su IMDb e 87 e 93% su RT); scorrendo alcune scene del secondo per valutare la qualità del video ed avere conferma della sostanza, sono incappato nella citazione delle due commedie ceche di Milos Forman che ottennero la candidatura all’Oscar (ultime regie in patria prima di emigrare negli USA), che quindi ho provveduto a recuperare.

 
  • The Pervert's Guide to Cinema (Sophie Fiennes, UK, 2006)
  • The Pervert's Guide to Ideology (Sophie Fiennes, UK, 2012)

Anche se ufficialmente vengono categorizzati come documentari, io li definirei video-saggi, fra filosofia e psicoanalisi del cinema. Le considerazioni sono enunciate dallo stesso Slavoj Zizek, filosofo e psicoanalista sloveno autore e interprete del lungo monologo che nel primo lavoro si alterna a un centinaio di scene di una quarantina di film, con particolare attenzione ad alcuni di Hitchcock, Lynch, Tarkovskij e Bergman (dei quali appaiono numerose clip) ma vengono presi in considerazione anche i fratelli Marx, Chaplin, un insolito cartoon del 1935 della Disney e altri. L’attenzione è rivolta soprattutto ai rapporti di potere, sesso, erotismo e all’analisi del linguaggio cinematografico, proponendo capovolgimenti delle interpretazioni più comune e immediate e facendo numerosi riferimenti alle teorie freudiane. Forse perché (relativamente) più facilmente comprensibili e pratici, ho trovato molto più interessanti i commenti filosofici che non quelli psicoanalitici.

Nel secondo, l’analisi si concentra su temi più generali e universali quali (fra gli altri) religioni e dittature, quindi controllo e manipolazione delle masse, utilizzando come esempi un minor numero di spezzoni di film. Più volte la regista Fiennes utilizza so schermo nero e ci si concentra solo sulla voce di Zizek che invece, quando appare in scena, attira l’attenzione per la sua particolarissima parlata e gestualità. Altra curiosità (valida per entrambi i video-saggi) e quella di riprendere il filosofo negli stessi set dei film, o almeno ricostruiti quanto più fedelmente possibile. Tutti e due sono molto interessanti, ma per essere apprezzati e godibili è indispensabile conoscere almeno parte della materia, vale a dire o essere discreti cinefili (che dovrebbero conoscere buona parte dei film citati) o avere discrete basi nel campo della filosofia e/o psicoanalisi (p.e. id, ego e super-ego).

 
  • Loves of a Blonde (Milos Forman, Cze, 1965)
  • The Firemen's Ball (Milos Forman, Cze, 1967)

Si tratta di due commedie (entrambe candidate Oscar), più leggere che drammatiche, senz’altro palesemente satiriche. Milos Forman prende sottilmente in giro la società ceca dell’epoca, imbrigliata fra i suoi falsi perbenismi e burocrazia, attaccamento alle tradizioni e voglia di modernità.

Il soggetto del primo, come intuibile dal titolo, è legato ad una ragazza che viene corteggiata prima da riservisti non proprio giovanissimi e poi da un giovane musicista di Praga. Praticamente il film in poco meno di un’ora e mezza propone solo due situazioni; nella prima tutto ruota attorno ad una festa organizzata per far incontrare le ragazze nubili della cittadina con dei riservisti, inviati lì nel tentativo di riequilibrare la popolazione a gran prevalenza femminile e nella seconda la scena è di tema completamente diverso in casa del ragazzo praghese con i fantastici battibecchi fra e con i genitori.

Il secondo è invece interamente ambientato a margine di una movimentatissima festa in onore di un pompiere in pensione, per consegnarli un premio alla carriera. I quasi incapaci membri del comitato organizzatore avranno il loro bel da fare per portare a conclusione la serata da ballo, fra piccoli furti, intoppi vari e la gestione di un disorganizzatissimo concorso di bellezza.

domenica 21 agosto 2022

Microrecensione 246 * Lascia stare i santi (2016)

Microrecensione 246 
Lascia stare i santi 
(Gianfranco Pannone, Ita, 2016)

Interessantissimo documentario, collage di spezzoni estrapolati da decine e decine di altri documentari e da filmati dell’Istituto Luce, alcuni di oltre un secolo fa. Il tema principale, ovviamente, è la religiosità popolare, con un misto di processioni, feste patronali, riti propiziatori di derivazione pagana, balli e canti di accompagnamento, attività tradizionali relative all’agricoltura e alla pesca. Ma i punti di interesse non finiscono qui … sono affascinanti le riprese effettuate nelle case, con una marea di bambini che dividono un misero pasto con i genitori, un matrimonio, una mattanza della tonnara di Favignana, la tammurriata alla Madonna dell’Avvocata, i balli e la musica. La colonna sonora comprende non solo molte registrazioni originali ma anche altri pezzi scelti e/o composti da Ambrogio Sparagna. La fotografia è apprezzabile nel suo complesso (lavoro di tanti differenti cineasti) in quanto riesce a mettere in risalto i volti di bambini paffuti e sorridenti, così come quelli rugosissimi di anziane e anziani, giovani madri e lavoratori; ogni primo piano racconta una storia, o almeno ce la fa immaginare. Il documentario è arricchito dalla lettura di testi di PasoliniSiloneSoldatiGramsciDe Seta e altri autori da parte di Sonia Bergamasco e Fabrizio Gifuni.

Poche sono le riprese a colori, spesso alternate a quelle di decenni prima in bianco e nero, come nel caso della processione dei serpari a Cocullo (AQ), in occasione della festa di San Domenico, classico esempio di antico rito pagano adattato alle ragioni della Chiesa. Qui come in molte altre manifestazioni pseudoreligiose, è evidente la sottilissima linea divisoria fra fede e superstizione e la frequente prevalenza della devozione verso i Santi, più che a Madonne, Gesù e Dio stesso.


I lunghi titoli di coda comprendono l'elenco di tutti i video dai quali sono stati tratti gli spezzoni (indispensabile per chi volesse tentare di recuperarne qualcuno al quale è particolarmente interessato) e ciò dà l’idea dell’enorme quantità di materiale che è stato visionato e selezionato. Allo stesso tempo mette in evidenza quella che si potrebbe considerare una pecca di Pannone, l’essere stato forse frettoloso (o mancarono tempo e/o soldi?) nel chiudere il suo lavoro ad appena un’ora e un quarto; alcune scene durano veramente pochissimi secondi. Gran parte dei filmati visionati dal regista (anche quelli che non ha ritenuto opportuno prendere in considerazione) meriterebbero probabilmente un'accurata visione integrale. Per ora accontentiamoci di questo bel montaggio, considerandolo un trailer delle ore e ore di pellicola esistenti.

Documentario imperdibile per quelli interessati alla materia, con i più giovani che potranno anche rendersi conto di quanto molti eventi ai quali si assiste ancora oggi siano stati manipolati a fini turistici, perdendo quasi tutta la loro spontaneità originale.

sabato 20 agosto 2022

Microrecensioni 241-245: noir / crime / detective story di seconda generazione

Film non proprio classici del genere, di qualità media ma certo non insufficienti … dopo gli anni d’oro (’40-’50) le eccellenze in questo genere si contano sulla punta delle dita e ciò vale per quasi qualunque cinematografia (americana, giapponese, messicana, francese, …). Sono partito dal più recente, consigliatomi, per poi trovare un omonimo del ’73 con il quale ho poco in comune e ho continuato con un altro di soggetto simile a quest’ultimo, adattamento di un romanzo dello stesso autore. Rimanendo oltreoceano e specificamente in California, ho aggiunto due Harper, quindi con al centro un private eye e non una guerra individuale contro l’organizzazione come gli altri tre. I 5 protagonisti sono tutti interpretati da ottimi attori che certamente contribuiscono a ottenere la sufficienza: Lee Marvin, Robert Duvall, Mark Rylance e due da Paul Newman.

 

Point Blank (John Boorman, USA, 1967)

Un partecipante ad una rapina finita male (dato per morto) ha la ferma intenzione di ottenere la sua parte di bottino. Un vero lupo solitario affronta, spesso a viso aperto, quelli che lo hanno abbandonato e si sono impossessati dei suoi soldi. Come tutti i film del genere, per quante sorprese si possano introdurre, gli spettatori sono certi che il protagonista debba sopravvivere almeno fino alle ultime scene del film, il che leva molta della possibile suspense. Lee Marvin, attore sottovalutato e per questo spesso relegato in parti da comprimario o proprio secondarie, qui è protagonista assoluto e non delude. 

The Outfit (John Flynn USA, 1973)

Come anticipato, si tratta di un adattamento di un altro romanzo di Donald E. Westlake (alias Richard Stark, una trentina di soggetti, Nomination Oscar per The Grifters / Rischiose abitudini, 1990) basato sullo stesso argomento di recupero di una somma che, ovviamente, l’organizzazione non ha alcuna intenzione di restituire. Abbastanza movimentato grazie al cospicuo numero di debitori o presunti tali. Qui il protagonista (Robert Duvall) si fa aiutare da un vecchio amico e le varie incursioni in territorio nemico sono meglio organizzate e non contano solo sulla forza e la rapidità di fuoco.

 
The Outfit (Graham Moore, USA, 2022)

Non male, relativamente ben interpretato, ha la singolarità di svolgersi tutto in una sartoria, usata come deposito temporaneo di tangenti. L’apparentemente innocuo sarto (immigrato negli USA da Londra) riesce a manipolare i gangster che frequentano il locale sia in tale veste, sia come clienti affezionati. Il numero limitato di personaggi e gli spazi ristretti costringono ad una sceneggiatura troppo parlata, con dialoghi e resoconti il più delle volte poco credibili. Si può gestire un’organizzazione criminale credendo a quasi qualunque fandonia? Ne dubito.

  • Harper (The Moving Target) (Jack Smight, USA, 1966)
  • The drowning pool (Stuart Rosenberg, USA, 1975)

Harper è un detective privato sornione e calcolatore che accetta spesso incarichi al di fuori delle routinarie investigazioni di infedeltà, amorose o economiche che siano, e si caccia in pericolose situazioni più che aggrovigliate, per sbrogliare le quali deve affrontare sia potenti personaggi senza scrupoli che i loro scagnozzi, piccoli malviventi che, per sua fortuna, di solito si rivelano abbastanza stupidi e/o incapaci. Paul Newman (Harper) è affiancato in entrambi i film da cast con tante star fra le quali Lauren Bacall, la camaleontica Shelley Winters, Janet Leigh, Pamela Tiffin, nel primo e Joanne Woodward, Anthony Franciosa e la giovane Melanie Griffith (all’epoca 17enne). Certamente guardabili ma altrettanto certamente non memorabili. Interessante l’ambientazione di The Drowning Pool, nel quale Harper si sposta dalla California in Lousiana, fra splendidi paesaggi, paludi e il caratteristico French Quarter di New Orleans.

lunedì 15 agosto 2022

Microrecensioni 236-240: misto a buona prevalenza francese

Anche se il titolo non è chiarissimo, intendo dire che i tre francesi (tutti del secolo scorso) sono i migliori del gruppo, graditi come il vino … il più vecchio è anche il migliore in assoluto. Nel complesso, del cult horror giapponese avevo appreso da Twitter, l’americano era proposto da MUBI e raccomandato da RT (92%) ma è stato molto deludente, come anticipai ho voluto ri-guardare Le corbeau dopo averne visto il remake americano (The 13th Letter), ho aggiunto uno dei migliori film di Melville (altro regista francese di oltre mezzo secolo fa, poco conosciuto) e ho concluso con un terzo francese che non conoscevo, ma ho trovato su raccomandazione di BFI e Criterion Collection, nonché della Palma d’Argento per la regia a Cannes, 100% su RT e 237° posto nella classifica migliori film di tutti i tempi di IMDb.

 
Le corbeau (Henri-Georges Clouzot, Fra, 1943)

Guardato vari anni fa, non ne ricordavo ogni particolare, ma certamente la qualità. A pochi giorni di distanza dall’aver visto il remake americano, ho potuto notare che tante scene (compresi i dialoghi) sono riproposte pedissequamente, ma anche che vari dettagli mancano e che il finale è proposto in modo diverso, pur mantenendo i contenuti. Questo mystery drammatico si basa sulla ricerca di un misterioso corvo che con le sue tante lettere anonime indirizzate a persone diverse riesce ad avvelenare i rapporti in un'intera cittadina di provincia creando scompiglio nelle famiglie e fra amanti, facendo sorgere sospetti in tutti, causando un suicidio, infinite gelosie e tentativi di aggressioni. Fino all'ultima scena, nonostante in vari momenti possa sembrare che tutti gli indizi puntino in una chiara direzione, il corvo riuscirà a non farsi scoprire. Ottima regia da classico noir francese, supportata da un ampio e variegato cast, con tanti attori poco noti che tuttavia interpretano perfettamente i rispettivi ruoli. Una menzione particolare la merita anche il direttore della fotografia Nicolas Hayer. Da non perdere!

Le samouraï (Jean-Pierre Melville, Fra, 1972)

Disavventure di un killer professionista parigino (un Alain Delon dal volto impassibile e impenetrabile ma non per questo inespressivo), un lupo solitario che nonostante tutte le precauzioni viene visto chiaramente subito dopo un omicidio. Anche se lo zelante commissario nutre forti sospetti su di lui, la testimone nega di riconoscerlo e così, dopo un lungo interrogatorio è costretto a rilasciarlo. Qui comincia un lungo gioco di gatto e topo, complicato dal fatto che il killer vuole avere un confronto con i misteriosi mandanti dell’assassinio. Ritmo lento, implacabile, con lunghi inseguimenti nella metro parigina, furti d’auto e qualche altro scontro a fuoco. Tutti gli attori si calano perfettamente nei rispettivi personaggi. Tempi rigorosi, riprese interessanti e giusto ritmo tengono sempre viva l’attenzione dello spettatore fino al singolare finale. Ma anche la scena iniziale è assolutamente notevole con un’inquadratura fissa di una stanza apparentemente vuota e avvolta nella semioscurità finché non appare un fil di fumo che distoglie l’attenzione da un ritmico cinguettio. Pochissimi i dialoghi, chi si sente di più è l’uccellino in gabbia, nella stanza del killer, la cui salute segue di pari passo la situazione sempre più critica nella quale si trova il Samurai.

  
La haine (Mathieu Kassovitz, Fra, 1995) tit. it L'odio

La storia si sviluppa in 24 ore e i protagonisti sono tre balordi della banlieue parigina, tre amici nonostante le diverse etnie: un ebreo, un arabo e un giovane di colore. Quest’ultimo è l’unico che sembra di avere un po’ più di buonsenso, ma spesso si lascia trascinare dagli altri due sempre pronti alla rissa o almeno alla violenza verbale. Dopo una delle tante tante giornate di scontri con la polizia, un loro amico si trova in ospedale, in fin di vita. Vinz (Vincent Cassel, alla sua prima interpretazione di successo) recupera una pistola e giura di uccidere un poliziotto nel caso il suo amico non sopravviva. Nel corso della notte affronteranno naziskin, molesteranno persone, tenteranno un furto, saranno fermati dalla polizia, insomma succede un po’ di tutto prima del drammatico finale. Secondo lungometraggio del regista/sceneggiatore Kassovitz, girato in buon bianco e nero, con tanta macchina a spalla.  

House (Nobuhiko Ôbayashi, Jap, 1977)

Primo lungometraggio di Ôbayashi che fino a quel momento si era dedicato solo a short e pubblicità. La tecnica è mista in quanto nel film sono inseriti molti disegni ed effetti speciali palesemente posticci e amatoriali, ma ciò è voluto e costituisce gran parte dell’originalità del film. Anche la sceneggiatura (basata su un soggetto di sua figlia di 10 anni) è al di fuori degli schemi convenzionali e forse rispecchia parte delle paure e incubi dei giovani giapponesi dell’epoca. Singolari sono le interazioni fra le sette ragazze protagoniste e gi oggetti della casa nella quale sono ospitate, di proprietà della zia di una di loro. Originali montaggio e fotografia che contano su tanti singolari fondali e i già gitati numerosi effetti speciali. Come tutti i cult unici nel loro genere, ha pro e contro, pregi e difetti m a certamente intrigherà gli appassionati del genere horror/fantasy.

The Humans (Stephen Karam, USA, 2021)

Tutto si svolge nelle poche ore di una, a dir poco triste, cena famigliare di Thanksgiving, in un vecchio appartamento molto poco arredato (ancora non hanno effettuato il trasloco) e con pochissima luce (come se non bastasse si fulminano anche varie lampadine) il che limita fortemente la fotografia. Sono riunite tre generazioni di una famiglia nella quale sembra che quasi nessuno vada d’accordo con gli altri. Ovviamente (classico in questo tipo di film) si faranno confessioni e qualcuno esprimerà risentimento nei confronti di questo o quello ma, purtroppo, i dialoghi non sono un granché. Di chiara derivazione teatrale, si tratta dell’adattamento dell’omonimo atto unico dello stesso regista del 2015, finalista del Premio Pulitzer l’anno successivo. L’ho trovato troppo americano, pieno di discorsi convenzionali per lo più deprimenti intervallati dai soliti stucchevoli Oh, my God e I’m sorry. Suggerisco di evitarlo.

venerdì 12 agosto 2022

Microrecensioni 231-235: noir americani poco noti, alcuni più che buoni

Primo film scelto quasi a caso, poi ho seguito per l’ennesima volta la pista noir, avendo trovato su archive.org un’interessante lista di film che contano sulla partecipazione di cineasti di tutto rispetto, sia per la regia (due sono diretti da William Wyler, con complessive 11 Nomination, ma ci sono anche Samuel Fuller e Otto Preminger) che per gli interpreti (Kirk Douglas, Bette Davis, Charles Boyer, …).

 
Detective Story (William Wyler, USA, 1951)

Praticamente un turno in una stazione di polizia, dove succede un po’ di tutto e dove arrivano delinquenti abituali e ladri quasi innocenti, alla prima esperienza. Il personaggio principale è un detective tormentato e violento (Kirk Douglas), a stento tenuto a bada dal tenente e dai colleghi. Per il resto è un film che si potrebbe definire corale, con una svampita ragazza al primo piccolo furto, una coppia di ladri professionisti (uno dei quali quasi fuori di testa con ampia gestualità e parlata italoamericana), un ladro per amore e alcuni personaggi di passaggio fra i quali un’anziana mitomane. Buona anche la caratterizzazione del personale del precinct, dal sergente al factotum che si occupa anche delle pulizie. Il dramma personale si alterna a scene quasi da commedia, discorsi legali a minacce, dichiarazioni d’amore a delazioni. Nel variegato e buon cast, prevalentemente maschile, si distinguono anche tre brave attrici, due delle quali ottennero la candidatura per l’Oscar (Eleanor Parker protagonista, Lee Grant non protagonista), altre due Nomination andarono alla sceneggiatura e alla regia di William Wyler.

The Letter (William Wyler, USA, 1940)

Per l’ambientazione malese (tit. it. Ombre malesi) e sviluppo della storia, ho ipotizzato subito che fosse l’adattamento di uno dei tanti lavori di Somerset Maugham … e avevo ragione. In particolare quando si tratta di drammi con risvolti noir nei posti del mondo cinematograficamente meno frequentati, Maugham è l’unico che può competere con Graham Greene; ciascuno dei due ha fornito materiale per oltre 100 film più o meno buoni a seconda di registi e cast ma sempre affascinanti per soggetti derivanti dai loro lavori teatrali, short stories e romanzi. Il film si apre con la protagonista che crivella di colpi un uomo sulla veranda della casa padronale nella piantagione di caucciù. Il suo avvocato (amico di famiglia) con il suo collaboratore faranno il possibile per farla assolvere sostenendo la legittima difesa, ma nel corso delle indagini verranno alla luce vari retroscena, confermati dalla lettera citata nel titolo. Anche questo film di William Wyler fu pluricandidato agli Oscar, con ben 7 Nomination ma nessuna statuetta (miglior film, regia, Bette Davis protagonista, James Stephenson non protagonista, fotografia, montaggio e commento sonoro).

  
Park Row (Samuel Fuller, USA, 1952)

Il regista, sceneggiatore, scrittore e giornalista Samuel Fuller, noto per le sue idee poco convenzionali, in questo film riesce a mettere insieme storia, finzione e realtà nel mondo del giornalismo, con l’attacco spietato di una testata storica a un piccolo nuovo giornale indipendente, l’invenzione della linotype, l’arrivo della statua della Libertà a New York. Inizia quasi come una commedia piena di buone intenzioni con i buoni ideali che si scontrano con l’arroganza dei potenti a parole e sui giornali, ma ben presto si assiste ad una escalation di violenza materiale, anche fisica, con tipici metodi da gangster. Nella sostanza appare un po’ troppo favoletta, seppur violenta, con tanti discorsi elogiativi del valore della stampa e della sua indipendenza.

The 13th Letter (Otto Preminger, USA, 1951)

Remake americano del classico francese Le corbeau (1943, diretto dall’ottimo Henri-Georges Clouzot), ma non basta la sapiente direzione di Otto Preminger a realizzare qualcosa di simile qualità. Una piccola cittadina canadese viene invasa da lettere anonime che svelano supposte relazioni clandestine fra alcune ben conosciute persone, ma il solo elemento comune è sempre il dottor Pearson, da poco giunto da Londra, con un passato misterioso. Sembra che tutto sia teso a fargli abbandonare il lavoro e la città e i sospetti si concentrano a turno su colleghi e varie donne. Passabile, mi ha fatto venir voglia di guardare di nuovo l’originale francese …

Stranger on the Third Floor (Boris Ingster, USA, 1940)

In questo gruppo sfigura in modo estremamente evidente, sia per la sceneggiatura che per le interpretazioni e la regia. Pessima la rappresentazione dell’incubo del protagonista e perfino Peter Lorre non riesce a convincere nel suo ridottissimo ruolo. A tal proposito, pare che la sua partecipazione fu quasi forzata in quanto doveva alcuni giorni di riprese alla RKO, che così ne approfittò per utilizzare il suo nome a fini pubblicitari; il film fu comunque un fiasco al botteghino. Con tanti noir dell’epoca, buoni anche se considerati di serie B rispetto ai classici, questo si piò tranquillamente evitare.

martedì 9 agosto 2022

Microrecensioni 226-230: pre-code movies con tante star

Dicendo pre-code Hollywood ci si riferisce ai film sonori prodotti negli US dal 1929 alla metà del 1934, quando i limiti imposti dal cosiddetto Hays Code (del 1930) cominciarono ad essere effettivamente fatti osservare. Le sceneggiature dovevano rispettare la morale, la simpatia del pubblico doveva essere sempre indirizzata verso i buoni e non si dovevano criticare o mettere in ridicolo leggi naturali, religiose e umane. Fra le tante indicazioni specifiche, si proibiva di mostrare nudi, baci eccessivi e lussuriosi, assunzioni di droghe, esecuzioni esplicite di delitti, allusioni alle perversioni sessuali (che allora comprendevano l'omosessualità), pronunciare alcune parole, trattare adulterio e sesso illegale, relazioni fra persone di razze diverse. Tanti nomi famosi in questi cinque film, per lo più commedie romantiche; due sono diretti da Lubitsch, un maestro del genere, e uno di von Sternberg. Fra gli attori compaiono due volte ciascuno Miriam Hopkins, Cary Grant e Gary Cooper, ma ci sono anche Marlene Dietrich, Mae West, i fratelli Marx, Adolphe Menjou e Fredric March. Nessuno dei film è estremamente osé (neanche per gli standard dell’epoca) ma alcuni dettagli ne impedirono la circolazione dopo il 1934.

 
Morocco (Josef von Sternberg, USA, 1930)

Primo film americano della Dietrich e unica sua Nomination Oscar (altre 3 andarono alla regia, fotografia e scenografia) e fu anche il primo a essere proiettato in USA perché il famoso The Blue Angel (L’angelo azzurro, 1930, von Sternberg) fu distribuito solo successivamente. L’ambiente ricorda quelli di altri film famosi ambientati nei protettorati francesi in nord Africa come l’imperdibile Casablanca (1942, Michael Curtiz, con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, ambientato in Marocco come questo) o il francese Pépé le Moko (1937, Julien Duvivier, con Jean Gabin) e l’immediato adattamento hollywoodiano Algiers (1938, John Cromwell, con Charles Boyer e Hedy Lamarr), tutti film da non perdere. L’azione segue un battaglione della Legione Straniera a Mogador e i protagonisti sono un legionario donnaiolo (Cary Grant), un’avvenente cantante (Marlene Dietrich) e un ricco pittore (Adolphe Menjou). Ci saranno alti e bassi nei rapporti fra i tre, ma non fu tanto questa la ragione della successiva censura, né una donna indigena con i seni completamente scoperti, quanto il famoso bacio della Dietrich sulla bocca di una cliente del Cabaret Lo Tinto dove lei si esibiva. Film cult, anche se non conosciutissimo, originale per la bella ambientazione e l’uso esclusivo di suono diegetico, quindi in assenza di commento sonoro. Famosa è la scena finale.

I’m No Angel (Wesley Ruggles, USA, 1933)

Da molti giudicato il miglior film di Mae West, già star del teatro come interprete e autrice, ma solo alla sua seconda apparizione sul grande schermo, a quasi 40 anni. Oltre che protagonista assoluta, sempre con un fare sprezzante e/o ammiccante nei confronti degli uomini che ambivano a entrare nelle sue grazie, fu anche sceneggiatrice e curatrice dei dialoghi, spesso molto taglienti, adattati dal suo omonimo lavoro teatrale del 1925. Cary Grant entra in gioco solo nella seconda parte per aiutare un amico, ma finisce prima irretito dalla vamp e poi anche in tribunale. Anche se datato, i brillanti dialoghi reggono ancora oggi e non hanno niente da invidiare alle migliori comedie moderne nonostante i 90 anni trascorsi.

  
Design for Living (Ernst Lubitsch, USA, 1933)

La censura imposta dal codice Hays non consentì il rilancio di questo film a fine anni ’30 per il triangolo (quasi quadrilatero) amoroso e relative allusioni e implicazioni. Due grandi amici americani condividono un piccolo appartamento a Parigi e si innamorano di una stessa ragazza. Competono nel farle la corte, sorgono gelosie, uno approfitta dell’assenza dell’altro, entrambi hanno successo, vengono abbandonati e … guardate il film per sapere come va a finire! Una delle tante brillanti commedie dirette da Lubitsch, ottimo regista berlinese immigrato in USA nel 1923 dopo pochi anni di successi in patria. Diresse le più famose attrici dell’epoca fra le quali Marlene Dietrich, Greta Garbo, Carole Lombard e Miriam Hopkins, distinguendosi per il suo stile che fu definito Lubitsch Touch.

Trouble in Paradise (Ernst Lubitsch, USA, 1932)

In questo film la commedia romantica si tinge di noir per avere fra i protagonisti una coppia di ladri di alto livello. Si comincia con alcuni furti in grande albergo veneziano per poi spostarsi oltreoceano. I due soci/amanti prendono di mira una ricchissima signora e si fanno assumere con l’obiettivo di sottrarle una gran quantità di danaro. Trama abbastanza articolata e per niente ripetitiva, costituita da tanti piccoli eventi (alcuni includono un po’ di suspense) quasi mai scontati e ottimamente interpretata da un gruppo di collaudati caratteristi.

The Cocoanuts (Robert Florey e Joseph Santley, USA, 1929)

Primo effettivo film dei fratelli Marx (uno precedente non fu mai distribuito ed è andato perso), nella formazione a quattro in quanto manca Gummo che non apparve mai nei loro film. Zeppo, già qui in un ruolo minore, partecipò solo a 6 film del gruppo, del quale rimangono nella memoria collettiva quasi esclusivamente Groucho, Chico e Harpo. Essendo un adattamento di una commedia di Broadway porta con sé vari numeri solo musicali o cantati e alcune coreografie molto articolate. Il resto del tempo si passa con i giochi di parole, le gag di Harpo (il muto) abilissimo borseggiatore, i discorsi insensati di Groucho il seduttore e le manfrine di Chico (dall’accento italiano) ottimo musicista oltre ad essere perfetta spalla per i fratelli in qualunque occasione. Questi sono gli elementi che li resero poi famosi anche nel mondo del cinema senza avere più bisogno di ballerine e canzoni. Vale la pena di spendere due parole per Margaret Dumont, che appare sempre nella parte l’iconica matrona ricca e di sani principi morali, spesso circuita da Groucho. Perfettamente adatta al ruolo, pare che abbia confessato di non aver mai compreso i giochi di parole e i nonsense dei fratelli Marx né sulla scena né in privato.

sabato 6 agosto 2022

Microrecensioni 221-225: film ispanici premiati a Cannes e Venezia

Pur avendone scelti 4 fra quelli più quotati (ma fra i meno conosciuti), non vi ho trovato quasi niente di buono e così, per risollevare il morale (cinefilo) e concludere in bellezza, mi sono dovuto affidare a un classico noir messicano della Epoca de Oro.

La noche avanza (Roberto Gavaldón, Mex, 1951)

L’ho voluto guardare ancora una volta non solo per la qualità complessiva (regia, sceneggiatura e interpretazioni) ma anche per il particolare ambiente degli sferisteri jai alai (pelota basca) nel quale si svolge e dei quale ho ricordi internazionali. A fine anni ’70 frequentavo quello di Napoli (semidistrutto dal terremoto del 1980) e nel 1983 andai più volte al Frontón di Ciudad de México (fra le location del film) che curiosamente fece la stessa fine per il terremoto del 1984. Non per niente vi dedicai due post (Jai Alai al Frontón México e Sferisterio di Napoli) che vi invito a leggere per rendervi conto un po’ meglio di questo strano e affascinante mondo che comprende non solo atleti e appassionati di ogni classe sociale, ma anche scommettitori e tipi loschi con conseguenti saltuarie combine.

Il protagonista è Marcos (Pedro Armendáriz), il più famoso giocatore di jai alai del momento, donnaiolo, infedele, bugiardo, litigioso e arrogante, insomma un bel tipino. Dopo aver vinto 26 incontri di seguito e in procinto di trasferirsi all'estero si trova invischiato in tre relazioni pseudo-amorose e complicate e viene ricattato per perdere l’incontro successivo. Riusciranno i ricattatori (che hanno conti in sospeso sia con Marcos che fra di loro) a portare a termine i loro diabolici piani? Scagnozzi infedeli e amanti disperate e vendicative complicano ulteriormente gli avvenimenti della seconda metà della storia, fino alle varie sorprese finali. Classico noir messicano diretto dal sempre affidabile Roberto Gavaldón, con solide interpretazioni di Pedro Armendáriz e José María Linares-Rivas, ma anche il resto del cast, che comprende Anita Blanch e Rebeca Iturbide, svolge un buon lavoro. Giunse anche in Italia con l’ennesimo titolo ridicolo: Odio mortale (sic!). Consigliato, in particolare a chi gradisce storie in ambienti di nicchia poco conosciuti.

 
Blanco en Blanco (Théo Court, Spa/Chi, 2019)

Si distingue soprattutto come esercizio di fotografia, ma purtroppo, specialmente nella prima parte, la maggior parte delle scene sono talmente scure da riuscire a malapena a distinguere persone e ambiente. Bene usare luce naturale e non ridicole candele che improvvisamente illuminano l’intera stanza a giorno, ma esiste anche una via di mezzo. Per fortuna degli spettatori, nella seconda parte la fotografia la fa da padrona con delle belle composizioni. Infatti il protagonista è un fotografo invitato da un ricco proprietario terriero in Tierra del Fuego per immortalare il suo matrimonio. L’azione si svolge alla fine dell’800 e ciò significa che prima di scattare si deve organizzare la scena come un tableau vivant e convincere i soggetti a rimanere fermi per un minuto e oltre, ma anche le semplici riprese in esterno sono meritevoli. Alla fine il protagonista viene praticamente costretto a documentare l’eliminazione fisica di gruppi di indigeni con foto simili e quelle che si fanno alla fine di una battuta di caccia. Film un po’ sbilanciato fra la voglia di perseguire obiettivi artistici e la critica dei metodi brutali degli europei per liberarsi degli indigeni, pratiche che purtroppo proseguono ancora oggi, come in Amazzonia. Le ultime scene furono girate nella caldera del Teide (Tenerife, Canarias) e per la precisione nell’affascinante e (per me) inconfondibile Llano de Ucanca. FIPRESCI e altri 2 Premi a Venezia.

Nuevo orden (Michel Franco, Mex, 2019)

Altro film che mi ha lasciato molto perplesso, scelto per vari motivi nonostante i rating non certo entusiasmanti che contrastano con i premi ottenuti a Venezia (Gran Premio della Giuria e Leoncino d’Oro). Già conoscevo il regista/sceneggiatore/produttore Michel Franco noto per i suoi apprezzati film che affrontano temi difficili, come in Después de Lucía (2012) e Las hijas de Abril (2017), e a ciò si aggiunge il fatto di aver assistito al alcune riprese al centro di Coyoacán. Pur avendo il merito di affrontare l’eterno problema delle grandi differenze sociali tuttora presenti in Messico, secondo me stavolta ha esagerato proponendo quasi un kolossal urbano (si parla di 3.000 comparse), eccedendo nella violenza e, al contrario, essendo troppo vago in merito alle connivenze fra capitalisti, militari e rivoluzionari. Per sottolineare lo spreco (mania di grandezza di Franco), posso dirvi che delle riprese sul set organizzato per tre giorni sul sagrato della chiesa di Coyoacán, con ben oltre un centinaio di comparse e tecnici, sono stati utilizzati solo una dozzina di secondi; in precedenza aveva bloccato arterie principali di Ciudad de México con un mare di carcasse di auto, barricate fumanti e finti cadaveri per meno di dieci secondi di girato utilizzato.

 
Memoria (Apichatpong Weerasethakul, Col/Thai, 2021)

Il tanto acclamato regista thailandese con questo film (il primo al di fuori del paese natio) si sposta in Colombia ma resta nell’ambito onirico – mistico – paranormale. Alcune situazioni non le ha certo scelte in modo peregrino, l’incontro fra culture è ben esposto ed è apprezzabile il mantenimento del doppio idioma (castigliano latino e inglese) con relativi accenti per i non madrelingua, ma si deve rendere conto che non è Werner Herzog, né Bela Tarr, né Andy Wharol per poter proporre lunghissime scene silenziose e inquadrature fisse. Non a caso le più frequenti osservazioni – critiche sono proprio in merito alla lentezza del film e, seppur non eccessiva, alla durata del film che alcuni pensano che perfino dimezzato non perderebbe molto. La presenza di Tilda Swinton non basta a risollevare un film pretenzioso, soporifero e noioso come altri suoi lavori, ma è statisticamente prevedibile che continueranno a invitare e premiare Apichatpong Weerasethakul ai Festival per essere fuori del comune. Premio della Giuria a Cannes, in precedenza una mezza dozzina di presenze, con una Palma d’Oro nel 2010.

Kékszakállú (Gastón Solnicki, Arg, 2016)

Non so come si possa pensare di finanziare e realizzare film come questo, senza né capo né coda, brutto esempio del genere ricchi rampolli sudamericani insulsi e nullafacenti, prodotti che poi vengono mandati in giro (evidentemente raccomandati) e fanno aumentare le perplessità in merito alle selezioni dei festival e dei metri di giudizio delle giurie. I dialoghi sono ridotti all’osso (e probabilmente è una fortuna), il sonoro per lo più in presa diretta con fastidiosissimi, spesso sovrastanti, rumori di fondo, recitazione meno che amatoriale, la maggior parte delle inquadrature sono fisse, incluse molte senza alcun senso di edifici. Di nuovo per fortuna, il film dura poco più di un’ora. Penso sia il primo al quale ho affibbiato un significativo 1 su 10 su IMDb! Se trovo già generoso il 5,5 su tale piattaforma, giudico incredibile il 95% su RT, anche se probabilmente derivante dalle poche recensioni scritte in occasione dei festival (a Venezia ottenne il Premio FIPRESCI) nelle quali i critici invitati, raramente stroncano … è tutto un business.

lunedì 1 agosto 2022

Microrecensioni 216-220: 4 candidati Oscar ispanici poco noti

Fra i candidati Oscar a miglior film non in lingua inglese finora se contano 32 di idioma ispanico (non contando gli 8 che poi l’Oscar l’hanno ottenuto) e sono per la maggior parte spagnoli, argentini e, più recentemente, messicani. Tuttavia, alcuni sono rimasti quasi del tutto sconosciuti al di fuori della penisola iberica e America latina e fra essi ne ho recuperati 4, tre dei quali mai guardati in precedenza. Per la precisione ecco gli 8 vincitori:

  • Spagna: Volver a empezar  (1982), Belle Époque (1993), Todo sobre mi madre (1999) e Mar adentro (2004
  • Argentina: La historia oficial (1985) e El secreto de sus ojos (2009)
  • Chile: Una mujer fantástica (2017
  • México: Roma (2018)

Ho completato la cinquina con una produzione indipendente inglese, una dark dramedy che ha ricevuto commenti molto contrastanti ma, per me, merita una visione, specialmente se tollerate il buon humor nero anglosassone.

 
La tregua (Sergio Renán, Arg, 1974)

Prima candidatura Oscar per un film argentino, con sceneggiatura adattata dal romanzo omonimo (1960) dell’uruguayo Mario Benedetti, un classico della letteratura sudamericana. Il protagonista è un capoufficio vedovo da 20 anni, con tre figli, interpretato da Héctor Alterio. La sua vita triste, apatica e routinaria viene scossa dall’arrivo di una nuova giovane dipendente della quale ben presto si innamora, nonostante la differenza di età. Ben descritto lo svilupparsi del rapporto fra i due, entrambi timidi e molto rispettosi dell’altro, e fra loro, i colleghi di lavoro e i familiari. I meriti del film sono da dividere soprattutto fra la sceneggiatura e l’interpretazione di Alterio, successivamente protagonista anche di altri 2 film candidati Oscar, El nido (microrecensione di seguito) e l'ottimo El hijo de la novia (1997, Juan José Campanella), interpretato al fianco di altri due grandi attori argentini, Ricardo Darín e Norma Aleandro … evidentemente merita e porta bene.

El nido (Jaime de Armiñán, Spa/Arg, 1980)

Alterio è stato protagonista anche di un altro film candidato Oscar per l'Argentina: In quanto alla giovane protagonista di El nido, si tratta di quella Ana Torrent che divenne improvvisamente famosa a 7 anni quale protagonista di El espíritu de la colmena (1973, Victor Erice). La sceneggiatura, opera dello stesso regista, mette insieme un vedovo strafalario (leggi post dedicato se non conosci il termine) che quasi in isolamento, in un mondo tutto suo, ed una tredicenne estremamente smaliziata e intraprendente che subdolamente lo circuisce e riesce a manipolarlo, pur rimanendo al di fuori della sfera sessuale. Tanti bravi caratteristi interpretano gli interessanti personaggi di contorno che includono il parroco (amico e confidente del vedovo), il sergente della Guardia civil, la numerosa famiglia della ragazzina che vive nella stessa caserma essendo il padre guardia, la maestra, la coppia tuttofare che assiste il vedovo nella casa e nel campo. Situazioni al limite del reale non solo per un paesino spagnolo di provincia, ma queste erano evidentemente le precise intenzioni di Jaime de Armiñán che riesce a creare le giuste crescenti tensioni fino all'epilogo, prevedibile, ma non troppo scontato nei modi.

 
La venganza (Juan Antonio Bardem, Spa/Ita, 1958)

Prima candidatura Oscar per un film in lingua spagnola. Produzione italo spagnola con un cast internazionale di rilievo; fra i protagonisti Raf Vallone, Carmen Sevilla e Jorge Mistral, ma in piccole parti ci sono anche Fernando Rey ed Arnoldo Foà. I due precedenti film del regista Juan Antonio Bardem (famiglia di cineasti, zio di Javier) restano però i suoi due indiscussi migliori prodotti: Calle Mayor (1956) e Muerte de un ciclista (1955). Questo, come molti lavori dei migliori cineasti spagnoli dell’epoca, fu molto condizionato dalla censura franchista; fu cambiata l’epoca (dal franchismo ai primi anni ’30) e il titolo che è equivoco rispetto al vero messaggio di riconciliazione nazionale e per non suscitare le proteste dei catalani, inoltre pare che siano state tagliate scene per circa un’ora.

Los Tarantos (Francisco Rovira Beleta, Spa, 1963)

Terza candidatura Oscar fra i film spagnoli, fra questo e La venganza ci fu la comedia negra Placido (1961, Luis García Berlanga). In comune con il film di Juan Antonio Bardem appena trattato, c’è una faida e un amore scoppiato fra appartenenti a fazioni opposte, ma in questo caso, invece di uno sparuto gruppo di mietitori itineranti, si affrontano famiglie di gitani, sempre pronti alle provocazioni, alle risse e agli accoltellamenti, anche mortali. A tutto ciò si aggiungono danze e canti, ovviamente dei generi del flamenco. Ciò ha anche giustificato l’inserimento nel cast di Carmen Amaya, indiscussa migliore a bailaora e cantante dell’epoca; morì poco dopo questa sua ultima interpretazione, a soli 50 anni.

Burn Burn Burn (Chanya Button, UK, 2015)

Originale dramedy in stile humor inglese, di tema necrofilo e rapporti interpersonali, fra familiari, amici e perfetti sconosciuti. Il filo conduttore non è certo originale (dispersioni delle ceneri di un amico secondo sue precise volontà) ma la ricca serie di incontri, personaggi e situazioni è senza dubbio fuori dal comune e molto anglosassone. Le due giovani amiche del defunto, molto legate fra loro ma di carattere quasi opposto, dovranno portare le ceneri in 4 specifiche località dell'UK seguendo le istruzioni registrate in un video che mostra anche il progredire della malattia di Dan. Ci sarà modo di toccare tanti temi fra i quali omosessualità, sesso facile, alcolismo, abbandono, rimorsi, tradimenti, sette, elaborazione del lutto, e chi più ne ha più ne metta.