Poche ore dopo aver pubblicato il post Stupidità: un racconto morale e qualche aforisma, mi sono imbattuto nel chiarimento che Umberto Eco ha sentito la necessità di pubblicare in merito a frasi a lui attribuite in un articolo apparso online la settimana scorsa.
Vi invito quindi a leggere lo scritto di Umberto Eco, Un appello alla stampa responsabile, piacevole e arguto come sempre, nel quale si torna a parlare di imbecilli e quindi di stupidità. Nell'articolo pubblicato su L'Espresso-Repubblica, oltre a chiarire la propria posizione in merito al rapporto web/imbecilli, ne fa un'attenta analisi e ipotizza delle possibili soluzioni.
lunedì 29 giugno 2015
Stupidità: un racconto morale e qualche aforisma
Torno
su questo argomento già trattato in più post (li trovate utilizzando il motore
di ricerca interno) proponendo un breve racconto buddista sul tema. Come spesso
accade in questi casi, la storia è volutamente esagerata per essere esemplificativa
e, per rendere meglio l’idea e (si spera) farla rimanere più impressa nella
mente, il concetto viene ribadito narrando due eventi diversi molto simili. Mi
è sembrata divertente (nel suo genere) anche se limitata alla nota questione del “rimedio
peggiore del male”.
Due
ragazzi stupidi
C’era
una volta un vecchio falegname calvo, con la testa talmente lucida da
riflettere i raggi del sole ed abbagliare la gente. In un giorno assolato una
famelica zanzara, attratta dalla testa del falegname, vi si posò e cominciò a
pungere. L’uomo, impegnato a piallare un pezzo di legno, sentì la zanzara e
cercò di cacciarla, ma il famelico insetto non voleva lasciare il pasto che
sembrava così appetitoso. Così l’uomo chiamò suo figlio e gli chiese di
liberarlo dall’ostinata scocciatrice.
A differenza della testa splendente del
padre, il figlio non era altrettanto brillante. Ma era lavoratore e obbediente e
quindi rispose: “Non ti preoccupare, sii paziente, ucciderò quell’insetto con
un solo colpo!”. Così prese un’ascia affilata, mirò con cura la zanzara e,
senza pensarci due volte, la tagliò di netto in due! Sfortunatamente, dopo aver
affettato la zanzara, l’ascia spaccò in due anche la testa calva e splendente
del vecchio falegname.
In
tutto questo, un consigliere del re si trovava a passare da lì e quelli che lo
accompagnavano, avendo visto quanto accaduto, rimasero sconcertati di quanto si
potesse essere stupidi. Il consigliere disse: “Non siate sorpresi dalla
stupidità umana! Appena ieri, una donna stava pulendo il riso nel mortaio
usando il pestello. Appena cominciò a sudare uno sciame di mosche cominciò a
ronzare attorno alla sua testa. Tentò di allontanarle, ma le mosche non se ne
andavano. Allora chiamò sua figlia e le chiese di cacciare i fastidiosi insetti.
La ragazza, benché abbastanza sciocca, tentava sempre di accontentare sua
madre. Così lasciò il suo mortaio, alzò il pestello e mirò con cura la mosca
più grande e tenace. Senza pensarci oltre, schiacciò la mosca uccidendola! Ma
ovviamente, lo stesso colpo che uccise la mosca pose anche fine alla vita della
madre.”
Il
consigliere concluse la storia dicendo: “Sapete come si dice: Con amici come
questi, chi ha bisogno di nemici?”
Morale:
Un nemico saggio è meno pericoloso di un amico
stupido.
Aggiungo
questa mezza dozzina di aforismi che dovrebbero far riflettere (attività mai praticata
a sufficienza):
- “La stupidità è come il male, se si giudica dai risultati.” Margaret Atwood
- “Il massimo dell’ignoranza è rigettare qualcosa che ancora non si conosce per niente.” Wayne Dyer
- “Se pensate che la cultura costi troppo, provate l’ignoranza.” Derek Bok
- “Essere coscienti della propria ignoranza è una grande passo verso la saggezza.” Benjamin Disraeli
- “La cultura è la progressiva scoperta della propria ignoranza.” Will Durant
- “La stupidità è per sempre, all’ignoranza si può rimediare.” Don Wood
Concludo questo breve post riproponendo la
mia massima preferita (anch’essa appartenente alla tradizione buddista) che ho
scelto anche come mio motto nel profilo Google+:
Io brandisco una sola spada, la spada della Saggezza, e riconosco un solo nemico: l’Ignoranza.
In pratica, come suggerito anche in
qualcuno dei succitati aforismi, si sottolinea il desiderio di conoscere nuovi
stili di vita, teorie e idee, senza mai accontentarsi di quel poco che già si
sa (o si pensa di sapere) in contrasto con il rifiuto di conoscere e
confrontarsi, restando nel solito ambiente, facendo le stesse cose e seguendo
passivamente masse e mode.
venerdì 26 giugno 2015
La bellezza della geometria esaltata dall’arte
I motivi geometrici sono presenti nelle arti decorative da tempo immemorabile, ma innegabilmente hanno raggiunto i massimi livelli nell'arte islamica. Si va da motivi relativamente semplici non ornati artisticamente, che si trovavano quasi in ogni casa sia all'interno che all'esterno, fino a intrichi di linee e di forme estremamente elaborati, combinati con una grande varietà cromatica.
Si parte quasi sempre da un disegno regolare per poi estenderlo o riempire gli spazi circostanti con elementi di forma assolutamente diversa eppure perfettamente complementari. Caso classico e diffusissimo è quello della stella a 8 punte normalmente abbinata con la “croce” (in effetti i 4 bracci con lati paralleli, terminanti con un triangolo equilatero). Pannelli o
pavimenti realizzati con questa combinazione di forme furono molto utilizzati e possono apparire
molto diversi a seconda dell’inspessimento dei bordi di una o dell’altra forma
e dalla posizione, vale a dire se si vede la croce come un “+” o una “x”.
Nei pannelli più eleganti le “stelle”, avendo
superficie ben maggiore delle croci e ampio spazio centrale, sono finemente
decorate con rappresentazioni anche complesse di scene mitologiche, personaggi,
animali e piante. Le croci, invece, date le dimensioni ridotte e soprattutto
essendo “strette” sono ornate con dettagli e motivi più piccoli, spesso
ripetuti, comunque molto accurati.
A partire invece dalla stelle a 12
punte, inserite in dodecagoni regolari, che a loro volta sono dentro esagoni
regolari, si possono creare una infinità di motivi scegliendo quali linee
esaltare e quali spazi riempire fra la moltitudine di triangoli equilateri,
quadrati, stelle regolari e irregolari a 4, 5, 6 e 12 punte come si può
osservare nell’immagine a lato. E un artista saprà certo individuare ancora
tante altre forme e disegni. In particolare questa trama a base esagonale/duodecimale permette di decorare pannelli, pareti e altre superfici con forme del tutto irregolari, spesso policrome, servendosi anche di triangoli scaleni scaleni derivati.
Ulteriori varianti si creano curvando
parte delle linee.
Per esempio, nel pannello a sx spiccano
chiaramente stelle a 6 punte, ciascuna contornata da tre “onde” colorate che hanno come base due lati contigui degli esagoni regolari
(chiari). A partire invece dalle stelle colorate
ci sono tre “onde” chiare delle stesse dimensioni delle colorate, che con esse si
completano riempiendo ogni spazio. I colori delle onde che si ripetono secondo
linee diagonali e quelli delle stelle in senso orizzontale aggiungono movimento
e varietà al disegno nel suo complesso.
Qui in basso c'è invece la stella a 10 punte costruita facendo ruotare due stelle a cinque punte di identiche dimensioni e concentriche. La sequenza di disegni dimostra come, scegliendo accuratamente gli spazi fra le medesime linee, si possano ottenere forme ed effetti completamente diversi.
Questi tipi di disegno sono stati
portati ai massimi livelli in opere dell’arte islamica dei generi più diversi,
e non solo su superfici piane come pavimenti, pannelli, porte, pareti, ma anche
in realizzazioni molto più ardue come archi, volte, vasi e altre superfici curve. Tempo fa su Repubblica furono proposte numerose foto di interni di moschee e mausolei, con disegni estremamente intricati e coloratissimi
(anche se ho l’impressione che le tinte siano state un po’ troppo modificate),
opere che senz’altro necessitarono di una maestria eccezionale, non solo
artistica ma anche tecnica.
Quelli che si sono incuriositi leggendo questo brevissimo excursus e quelli che non si sono mai imbattuti in questo tipo di realizzazioni, o che le hanno guardate con occhio distratto, potranno trovare in rete migliaia di foto ed anche molti testi interessanti per approfondire l’argomento.
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mercoledì 24 giugno 2015
Metodo investigativo, scientifico e poliziesco, Pierce e Holmes
Come
in altri casi simili, con questo post miro solo ad incuriosire i lettori e non
certo ad analizzare a fondo teorie e processi logico-filosofici che negli anni
sono stati oggetto di studi approfonditi, tesi e che hanno riempito libri interi.
A
partire dalla teoria elaborata da Charles
Sanders Pierce (matematico, filosofo, semiologo, logico e scienziato
statunitense, 1839-1914) passerò a parlare brevemente di Sherlock Holmes il
quale, seppur solo nei casi immaginari descritti da Sir Arthur Conan Doyle, applica alla perfezione la logica dell’abduzione.
Questa,
secondo Pierce, è il solo processo
logico che permette di ampliare le nostre conoscenze in quanto ci spinge a
cercare leggi e regole che ci permettano di prevedere le conseguenze certe di
una azione o situazione. Non ha una
validità logica assoluta, ma porta i ricercatori ad elaborare e poi investigare
una teoria plausibile, a partire dai dati ed eventi osservati.
Nel
sistema logico di Pierce l’abduzione e la deduzione contribuiscono alla comprensione di un fenomeno, con l’induzione che apporta una quantità di verifiche
e riscontri. Pierce, pur giustificando
la validità dell’induzione in quanto processo auto correttivo, affermò che né
induzione né deduzione possono aiutare a svelare la struttura interna del
significato.
Nella
logica dell’abduzione lo scopo è
quello di analizzare i dati, trovare uno schema, e suggerire una ipotesi plausibile.
La deduzione perfeziona le ipotesi
basate su premesse plausibili l’induzione è la prova sperimentale. Il costante
riproporsi di esiti identici consolida la teoria ipotizzata con l’abduzione,
senza fornirne tuttavia certezza assoluta, mentre un solo insuccesso
dimostrerebbe che essa non è valida e, se non del tutto errata, deve quindi
essere rielaborata tenendo conto dei risultati non congrui. Confermando l’ipotesi,
si ricavano leggi e regole dalle quali potranno conseguire nuove deduzioni (per
definizione, certe).
Chi
ha reso famoso questo tipo di processo logico (anche se i più non lo riconoscono e non ne colgono l’enorme
valore) è stato Sir Arthur Conan Doyle
con il sua creatura Sherlock Holmes,
personaggio apparso nel 1887 nel romanzo
A Study
in Scarlet (Uno studio in rosso).
L’abilità
di Holmes risiede essenzialmente nel notare un gran numero di particolari che,
seppur apparentemente insignificanti, messi in relazione fra loro gli
consentono di escludere ipotesi e conclusioni a prima vista ovvie e, per
eliminazione, di giungere ad una soluzione plausibile, spesso quella giusta.
- Teorizzare senza avere dati è un errore madornale. Insensatamente si distorcono i fatti per giustificare una teoria, invece di elaborare una teoria plausibile che spieghi i fatti
- Dopo aver eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga, per quanto improbabile, deve essere la verità
- Non faccio mai eccezioni. Una eccezione invalida la regola
- Non esiste nulla di più fuorviante di un fatto ovvio
- Le emozioni sono antagoniste di un ragionamento limpido
A puro titolo di curiosità e giusto per sottolineare la notorietà mondiale del personaggio di Sherlock Holmes, sappiate che in moltissimi paesi gli sono stati addirittura dedicate serie di francobolli e non solo nel Regno Unito ma anche in luoghi lontani come la Polinesia e nazioni non anglofone come il Nicaragua.
Chi
vorrà saperne di più, in particolare nel campo della logica, potrà effettuare
una ricerca in rete utilizzando, oltre abduzione (che può portare ad alcuni
risultati relativi alla fisiologia), parole chiave come inferenza abduttiva,
Pierce, logica. Se poi la ricerca si effettua in inglese, l’aggiunta di ulteriori
keywords è indispensabile in quanto la parola “abduction” è comunemente
riferita a rapimento, spesso per fini sessuali, in seconda battuta al campo
della fisiologia e solo in ultimo al processo logico. Quindi, per giungere a
pagine interessanti, è fondamentale aggiungere almeno una seconda parola come
Pierce, logic, philosophy, reasoning, inference o altre simili. Oltre ai molti
testi “seri”, che spesso risultano troppo filosofici ed eruditi per essere letti
piacevolmente, ci sono articoli più divulgativi che comunque riescono a fornire
un’idea della valenza, e soprattutto del fascino, dell’inferenza abduttiva. Vi segnalo alcuni articoli
Per
chi ha familiarità con l’inglese, potrà essere interessante leggere questo
articolo a firma John Gray (BBC News magazine) www.bbc.com/news e un post che lo critica apertamente thinkofhappysquirrels.wordpress.com/
lunedì 22 giugno 2015
Vuallariello: toponomastica, percorso e antropologia
Quanto vado a esporre di seguito con brevi note non vuole assolutamente entrare
nel merito della non troppo latente polemica relativa alla “riscoperta” e
pulizia di un antico e tradizionale percorso. L'unico fine di questa sommaria indagine basata su documenti, fonti orali e ricognizione, nonché della bozza di cartina allegata è stato quello di cercare di saperne di più in merito ai nomi e all'uso che di questi sentieri si è fatto per secoli.
* Il toponimo Vuallariello (e non Uallariello o Guallariello), senza ombra di dubbio derivante dall’uso orale ancorché di etimologia sconosciuta, era già presente nell’elenco delle “Strade Nazionali, Provinciali, Comunali e Vicinali” del 1902, aggiornato e corretto nel 1911 e pubblicato il 30 giugno dello stesso anno. E' tornato (meglio sarebbe è giunto per la prima volta) all’attenzione dei più non-terminesi a seguito della pulizia/ripristino di un sentiero che mena al San Costanzo lungo le falde nord-occidentali del Monte, a partire da Cercito.
* Oltre ad evidenziare la corretta scrittura del toponimo (che come tutti quelli presi dalla tradizione è di difficile ed incerta trascrizione) è anche necessario dire che il tratto ripulito non è il Vuallariello, bensì la strada vicinale Le Selve, come determinato nell’elenco suddetto alla partita n. 63.
* La strada vicinale Vuallariello, partita n. 68 del medesimo elenco, inizia a monte della ormai nota e bellissima scala fra le due pareti calcaree, e termina sul crinale frala cima Santa Croce e Punta Campanella, poco a monte della spianata di Campo Vetavole.
* L’attuale parte bassa della vic. Le Selve, si diparte da via Campanella con il il nome odierno di via Cercito (così è registrata all’anagrafe). Procedendo verso monte, dopo un centinaio di metri si trova una breve diramazione fra le case (a sx) e dopo altri 200m circa una verso destra più lunga (poco meno di 300m di sviluppo) e praticamente in quota. Circa 400m dopo il suddetto secondo bivio si perviene alla caratteristica scala fra le rocce e, lasciando l’ombrosa e fresca sévera (selva, in zona è di solito riferito a un castagneto) si giunge all’aperto sulle balze occidentali del Monte e dopo un centinaio di metri,che comprende un breve tratto in discesa, in poco spazio la vicinale di divide in tre.
* Questo appena descritto è il tratto oggetto del recente intervento di ripristino fino a pochi metri oltre la scala. Di lì è stata diserbata una nuova traccia che conduce fino al sentiero comunemente percorso fra l’Alta Via dei Monti Lattari (CAI 300, poco a monte di Campo Vetavole) e piattaforma di cemento con ringhiera (belvedere) sopra la frana del 1973. Quindi, al momento, la parte finale della vic. Le Selve, la sua dir. C e la vic. Vuallariello non sono state assolutamente prese in considerazione. (vedi cartina semplificata)
* Il primo bivio a sinistra prosegue praticamente senza dislivelli (solo minimi saliscendi) fino a poco oltre il crinale. Questa è la vera strada vic. Vuallariello, lunga poco più di 500 metri. Prosegue invece per circa 300m in leggera discesa (verso Prete janche) la vic. Le Selve, che conta una terza e ultima diramazione (lunga 300m ca. verso l’area a monte di Canciello) appena una ventina di metri dopo il bivio dal quale si diparte la vic. Vuallariello.
* Il toponimo Vuallariello (e non Uallariello o Guallariello), senza ombra di dubbio derivante dall’uso orale ancorché di etimologia sconosciuta, era già presente nell’elenco delle “Strade Nazionali, Provinciali, Comunali e Vicinali” del 1902, aggiornato e corretto nel 1911 e pubblicato il 30 giugno dello stesso anno. E' tornato (meglio sarebbe è giunto per la prima volta) all’attenzione dei più non-terminesi a seguito della pulizia/ripristino di un sentiero che mena al San Costanzo lungo le falde nord-occidentali del Monte, a partire da Cercito.
* Oltre ad evidenziare la corretta scrittura del toponimo (che come tutti quelli presi dalla tradizione è di difficile ed incerta trascrizione) è anche necessario dire che il tratto ripulito non è il Vuallariello, bensì la strada vicinale Le Selve, come determinato nell’elenco suddetto alla partita n. 63.
* La strada vicinale Vuallariello, partita n. 68 del medesimo elenco, inizia a monte della ormai nota e bellissima scala fra le due pareti calcaree, e termina sul crinale frala cima Santa Croce e Punta Campanella, poco a monte della spianata di Campo Vetavole.
* L’attuale parte bassa della vic. Le Selve, si diparte da via Campanella con il il nome odierno di via Cercito (così è registrata all’anagrafe). Procedendo verso monte, dopo un centinaio di metri si trova una breve diramazione fra le case (a sx) e dopo altri 200m circa una verso destra più lunga (poco meno di 300m di sviluppo) e praticamente in quota. Circa 400m dopo il suddetto secondo bivio si perviene alla caratteristica scala fra le rocce e, lasciando l’ombrosa e fresca sévera (selva, in zona è di solito riferito a un castagneto) si giunge all’aperto sulle balze occidentali del Monte e dopo un centinaio di metri,che comprende un breve tratto in discesa, in poco spazio la vicinale di divide in tre.
* Questo appena descritto è il tratto oggetto del recente intervento di ripristino fino a pochi metri oltre la scala. Di lì è stata diserbata una nuova traccia che conduce fino al sentiero comunemente percorso fra l’Alta Via dei Monti Lattari (CAI 300, poco a monte di Campo Vetavole) e piattaforma di cemento con ringhiera (belvedere) sopra la frana del 1973. Quindi, al momento, la parte finale della vic. Le Selve, la sua dir. C e la vic. Vuallariello non sono state assolutamente prese in considerazione. (vedi cartina semplificata)
* Il primo bivio a sinistra prosegue praticamente senza dislivelli (solo minimi saliscendi) fino a poco oltre il crinale. Questa è la vera strada vic. Vuallariello, lunga poco più di 500 metri. Prosegue invece per circa 300m in leggera discesa (verso Prete janche) la vic. Le Selve, che conta una terza e ultima diramazione (lunga 300m ca. verso l’area a monte di Canciello) appena una ventina di metri dopo il bivio dal quale si diparte la vic. Vuallariello.
* Questa serie di vicinali sono state per anni (si potrebbe dire per
secoli) le strade più importanti di Termini in quanto collegavano il centro
abitato con le fertili terrazze del Monte. In particolare a Campo Vetavole e
nella zona circostante (più pianeggiante e quindi con terrazzamenti più ampi)
si coltivava di tutto, perfino il grano e 'o jurmano (segale). Mi è stato riferito che era comune anche
la coltivazione dei lupini e che nella cosiddetta “barracca ‘e De Angelis” (poco a monte della vic. Vuallariello) si
allevavano vitelli.
* In effetti nessuno è sicuro né dell’etimologia né della
collocazione esatta del toponimo. Si diceva comunemente “jamm ‘ncopp ‘o Vuallariello” intendendo che sarebbero saliti
passando per Cercito e dint’ ‘a sévera. In effetti qualcuno, in epoca più
o meno moderna potrebbe aver fatto confusione fra destinazione e itinerario.
* Altra questione poco chiara è quella relativa al toponimo
Canciello che finora conoscevo solo per indicare il passaggio di via Campanella
nei pressi dell’edicola votiva, fra la parete rocciosa e il pinnacolo. Ma chi
frequentava il Monte indicava con tale nome anche la zona più in alto e
qualcuno mi ha proposto la distinzione fra canciello
‘e copp e canciello ‘e vascio. Valutando le varie informazioni potrei anche supporre che per Canciello
si intendesse addirittura tutta la parete rocciosa verticale che si estende fra
via Campanella e la scala della vic. Le Selve lungo una linea di
frattura E-O e di conseguenza interpretare il toponimo come "chiusura" (la parete impassabile) e non abbinata ai due unici passaggi (lungo via Campanella e vic. Le Selve). Non sarà semplice venirne a capo.
* Considerato che la maggior parte dei nomi presenti sugli elenchi e
carte catastali sono stati ripresi già nell’800 dalla tradizione orale, spesso
supportata anche da documenti notarili, sono propenso a credere che il Vuallariello
fosse un’area a monte della scala nella roccia e non parte del castagneto. A
prescindere dalle mie opinioni, il toponimo è tuttora ufficialmente abbinato
solo ed unicamente alla succitata strada vicinale.
* Il percorso ha perso di importanza per essere stato temporaneamente interrotto
dalla frana del 1973 e per la costruzione della strada per il radar. In particolare a seguito di
questa “comodità” quelli che per alcuni anni hanno continuato a coltivare i
propri appezzamenti nella zona del Vuallariello erano soliti percorrere
via del Monte fin’oltre l’antenna potendo così raggiungere il proprio campo in
pochi minuti evitando grandi salite.
* Nel corso delle mie indagini (interviste con persone che hanno frequentato l’area per anni) tutti mi hanno raccontato episodi e dettagli congruenti, che quindi ritengo affidabili e veritieri, a cominciare dal fatto che “se ne sono
carriati viaggi …” (trasportato carichi sulle spalle) dal Monte a Cercito e
Termini passando per il castagneto. Sono stati concordi anche nel descrivere quei sentieri (Selve, dir. C Selve e Vuallariello) come stretti percorsi battuti, e quindi evidenziati, esclusivamente dal loro quasi quotidiano passaggio dirigendosi verso i campi di Prete janche e Campo Vetavole.
* Come è evidente dedurre osservando le foto in basso, per una eventuale individuazione certa del tracciato catastale sarebbe più che mai necessario l’uso di stadia e teodolite o tacheometro, o altri strumenti simili. Non essendoci particolari ostacoli si passa più o meno dappertutto, seppur con qualche difficoltà a causa della vegetazione, e non ci sono segni evidenti dell’antico itinerario, se non sporadicamente.
* Come è evidente dedurre osservando le foto in basso, per una eventuale individuazione certa del tracciato catastale sarebbe più che mai necessario l’uso di stadia e teodolite o tacheometro, o altri strumenti simili. Non essendoci particolari ostacoli si passa più o meno dappertutto, seppur con qualche difficoltà a causa della vegetazione, e non ci sono segni evidenti dell’antico itinerario, se non sporadicamente.
così si presentava l'area attraversata dalla vicinale Vuallariello sabato 20 giugno 2015
In questioni simili, riguardanti vecchi percorsi, nomi e
tradizioni, penso sia sempre opportuno ed interessante, se non addirittura
indispensabile, confrontarsi con quelli di qualche anno più grandi di noi.
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domenica 21 giugno 2015
Lipari e le Isole Eolie – conclusioni
Ho appena
caricato l’ultima raccolta di foto relative al mio recente soggiorno alle
Eolie (gli interessati le trovano in questa pagina). Gli album pubblicati ieri e oggi si riferiscono all’Acropoli di Lipari, al
centro storico e ne ho anche aggiunto un paio delle lunghissima
spiaggia di ciottoli di Canneto (Lipari) e qualcuna dell’isola di Vulcano.
Queste ultime dal livello del mare in quanto gli oltre 30° non avrebbero reso
piacevole la salita al cratere che, come potrete vedere, è tutta esposta al
sole. Ciò mi fornisce ulteriore buona scusa per tornare sull’isola per godermi
ascesa e giro del cratere senza seguito di persone da accudire e controllare (come ho fatto per anni).
Tornando a Lipari, ho raccolto in un album le immagini di alcuni
dei tanti punti di interesse concentrati nell’area di quello che fu il
Castello. Per farla breve, lì si trovano ruderi del villaggio preistorico con
le basi di capanne risalenti al neolitico e all’età del bronzo, l’interessantissimo
e ricchissimo Museo archeologico Bernabò Brea (vai al sito) che, seppur
relativamente piccolo, è unanimemente considerato uno dei migliori d’Italia, la
cattedrale di San Bartolomeo con le sue splendide volte a crociera affrescate
con scene di soggetto biblico, il contiguo
Chiostro Normanno con capitelli raffiguranti animali fantastici, le mura medioevali
che inglobano parte di quelle di epoca greca (V-IV sec. a.C.), i bastioni che
si affacciano sul mare offrendo panorami vastissimi.
Il centro storico è per lo più costituito da una marea di
vicoletti a ovest dell’Acropoli, attorno a Marina Corta e Supa a terra. Essendo
stretti (così si costruiva nei paesi caldi) restano all’ombra per gran parte
della giornata e per questo motivo, unito alla ventilazione naturale, restano
freschi anche quando altrove il caldo è quasi insopportabile. Oltre ad andare
in giro piacevolmente fra una granita e un arancino consiglio di non mancare,
oltre ovviamente ad una lunga visita all’Acropoli, l’originale Presepe del mare
allestito nella chiesa delle Anime del Purgatorio a Marina Corta (praticamente
sul molo) e i due grandi murales nella piazzetta alla quale hanno dato il nome
ora ricorrente: “piazzetta dei murales” (si trova Supa a terra).
In
conclusione, le Eolie ed in particolare Lipari valgono senz'altro un viaggio, ma
attenzione a scegliere i periodi migliori a seconda dei vostri interessi:
- bagni: giugno-ottobre
- escursioni: marzo-giugno e settembre-novembre
- “movida”: luglio-agosto
- andar per isole: aprile-ottobre
Tuttavia, se avete abbastanza giorni a disposizione e vi potete permettere qualche giorno
di riposo in caso di cattivo tempo (cielo o mare), il periodo buono è
gennaio-dicembre. Non facendo mai troppo freddo, anche in inverno si possono
effettuare bellissime escursioni approfittando della (usualmente) migliore visibilità
e di temperature perfette per camminare, anche se si tratta di lunghe ascese.
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venerdì 19 giugno 2015
Richieste che lasciano sbalorditi
Sulla linea del post nel quale discettavo su domande insulse come “da
dove si parte per andare a ...?”, affronto ora l’argomento dei laureandi (sottolineo:
laureandi) che mi interpellano per avere informazioni o assistenza, in
particolare in merito alla cartografia. Fermo restando che apprezzo il fatto si rivolgano a me come se
fossi chissà quale grande saggio (cosa che non sono), talvolta mi pongono delle
domande che mi lasciano più che perplesso, direi esterrefatto, come nel caso di
stamattina.
Uno studente, non so di quale facoltà universitaria, mi ha chiamato
per chiedermi quale fosse la scala di una delle mie cartine online, dopo aver
premesso che il dato gli serviva per la sua tesi in (udite, udite) Cartografia.
La domanda mi ha colto di sorpresa considerato che mi era stata
posta da un tesista che si occupava della materia e non da uno sprovveduto. Ho
pensato che nella carta in questione non avessi riportato la scala grafica e
gli ho chiesto di controllare, ma mi ha risposto che c’era. Quindi gli ho spiegato
che per conoscere la scala avrebbe dovuto prima decidere il formato nel quale
volesse stamparla (A3, A4 o inserita nel testo) e poi desumerla dalle dimensioni
dell’immagine.
C’è voluto un po’ di tempo (troppo) e varie esposizioni del
concetto prima di convincerlo del fatto che non ero in grado di rispondere non conoscendo
il formato. Non sono sicuro che abbia recepito il messaggio e nel peggiore dei
casi potrebbe anche aver creduto che non volessi aiutarlo.
Il quesito conclusivo (ahimè senza risposta) è il seguente:
se un laureando in xxx (?), con tesi in Cartografia, non ha assimilato
neanche il concetto di scala, di chi è la colpa? Del sistema, del professore o dello
studente?
In ogni caso c’è qualcosa che non va.
A beneficio dei meno pratici riporto le definizioni della Treccani
(www.treccani.it) dalle quali risulta evidente l’imprescindibilità della nozione:
Mappa - Si chiamano mappe le rappresentazioni grafiche di una zona di terreno, quando la scala di riduzione è compresa tra 1:500 e 1:5000 (quali sono appunto le mappe catastali). Si dicono, invece,piante quelle in scala maggiore di 1:500, mentre si chiamano carte topografiche quelle da 1:5000 a 1:200.000 o anche a 1:250.000, carte geografiche quelle in scala ancor minore.
Scala - Nel disegno e nella cartografia, s. di riduzione, il rapporto numerico fra le distanze misurate sulla carta e quelle reali, che si esprime con una frazione che ha per numeratore l’unità; pertanto il denominatore è il numero per il quale bisogna moltiplicare le distanze misurate sulla carta per avere la corrispondente lunghezza sul suolo: così, per es., scala 1/100.000 o 1:100.000 (da leggersi: scala di uno a centomila) significa che una unità di misura lineare sulla carta (per es., 1 cm) corrisponde a 100.000 unità sul suolo (cioè a 1 km); il rapporto può essere anche espresso con la s. grafica, costituita da un segmento diviso in più parti con a fianco le indicazioni delle corrispondenti lunghezze reali.
Come è evidente dalle definizioni di concetti base della cartografia, la scala è determinabile solo avendo il disegno
stampato. Questo è uno dei motivi per i quali si utilizza la scala grafica in
quanto, qualunque sia la dimensione della stampa, aumenta o diminuisce nella
stessa proporzione del disegno rimanendo quindi sempre valida e veritiera. Una
semplicissima proporzione fornirà la scala di riduzione (in termini numerici) di quella specifica
stampa.
martedì 16 giugno 2015
Arancino eoliano e altre meraviglie dell'arcipelago
La
delizia del titolo (foto a sx) è una creazione originale di Liborio, proprietario della
rosticceria Mancia e fui. Conoscevo il
posto da almeno 15 anni e il fatto di trovarlo ancora aperto dopo una dozzina
di anni dalla mia ultima visita, allo stesso angolo del corso (area pedonale
dove si fa lo "struscio"),
con la stessa gestione e lo stesso nome lasciava molto ben sperare. Molte volte
chi ha successo con un prodotto si monta la testa e non mi sarei meravigliato se una rosticceria
classica come Mancia e fui fosse diventata un ristorante alla moda, con porzioni
ridotte, prezzi alti e qualità non adeguata. Per fortuna mia e di tutti gli
amanti delle rosticcerie/friggitorie (arancini, pizzette, calzoni, pitoni,
mozzarella in carrozza, schiacciate) Liborio non ha cambiato lo stile (e in
proporzione i prezzi), ma si è limitato a perfezionare la produzione
integrandola con sue creazioni originali come l'arancino eoliano proposto per
la prima volta 5 anni fa.
Di forma elissoide (dimensioni di un arancino al
burro, quindi sferico, schiacciato ai poli - vedi foto) vanta un ripieno di
capperi, tonno, cipolle, formaggio e un po' di pomodoro. Assolutamente da non
perdere se vi trovate a passare per Lipari. Oltre a essere ai primi posti nelle
varie classifiche di ristoranti/bar di Lipari (il che non conta molto anche se
basato su centinaia di recensioni) Mancia e fui è il preferito dalla
maggior parte dei liparoti ai quali ho chiesti suggerimenti gastronomici ... e
questo conta.
Come
dicevo, sono tornato a Lipari dopo una dozzina di anni e, seppur ovviamente
cambiata, devo dire che è rimasta piacevole e vivibile. L'importante è scegliere
il periodo adatto in base ai propri obiettivi.
Per
esempio, se le vostre mire sono soprattutto balneari sappiate che prima di
giugno l’acqua è abbastanza fredda. Se
invece siete più interessati alla fioritura sappiate che il meglio lo trovate
fra marzo e giugno anche se qualcosa di interessante si trova durante tutto l’anno.
Le
numerose agenzie che organizzano gite in barca nelle varie isole dell’arcipelago
sono proposte, orientativamente, solo da aprile a ottobre. Da novembre a marzo
avrete poche possibilità di andare in giro poiché anche i trasporti pubblici per
le isole minori sono limitati e talvolta addirittura cancellati prive di porto
a causa delle condizioni de mare. Durante questo mio recente breve soggiorno avendo
trovato mare calmo 8 giorni su 9 e più
caldo di quanto mi aspettassi, quindi ho rinunciato alle escursioni sui vulcani
e mi sono dedicato al mare (per fortuna anche questo meno freddo del normale) e
mi sono fatto portare dai vecchi amici del Popolo Giallo a Filicudi, Alicudi,
Panarea e Stromboli (vedi foto). Fino a 10 anni fa portavano me e i gruppi che
guidavo (quindi per lavoro) e questa è la seconda vacanza che faccio
affidandomi a loro. Ora hanno barche più grandi e comode e hanno mantenuto
intatto entusiasmo, cortesia e professionalità, in parole povere più che
affidabili.
Tutte le isole sono abbastanza grandi da offrire agli escursionisti percorsi di vario genere ed impegno. Temperatura del mare permettendo, i posti dove tuffarsi dalle barche o dalle spiagge in un acqua azzurra e pulitissima non si contano. Ogni isola è caratterizzata da grotte, archi naturali e scogli di varie dimensioni. Aggiungendo i due vulcani attivi, la flora mediterranea, la possibilità di effettuare immersioni subacquee o semplice snorkeling e non da ultimo l'ottima cucina liparota si capisce perché le Eolie sono una destinazione appetibile per tutti, in qualunque periodo.
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sabato 13 giugno 2015
Come si fonda(va) una città
Non
tutte le città sono nate con un paio di case, alle quali se ne sono aggiunte successivamente altre. Dal XVI secolo (dal 1510 in Messico e 1528 in Perù) fino
a tutto il XVIII gli spagnoli sono stati maestri in questa “arte” applicata
alla conquista e controllo dei territori non solo della Nueva España, ma anche di tutta l’Hispanoamerica. Una
delle ultime (1781) ad essere pianificata secondo las Leyes de Indias è oggi
una delle grandi metropoli americane. Sto parlando di Los Angeles, fondata poco più di 200 anni fa da soli 44 spagnoli
con il lunghissimo nome di Pueblo
de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles de la Porciúncula. Non è
necessario esseri geni o storici esperti per indovinare che il frate facente
parte della spedizione era un francescano visto il riferimento alla chiesetta di
Santa Maria degli Angeli in Porziuncola
(Assisi), oggi Basilica Papale, dove ebbe origine il francescanesimo. Come
è risaputo, gli Spagnoli conquistavano e governavano militarmente e
religiosamente, nel bene e nel male. Ogni spedizione veniva accompagnata da uno
o più religiosi, di solito francescani o domenicani e pertanto nei nomi dati
alle città veniva inserito quello della Madonna (Nuestra Señora) o santo protettore
salvo perderlo successivamente, limitando la lunghezza dei nomi ad un paio di
parole. Per esempio Buenos Aires fu fondata (per la seconda volta, nel 1570)
con il nome di Real de Nuestra Señora Santa María del Buen Ayre.
Mappa della fondazione di Córdoba de La
Nueva Andalucía (1573), oggi Argentina
Le oltre
30 disposizioni di legge erano ben precise e si basavano su una logica
politico-militare che quindi doveva soddisfare criteri strategici, di potere e
ovviamente di buona urbanistica, senza dimenticare la religione. La pianta
della città con le piazze, le strade e le proprietà veniva tracciata con strumenti
adatti per avere strade rettilinee perpendicolari fra loro, a partire dalla Plaza Mayor sulla quale, oltre agli edifici
istituzionali e alla chiesa, si dovevano affacciare gli edifici più importanti.
Era il centro fisico e sociale e lì si organizzavano mercato, feste, esibizioni
equestri, balli, sfilate e anche esecuzioni capitali. Lì convergevano le strade
principali che conducevano alle porte della città ed all’esterno di queste si doveva
lasciare spazio libero sufficiente in modo che in caso di crescita l’abitato si
potesse allargare in modo simmetrico lasciando la Plaza Mayor al centro. Questa doveva essere di forma rettangolare,
possibilmente di proporzioni 2:3, di dimensioni adatte al numero di abitanti e comunque non
inferiori a 200x300 pies e non
maggiori di 500x800. Una piazza di media grandezza, ben proporzionata, misurava
quindi 110-120m per 165-180m (il pie
castellano equivale a poco meno di 28cm).
Le
strade principali dovevano partire dal punto medio di ciascun lato (anche se
questa era la disposizione che più spesso veniva disattesa) e ai lati, così
come la piazza, erano coperte da portici. Si stabiliva altresì che le strade
dovessero essere larghe nelle regioni fredde e strette in quella calde (per
prendere più o meno sole), senza dimenticare però per queste ultime di
lasciarle abbastanza ampie per il passaggio dei cavalli.
La
chiesa doveva essere l’edificio che dominava la piazza e si precisava che in
alcuni casi era opportuno che non fosse allineata con gli altri edifici, bensì
un poco arretrata, in modo da distanziarsi da essi per mettere in risalto la
facciata e farla apparire più maestosa innalzandola rispetto al livello della
strada in modo che la gente debba salire una scalinata prima di entrare.
Raramente
si consentiva che le proprietà prospicienti la piazza fossero private in quanto
erano riservate a edifici pubblici. Per esempio si prevedeva anche che el hospital (per poveri e malati non
contagiosi) fosse costruito nella parte nord in modo che la facciata guardasse
a sud. All’atto
della fondazione i lotti venivano sorteggiati e, quando il gruppo di coloni era
limitato, alle coppie senza ancora figli erano assegnati con la condizione che
procreassero entro un anno, pena la perdita della proprietà.
La
fondazione di una città era quindi un’azione ben pianificata, si individuava il
posto, si prendevano le misure, si tracciavano sommariamente le future strade,
di delimitavano i lotti, si trasportavano i materiali e infine si organizzava
la cerimonia ufficiale alla quale partecipavano tutti i nuovi (e primi)
cittadini. Questi di solito provenivano da altre città vicine e lo stesso
governo della regione emanava un bando per invitare i coloni a trasferirsi
allettandoli con notevoli vantaggi, ma tutti erano anche ben consci dei rischi connessi.
Alla
cerimonia ufficiale partecipava un rappresentante del Governo, un prelato, un
ufficiale in rappresentanza dell’ordine militare e il notaio che certificava il
tutto. Veniva eretta una croce nel punto dove si sarebbe costruita la chiesa, il
rappresentante di Governo brandiva la spada verso i quattro punti cardinali e la
conficcava in terra per prendere simbolicamente possesso dell’area, venivano
sorteggiati i lotti e la loro attribuzione con i numeri indicati nella mappa e
i nomi degli assegnatari venivano riportati nell’atto.
mappe della fondazione di Mendoza (Argentina) e di Cuenca (Ecuador)
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giovedì 11 giugno 2015
Ulteriori notizie sui Viscuotti (biscotti di grano)
Oggi
è difficile trovare quelli originali, duri “come
pietre”, che si diceva potessero conservarsi per secoli. Ciò è quasi
vero teoricamente ed è in parte dimostrato da un pilot biscuit del 1870 ancora intatto, conservato in un museo
inglese, mentre il più vecchio hard tack tuttora esistente dovrebbe essere
quello esposto in un museo danese, datato 1851. Purtroppo
la tendenza moderna è quella di addolcire, blandire e ammorbidire tutto come se
la gente non avesse più i denti e quindi abbondano quelli molto friabili, che
si rompono appena stretti con una mano e che appena vedono l’acqua diventano
una pappetta.
A
bordo delle galee, un lauto pranzo era composto da bizcocho, un piatto di miele, uno di olive ed un altro, piccolo, di
formaggio a fettine. Le razioni diarie per i privilegiati arrivavano fino a 26
once (circa 750g) ma in caso di necessità erano ridotte a 20 (560g) più una almueza
de mazamorra. Credo sia indispensabile che spieghi questi due termini, intraducibili con una sola parola.
Almueza: quello che riescono a contenere le
due mani affiancate, in posizione concava
Mazamorra: le briciole e i pezzettini che si
staccano dai bizcochos e che restano
alla base della provvista. In casi estremi dava solo mazamorra e abbiate presente che (i più delicati di stomaco saltino
la fine di questa descrizione) "dopo aver scartato gli insetti, le larve,
la paglia e gli escrementi di topi, non ne restava che la quinta parte".
Il problema insetti (noi diremmo molto genericamente pappici) era talmente diffuso e sentito che uno dei nomignoli
inglesi delle gallette è worm castle
(castello di vermi).
In
quasi ciascun idioma esiste un antico modo di dire che evidenzia l'importanza e
l'imprescindibilità dei biscotti di grano per la sopravvivenza in mare, ma erano
altrettanto fondamentali per i soldati in guerra ed il significato si può applicare
a chiunque: "Embarcarse con poco bizcocho" * "'Mbarcarse
senza viscuotte" * "Imbarcarsi
senza gallette". Ci si
riferisce a quelli che intraprendono una qualunque attività senza possibilità
di riuscita per non avere mezzi sufficienti, o scorte, o attrezzi o, in senso
lato, esperienza o capacità.
‘O
Viscuotto è in giro da millenni, tant’è che gli Egiziani già producevano qualcosa
di molto simile (dhourra cake), i
Romani lo chiamavano bucellum, i
crociati di Re Riccardo muslin bisket,
in inglese hanno avuto poi vari nomi alcuni di uso proprio come ships biscuit, pilot cracker o il più generico hardtack,
altri erano nomignoli e oltre il già citato worm
castle c’era il molto significativo (in riferimento alla loro durezza) molar breakers (rompi molari). Alla
fine del ‘500 la razione giornaliera dei marinai della Royal Navy britannica
era costituita da un pound di hardtack e un gallone (circa 3,5 litri)
di birra! F. R. de Chateaubriand (1768-1848) scrisse che durante il suo primo viaggio verso le Americhe cenava con un biscuit de vaisseau (galletta da galera), un po’ di zucchero e un limone.
In quanto
alla durevolezza si porta come esempio il fatto che durante la guerra civile
americana le truppe vennero alimentate con le gallette preparate 15 anni prima per
guerra contro il Messico.
Si dice che talvolta i soldati inglesi li frantumavano con il calcio del fucile e poi
li bollivano ottenendo una specie di porridge,
ma anche che furono usati tostati e ridotti in briciole finissime per ottenere
un surrogato del caffè.
Anche se Napoleone iniziò a introdurre i primi cibi
inscatolati all’inizio dell’800, le gallette rimasero il cibo principale delle
truppe fino alla I Guerra Mondiale.
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lunedì 8 giugno 2015
Viscuotti, i veri e antichissimi bis-cotti in quanto cotti due volte
Come spesso mi accade, nel mio frenetico saltellare da un
argomento all’altro, mi sono imbattuto in elementi facilmente collegabili fra
loro seppur provenienti da indagini e osservazioni completamente diverse.
Parto dai bizcochos (pron. biscocios, vocabolo spagnolo) che nel corso
della lettura di Viaje de Turquía (1557, narrazione delle avventure e
disavventure di un marinaio spagnolo catturato dai turchi, portato in catene a
Costantinopoli ed infine fuggito e rientrato in patria) ho appreso essere la
parte sostanziale della razione giornaliera di cibo fornito a bordo delle galee.
Se si prevedevano facili futuri rifornimenti se ne distribuivano 18 once a testa (1 libbra romana e mezzo, poco
più di mezzo chilo), riducendo la razione ad una sola libbra (12 once) ed anche
meno in caso di scarsità di bizcochos
e navigazione ancora lunga. Nel
suddetto testo il protagonista spiega al suo interlocutore come si preparavano
MATA: ¿Qué es bizcocho …? PEDRO: Toman la harina sin cerner ni nada y hácenla pan; después aquello hácenlo cuartos y recuécenlo hasta que está duro como piedra y métenlo en la galera;
Penso che la traduzione sia evidente e mi preme solo sottolineare,
come del resto fa il protagonista, che lo cuocevano una seconda volta fino a
farlo diventare “duro come una pietra”. Con minime differenze sia i Turchi che
gli Spagnoli li utilizzavano ed è noto che anche la marineria napoletana si seguiva
la stessa prassi.
L’etimologia mi sembra abbastanza evidente e a destra è quanto
riportato in etimo.it, eppure mi sono imbattuto in una ipotesi (direi
azzardata) di Pietro Parisi in questa pagina della quale vi riporto il contenuto
Vascotta e vascuotto * Nella tradizione delle zone vesuviane, la vascotta è un pezzo di pane dalla forma allungata. Della parola vascotta non esiste un riferimento nel dialetto napoletano, sembrerebbe quasi ignorato, sostituito dal termine fresella. Dalla vascotta si ottiene una sorta di biscotto, il vascuotto; dopo una prima cottura, la vascotta, preventivamente incisa, viene tagliata a fette e queste vengono poi riposte in forno e biscottate.
In rete ci sono tante pagine dedicata ai pezzi di pane cotti
due volte che, a seconda delle tradizioni locali, sono prodotti in varie forme
e commercializzati con vari nomi, ma il processo di preparazione è praticamente
identico dovunque ed uguale a quello di tanti secoli fa.
Per puro caso ho approfondito questo argomento (per me
affascinante e appetitoso) a Lipari
(isole Eolie) dove quasi tutte le trattorie, le rosticcerie, gli snack-bar e
anche vari ristoranti propongono il pane cunzatu che altro non è che una
grossa fresella (di quelle piane e
circolari) condita (cunzata),
ma meglio sarebbe dire coperta, di numerosi ingredienti combinati a gusto dello
chef e/o del cliente (foto a sx). La sola fresella è il pane caliato, nome che mi riporta
alla mente i ciceri caliati (una volta "famosi" e ormai quasi
completamente dimenticati) ai quali sono stato introdotto da Mast'Armando e
per questo gliene sarò eternamente grato. Per inciso, in Sicilia si chiamano calia (foto a dx) e vengono ancora venduti sulle bancarelle in occasione delle feste.
Il pane
cunzatu classico era condito semplicemente con pomodorini, olio e
origano e talvolta formaggio caprino e qui a Lipari aveva altra forma. Da vari anni qualcuno a cominciato a proporre
versioni molto più ricche e, visto il successo, ora si trovano praticamente tutte le combinazioni
di condimenti che vengono proposti anche per pizze e piadine. A mia memoria la nostra caponata
(napoletana, che non ha niente in comune con quella siciliana che,
semplificando, è a base di verdure, soprattutto melanzane, in agrodolce) non
sempre includeva i pomodori (solo in stagione), ma aveva molti ingredienti che,
essendo conservati o non stagionali, erano disponibili tutto l’anno:
cipolle, olive, acciughe, tonno, melanzane sott’olio, capperi
e origano.
Altra curiosità: ho scoperto che esisteva un capón
de galera che non aveva niente a che vedere con el capón (il cappone), ma
era nientemeno che una specie di salmorejo, a base di
scorza di pane o bizcochos, che veniva propinato ai rematori delle galee, e da capón a caponata il passo è molto breve.
La mia domanda finale è: perché solo molto raramente nei menù della miriade di
esercizi del settore ristorazione viene proposta la caponata napoletana con gli ottimi e tradizionali v'scuott
'e 'rano accompagnati qualunque combinazione di condimenti locali?
Perché non far conoscere un piatto assolutamente tradizionale, facile da preparare
ed adattabile anche alle esigenze dei più "impicciosi" come fanno con successo i liparoti? Non da ultimo sarebbe anche un ottima promozione per i
prodotti locali originali senza dover ricorrere ad etichette ormai abusate di
tipicità, origine e "presidi" ...
sabato 6 giugno 2015
Arroganza e scostumatezza indicatori di stupidità = autolesionismo
Ieri,
passando per Napoli, mi sono reso conto di quanto non sia migliorata e quanto
lontana sia dagli standard europei. Non sto qui ad elencare tutte le cose che
non vanno e che dovrebbero essere migliorate in quanto molti lo sanno a gli altri
lo possono immaginare. Voglio piuttosto sottolineare (pur essendo egualmente
risaputo) che la gran parte delle colpe sono da attribuire ai cittadini, in
particolare in quanto a rifiuti e traffico. Prendersela solo ed esclusivamente con politici,
amministratori e forze dell’ordine è assolutamente inutile e talvolta ingiusto (anche se pure alcuni di loro non sono del tutto incolpevoli).
Propongo
un paio di esempi molto diversi fra loro e riscontrabili, purtroppo, anche in
varie zone considerate più “civili” e meno caotiche di Napoli, come quelle a
vocazione turistica della Penisola Sorrentina e Costiera Amalfitana.
1)
A margine delle strade (non solo quelle meno frequentate), nei rivoli e anche
nelle aree verdi a tutti è capitato di vedere rifiuti abbandonati, anche
ingombranti come lavatrici e poltrone. Si grida allo scandalo e ci si indigna, ma
pochi evidenziano la demenza degli autori che non utilizzano il servizio di
raccolta a domicilio per questo tipo di oggetti, oltretutto fornito
gratuitamente dalla maggior parte dei Comuni.
Questi
imbecilli caricano il “pezzo” (suppongo con una certa difficoltà a causa del
peso e delle dimensioni) sul loro veicolo rischiando di danneggiarlo e lo vanno
a scaricare, con ulteriore fatica, da qualche parte. Se considerate il rischio di
essere beccati sul fatto con conseguente multa e denuncia, essere semplicemente
visti da qualcuno di conosciuto (non ci fanno comunque una bella figura), rischio
di danni alla macchina, ape o camioncino che sia, rischio ernia … invece di
fare una semplice telefonata, la loro stupidità è lampante. Non da ultimo,
visto che la rimozione di questi oggetti da luoghi non consoni costa molto di
più del semplice ritiro a domicilio, ci ritroviamo tutti con una TARSU più
alta.
2)
Sosta inopportuna per “guadagnare tempo”. Quante volte ci si trova bloccati nel
traffico a causa di un bus o un camion che non poteva percorrere una curva a
causa di un’auto fuori posto? Nella maggior parte dei casi l’incivile ha
lasciato lì il suo veicolo per percorrere qualche decina di metri in meno “risparmiando”,
forse, una trentina di secondi. Anche ammettendo che ripeta l’operazione una
decina di volte con successo (quindi senza essere multato o mazziato), la prima
volta che è lui a trovarsi imbottigliato perderà tutti i secondi guadagnati e anche
di più.
A
proposito del “Tempo”, Eduardo De Filippo in Questi fantasmi scriveva:
Raffaele: Perché se guadagni del tempo cosa te ne fai? lo mangi il tempo? e se perdi del tempo sei ridotto sul lastrico?
Inoltre,
fa molto innervosire il fatto che spesso a soli 5 o 10 metri c’è posto per
fermarsi regolarmente senza intralciare in alcun modo il traffico e quindi
scompare anche l’ultima possibile giustificazione (“solo lì era possibile”).
Molta gente, se potesse, vorrebbe arrivare in macchina o motorino fin dentro i negozi,
salire le scale della scuola per non far stancare il figlioletto (probabilmente
sovrappeso proprio per questo rifiuto all’attività motoria, anche la più
naturale) e si potrebbe continuare con mille esempi.
Questi
incivili, arroganti e scostumati (di conseguenza autolesionisti, vedi immagine a lato), se avessero un po’ di sale in zucca agirebbero
in modo un po’ più rispettoso dei diritti ed esigenze degli altri ricavandone
vantaggi anche per sé stessi.
Non facendolo restano nel quadrante degli stupidi
che si danneggiano da soli oltre a creare non pochi problemi agli altri.
Per raddrizzare la barca e non andare alla deriva ognuno dovrebbe metterci un minimo di buona volontà, che costa molto poco, quasi niente.
Vedi
il post introduttivo all’argomento stupidità (9/10/13) e gli altri successivi
(cerca “stupidità” con il motore di ricerca interno al blog)
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