lunedì 29 giugno 2015

Integrazione al post precedente

Poche ore dopo aver pubblicato il post Stupidità: un racconto morale e qualche aforisma, mi sono imbattuto nel chiarimento che Umberto Eco ha sentito la necessità di pubblicare in merito a frasi a lui attribuite in un articolo apparso online la settimana scorsa.
Vi invito quindi a leggere lo scritto di Umberto EcoUn appello alla stampa responsabile, piacevole e arguto come sempre, nel quale si torna a parlare di imbecilli e quindi di stupidità. Nell'articolo pubblicato su L'Espresso-Repubblica, oltre a chiarire la propria posizione in merito al rapporto web/imbecilli, ne fa un'attenta analisi e ipotizza delle possibili soluzioni. 

Stupidità: un racconto morale e qualche aforisma

Torno su questo argomento già trattato in più post (li trovate utilizzando il motore di ricerca interno) proponendo un breve racconto buddista sul tema. Come spesso accade in questi casi, la storia è volutamente esagerata per essere esemplificativa e, per rendere meglio l’idea e (si spera) farla rimanere più impressa nella mente, il concetto viene ribadito narrando due eventi diversi molto simili. Mi è sembrata divertente (nel suo genere) anche se limitata alla nota questione del “rimedio peggiore del male”.

Due ragazzi stupidi
C’era una volta un vecchio falegname calvo, con la testa talmente lucida da riflettere i raggi del sole ed abbagliare la gente. In un giorno assolato una famelica zanzara, attratta dalla testa del falegname, vi si posò e cominciò a pungere. L’uomo, impegnato a piallare un pezzo di legno, sentì la zanzara e cercò di cacciarla, ma il famelico insetto non voleva lasciare il pasto che sembrava così appetitoso. Così l’uomo chiamò suo figlio e gli chiese di liberarlo dall’ostinata scocciatrice. 
A differenza della testa splendente del padre, il figlio non era altrettanto brillante. Ma era lavoratore e obbediente e quindi rispose: “Non ti preoccupare, sii paziente, ucciderò quell’insetto con un solo colpo!”. Così prese un’ascia affilata, mirò con cura la zanzara e, senza pensarci due volte, la tagliò di netto in due! Sfortunatamente, dopo aver affettato la zanzara, l’ascia spaccò in due anche la testa calva e splendente del vecchio falegname.

In tutto questo, un consigliere del re si trovava a passare da lì e quelli che lo accompagnavano, avendo visto quanto accaduto, rimasero sconcertati di quanto si potesse essere stupidi. Il consigliere disse: “Non siate sorpresi dalla stupidità umana! Appena ieri, una donna stava pulendo il riso nel mortaio usando il pestello. Appena cominciò a sudare uno sciame di mosche cominciò a ronzare attorno alla sua testa. Tentò di allontanarle, ma le mosche non se ne andavano. Allora chiamò sua figlia e le chiese di cacciare i fastidiosi insetti. La ragazza, benché abbastanza sciocca, tentava sempre di accontentare sua madre. Così lasciò il suo mortaio, alzò il pestello e mirò con cura la mosca più grande e tenace. Senza pensarci oltre, schiacciò la mosca uccidendola! Ma ovviamente, lo stesso colpo che uccise la mosca pose anche fine alla vita della madre.”
Il consigliere concluse la storia dicendo: “Sapete come si dice: Con amici come questi, chi ha bisogno di nemici?
Morale: Un nemico saggio è meno pericoloso di un amico stupido.

Aggiungo questa mezza dozzina di aforismi che dovrebbero far riflettere (attività mai praticata a sufficienza):
  • “La stupidità è come il male, se si giudica dai risultati.” Margaret Atwood
  • “Il massimo dell’ignoranza è rigettare qualcosa che ancora non si conosce per niente.” Wayne Dyer
  • “Se pensate che la cultura costi troppo, provate l’ignoranza.” Derek Bok
  • “Essere coscienti della propria ignoranza è una grande passo verso la saggezza.” Benjamin Disraeli
  • “La cultura è la progressiva scoperta della propria ignoranza.” Will Durant
  • La stupidità è per sempre, all’ignoranza si può rimediare.” Don Wood

Concludo questo breve post riproponendo la mia massima preferita (anch’essa appartenente alla tradizione buddista) che ho scelto anche come mio motto nel profilo Google+:
Io brandisco una sola spada, la spada della Saggezza, e riconosco un solo nemico: l’Ignoranza.

In pratica, come suggerito anche in qualcuno dei succitati aforismi, si sottolinea il desiderio di conoscere nuovi stili di vita, teorie e idee, senza mai accontentarsi di quel poco che già si sa (o si pensa di sapere) in contrasto con il rifiuto di conoscere e confrontarsi, restando nel solito ambiente, facendo le stesse cose e seguendo passivamente masse e mode.

venerdì 26 giugno 2015

La bellezza della geometria esaltata dall’arte

I motivi geometrici sono presenti nelle arti decorative da tempo immemorabile, ma innegabilmente hanno raggiunto i massimi livelli nell'arte islamica. Si va da motivi relativamente semplici non ornati artisticamente, che si trovavano quasi in ogni casa sia all'interno che all'esterno, fino a intrichi di linee e di forme estremamente elaborati, combinati con una grande varietà cromatica. 
Si parte quasi sempre da un disegno regolare per poi estenderlo o riempire gli spazi circostanti con elementi di forma assolutamente diversa eppure perfettamente complementari. Caso classico e diffusissimo è quello della stella a 8 punte normalmente abbinata con la “croce” (in effetti i 4 bracci con lati paralleli, terminanti con un triangolo equilatero). Pannelli o pavimenti realizzati con questa combinazione di forme furono molto utilizzati e possono apparire molto diversi a seconda dell’inspessimento dei bordi di una o dell’altra forma e dalla posizione, vale a dire se si vede la croce come un “+” o una “x”.
   

Nei pannelli più eleganti le “stelle”, avendo superficie ben maggiore delle croci e ampio spazio centrale, sono finemente decorate con rappresentazioni anche complesse di scene mitologiche, personaggi, animali e piante. Le croci, invece, date le dimensioni ridotte e soprattutto essendo “strette” sono ornate con dettagli e motivi più piccoli, spesso ripetuti, comunque molto accurati.

A partire invece dalla stelle a 12 punte, inserite in dodecagoni regolari, che a loro volta sono dentro esagoni regolari, si possono creare una infinità di motivi scegliendo quali linee esaltare e quali spazi riempire fra la moltitudine di triangoli equilateri, quadrati, stelle regolari e irregolari a 4, 5, 6 e 12 punte come si può osservare nell’immagine a lato. E un artista saprà certo individuare ancora tante altre forme e disegni. In particolare questa trama a base esagonale/duodecimale permette di decorare pannelli, pareti e altre superfici con forme del tutto irregolari, spesso policrome, servendosi anche di triangoli scaleni scaleni derivati.
Anche una trama pentagonale/decagonale può comprendere tante forme diverse e fuori norma come per esempio questa porta in legno. Pur derivando da un disegno assolutamente regolare, l'artista ha saputo trarre forme molto varie a partire da un apparente caos di linee. Si notano in particolare evidenti pentagoni concentrici, orientati diversamente e separati da una stella a 5 punte.

Ulteriori varianti si creano curvando parte delle linee. 
Per esempio, nel pannello a sx spiccano chiaramente stelle a 6 punte, ciascuna contornata da tre “onde” colorate che hanno come base due lati contigui degli esagoni regolari (chiari). A partire invece dalle stelle colorate ci sono tre “onde” chiare delle stesse dimensioni delle colorate, che con esse si completano riempiendo ogni spazio. I colori delle onde che si ripetono secondo linee diagonali e quelli delle stelle in senso orizzontale aggiungono movimento e varietà al disegno nel suo complesso. 
Qui in basso c'è invece la stella a 10 punte costruita facendo ruotare due stelle a cinque punte di identiche dimensioni e concentriche. La sequenza di disegni dimostra come, scegliendo accuratamente gli spazi fra le medesime linee, si possano ottenere forme ed effetti completamente diversi.

Questi tipi di disegno sono stati portati ai massimi livelli in opere dell’arte islamica dei generi più diversi, e non solo su superfici piane come pavimenti, pannelli, porte, pareti, ma anche in realizzazioni molto più ardue come archi, volte, vasi e altre superfici curve. Tempo fa su Repubblica furono proposte numerose foto di interni di moschee e mausolei, con disegni estremamente intricati e coloratissimi (anche se ho l’impressione che le tinte siano state un po’ troppo modificate), opere che senz’altro necessitarono di una maestria eccezionale, non solo artistica ma anche tecnica.
Quelli che si sono incuriositi leggendo questo brevissimo excursus e quelli che non si sono mai imbattuti in questo tipo di realizzazioni, o che le hanno guardate con occhio distratto, potranno trovare in rete migliaia di foto ed anche molti testi interessanti per approfondire l’argomento.
  

mercoledì 24 giugno 2015

Metodo investigativo, scientifico e poliziesco, Pierce e Holmes

Come in altri casi simili, con questo post miro solo ad incuriosire i lettori e non certo ad analizzare a fondo teorie e processi logico-filosofici che negli anni sono stati oggetto di studi approfonditi, tesi e che hanno riempito libri interi. 
A partire dalla teoria elaborata da Charles Sanders Pierce (matematico, filosofo, semiologo, logico e scienziato statunitense, 1839-1914) passerò a parlare brevemente di Sherlock Holmes il quale, seppur solo nei casi immaginari descritti da Sir Arthur Conan Doyle, applica alla perfezione la logica dell’abduzione.
Questa, secondo Pierce, è il solo processo logico che permette di ampliare le nostre conoscenze in quanto ci spinge a cercare leggi e regole che ci permettano di prevedere le conseguenze certe di una azione o situazione.  Non ha una validità logica assoluta, ma porta i ricercatori ad elaborare e poi investigare una teoria plausibile, a partire dai dati ed eventi osservati.
Nel sistema logico di Pierce l’abduzione e la deduzione contribuiscono alla comprensione di un fenomeno, con l’induzione che apporta una quantità di verifiche e riscontri. Pierce, pur giustificando la validità dell’induzione in quanto processo auto correttivo, affermò che né induzione deduzione possono aiutare a svelare la struttura interna del significato.
Nella logica dell’abduzione lo scopo è quello di analizzare i dati, trovare uno schema, e suggerire una ipotesi plausibile. La deduzione perfeziona le ipotesi basate su premesse plausibili l’induzione è la prova sperimentale. Il costante riproporsi di esiti identici consolida la teoria ipotizzata con l’abduzione, senza fornirne tuttavia certezza assoluta, mentre un solo insuccesso dimostrerebbe che essa non è valida e, se non del tutto errata, deve quindi essere rielaborata tenendo conto dei risultati non congrui. Confermando l’ipotesi, si ricavano leggi e regole dalle quali potranno conseguire nuove deduzioni (per definizione, certe). 

Chi ha reso famoso questo tipo di processo logico (anche se i più non lo riconoscono e non ne colgono l’enorme valore) è stato Sir Arthur Conan Doyle con il sua creatura Sherlock Holmes, personaggio apparso  nel 1887 nel romanzo A Study in Scarlet (Uno studio in rosso). 
L’abilità di Holmes risiede essenzialmente nel notare un gran numero di particolari che, seppur apparentemente insignificanti, messi in relazione fra loro gli consentono di escludere ipotesi e conclusioni a prima vista ovvie e, per eliminazione, di giungere ad una soluzione plausibile, spesso quella giusta.
Certamente lo scrittore scozzese, medico prima di dedicarsi alla prosa, doveva conoscere molto bene le teorie di Pierce e vari assiomi di queste sono citati, più o meno esplicitamente, in alcune famose affermazioni di Sherlock Holmes:
  • Teorizzare senza avere dati è un errore madornale. Insensatamente si distorcono i fatti per giustificare una teoria, invece di elaborare una teoria plausibile che spieghi i fatti
  • Dopo aver eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga, per quanto improbabile, deve essere la verità
  • Non faccio mai eccezioni. Una eccezione invalida la regola
  • Non esiste nulla di più fuorviante di un fatto ovvio
  • Le emozioni sono antagoniste di un ragionamento limpido

A puro titolo di curiosità e giusto per sottolineare la notorietà mondiale del personaggio di Sherlock Holmes, sappiate che in moltissimi paesi gli sono stati addirittura dedicate serie di francobolli e non solo nel Regno Unito ma anche in luoghi lontani come la Polinesia e nazioni non anglofone come il Nicaragua.

Chi vorrà saperne di più, in particolare nel campo della logica, potrà effettuare una ricerca in rete utilizzando, oltre abduzione (che può portare ad alcuni risultati relativi alla fisiologia), parole chiave come inferenza abduttiva, Pierce, logica. Se poi la ricerca si effettua in inglese, l’aggiunta di ulteriori keywords è indispensabile in quanto la parola “abduction” è comunemente riferita a rapimento, spesso per fini sessuali, in seconda battuta al campo della fisiologia e solo in ultimo al processo logico. Quindi, per giungere a pagine interessanti, è fondamentale aggiungere almeno una seconda parola come Pierce, logic, philosophy, reasoning, inference o altre simili. Oltre ai molti testi “seri”, che spesso risultano troppo filosofici ed eruditi per essere letti piacevolmente, ci sono articoli più divulgativi che comunque riescono a fornire un’idea della valenza, e soprattutto del fascino, dell’inferenza abduttiva.  Vi segnalo alcuni articoli
Per chi ha familiarità con l’inglese, potrà essere interessante leggere questo articolo a firma John Gray (BBC News magazine) www.bbc.com/news e un post che lo critica apertamente thinkofhappysquirrels.wordpress.com/

lunedì 22 giugno 2015

Vuallariello: toponomastica, percorso e antropologia

Quanto vado a esporre di seguito con brevi note non vuole assolutamente entrare nel merito della non troppo latente polemica relativa alla “riscoperta” e pulizia di un antico e tradizionale percorso. L'unico fine di questa sommaria indagine basata su documenti, fonti orali e ricognizione, nonché della bozza di cartina allegata è stato quello di cercare di saperne di più in merito ai nomi e all'uso che di questi sentieri si è fatto per secoli.
* Il toponimo Vuallariello (e non Uallariello Guallariello), senza ombra di dubbio derivante dall’uso orale ancorché di etimologia sconosciuta, era già presente nell’elenco delle “Strade Nazionali, Provinciali, Comunali e Vicinali” del 1902, aggiornato e corretto nel 1911 e pubblicato il 30 giugno dello stesso anno. E' tornato (meglio sarebbe è giunto per la prima volta) all’attenzione dei più non-terminesi a seguito della pulizia/ripristino di un sentiero che mena al San Costanzo lungo le falde nord-occidentali del Monte, a partire da Cercito.
Oltre ad evidenziare la corretta scrittura del toponimo (che come tutti quelli presi dalla tradizione è di difficile ed incerta trascrizione) è anche necessario dire che il tratto ripulito non è il Vuallariello, bensì la strada vicinale Le Selve, come determinato nell’elenco suddetto alla partita n. 63.

La strada vicinale Vuallariello, partita n. 68 del medesimo elenco, inizia a monte della ormai nota e bellissima scala fra le due pareti calcaree, e termina sul crinale frala cima Santa Croce e Punta Campanella, poco a monte della spianata di Campo Vetavole.
L’attuale parte bassa della vic. Le Selve, si diparte da via Campanella con il il nome odierno di via Cercito (così è registrata all’anagrafe). Procedendo verso monte, dopo un centinaio di metri si trova una breve diramazione fra le case (a sx) e dopo altri 200m circa una verso destra più lunga (poco meno di 300m di sviluppo) e praticamente in quota. Circa 400m dopo il suddetto secondo bivio si perviene alla caratteristica scala fra le rocce e, lasciando l’ombrosa e fresca sévera (selva, in zona è di solito riferito a un castagneto) si giunge all’aperto sulle balze occidentali del Monte e dopo un centinaio di metri,che comprende un breve tratto in discesa, in poco spazio la vicinale di divide in tre.
Questo appena descritto è il tratto oggetto del recente intervento di ripristino fino a pochi metri oltre la scala. Di lì è stata diserbata una nuova traccia che conduce fino al sentiero comunemente percorso fra l’Alta Via dei Monti Lattari (CAI 300, poco a monte di Campo Vetavole) e piattaforma di cemento con ringhiera (belvedere) sopra la frana del 1973. Quindi, al momento, la parte finale della vic. Le Selve, la sua dir. C e la vic. Vuallariello non sono state assolutamente prese in considerazione. (vedi cartina semplificata)

Il primo bivio a sinistra prosegue praticamente senza dislivelli (solo minimi saliscendi) fino a poco oltre il crinale. Questa è la vera strada vic. Vuallariello, lunga poco più di 500 metri. Prosegue invece per circa 300m in leggera discesa (verso Prete janche) la vic. Le Selve, che conta una terza e ultima diramazione (lunga 300m ca. verso l’area a monte di Canciello) appena una ventina di metri dopo il bivio dal quale si diparte la vic. Vuallariello.
Questa serie di vicinali sono state per anni (si potrebbe dire per secoli) le strade più importanti di Termini in quanto collegavano il centro abitato con le fertili terrazze del Monte. In particolare a Campo Vetavole e nella zona circostante (più pianeggiante e quindi con terrazzamenti più ampi) si coltivava di tutto, perfino il grano e 'o jurmano (segale). Mi è stato riferito che era comune anche la coltivazione dei lupini e che nella cosiddetta “barracca ‘e De Angelis” (poco a monte della vic. Vuallariello) si allevavano vitelli.
In effetti nessuno è sicuro né dell’etimologia né della collocazione esatta del toponimo. Si diceva comunemente “jamm ‘ncopp ‘o Vuallariello” intendendo che sarebbero saliti passando per Cercito e dint’ ‘a  sévera. In effetti qualcuno, in epoca più o meno moderna potrebbe aver fatto confusione fra destinazione e itinerario.
Altra questione poco chiara è quella relativa al toponimo Canciello che finora conoscevo solo per indicare il passaggio di via Campanella nei pressi dell’edicola votiva, fra la parete rocciosa e il pinnacolo. Ma chi frequentava il Monte indicava con tale nome anche la zona più in alto e qualcuno mi ha proposto la distinzione fra canciello ‘e copp e canciello ‘e vascioValutando le varie informazioni potrei anche supporre che per Canciello si intendesse addirittura tutta la parete rocciosa verticale che si estende fra via Campanella e la scala della vic. Le Selve lungo una linea di frattura E-O e di conseguenza interpretare il toponimo come "chiusura" (la parete impassabile) e non abbinata ai due unici passaggi (lungo via Campanella e vic. Le Selve). Non sarà semplice venirne a capo.
Considerato che la maggior parte dei nomi presenti sugli elenchi e carte catastali sono stati ripresi già nell’800 dalla tradizione orale, spesso supportata anche da documenti notarili, sono propenso a credere che il Vuallariello fosse un’area a monte della scala nella roccia e non parte del castagneto. A prescindere dalle mie opinioni, il toponimo è tuttora ufficialmente abbinato solo ed unicamente alla succitata strada vicinale.
Il percorso ha perso di importanza per essere stato temporaneamente interrotto dalla frana del 1973 e per la costruzione della strada per il radar. In particolare a seguito di questa “comodità” quelli che per alcuni anni hanno continuato a coltivare i propri appezzamenti nella zona del Vuallariello erano soliti percorrere via del Monte fin’oltre l’antenna potendo così raggiungere il proprio campo in pochi minuti evitando grandi salite.
Nel corso delle mie indagini (interviste con persone che hanno frequentato l’area per anni) tutti mi hanno raccontato episodi e dettagli congruenti, che quindi ritengo affidabili e veritieri, a cominciare dal fatto che “se ne sono carriati viaggi …” (trasportato carichi sulle spalle) dal Monte a Cercito e Termini passando per il castagneto. Sono stati concordi anche nel descrivere quei sentieri (Selve, dir. C Selve e Vuallariello) come stretti percorsi battuti, e quindi evidenziati, esclusivamente dal loro quasi quotidiano passaggio dirigendosi verso i campi di Prete janche Campo Vetavole.
Come è evidente dedurre osservando le foto in basso, per una eventuale individuazione certa del tracciato catastale sarebbe più che mai necessario l’uso di stadia e teodolite o tacheometro, o altri strumenti simili. Non essendoci particolari ostacoli si passa più o meno dappertutto, seppur con qualche difficoltà a causa della vegetazione, e non ci sono segni evidenti dell’antico itinerario, se non sporadicamente. 
   
così si presentava l'area attraversata dalla vicinale Vuallariello sabato 20 giugno 2015
In questioni simili, riguardanti vecchi percorsi, nomi e tradizioni, penso sia sempre opportuno ed interessante, se non addirittura indispensabile, confrontarsi con quelli di qualche anno più grandi di noi.

domenica 21 giugno 2015

Lipari e le Isole Eolie – conclusioni

Ho appena caricato l’ultima raccolta di foto relative al mio recente soggiorno alle Eolie (gli interessati le trovano in questa pagina). Gli album pubblicati ieri e oggi si riferiscono all’Acropoli di Lipari, al centro storico e ne ho anche aggiunto un paio delle lunghissima spiaggia di ciottoli di Canneto (Lipari) e qualcuna dell’isola di Vulcano. Queste ultime dal livello del mare in quanto gli oltre 30° non avrebbero reso piacevole la salita al cratere che, come potrete vedere, è tutta esposta al sole. Ciò mi fornisce ulteriore buona scusa per tornare sull’isola per godermi ascesa e giro del cratere senza seguito di persone da accudire e controllare (come ho fatto per anni).
Tornando a Lipari, ho raccolto in un album le immagini di alcuni dei tanti punti di interesse concentrati nell’area di quello che fu il Castello. Per farla breve, lì si trovano ruderi del villaggio preistorico con le basi di capanne risalenti al neolitico e all’età del bronzo, l’interessantissimo e ricchissimo Museo archeologico Bernabò Brea (vai al sitoche, seppur relativamente piccolo, è unanimemente considerato uno dei migliori d’Italia, la cattedrale di San Bartolomeo con le sue splendide volte a crociera affrescate con scene di soggetto biblico, il contiguo Chiostro Normanno con capitelli raffiguranti animali fantastici, le mura medioevali che inglobano parte di quelle di epoca greca (V-IV sec. a.C.), i bastioni che si affacciano sul mare offrendo panorami vastissimi.
Il centro storico è per lo più costituito da una marea di vicoletti a ovest dell’Acropoli, attorno a Marina Corta e Supa a terra. Essendo stretti (così si costruiva nei paesi caldi) restano all’ombra per gran parte della giornata e per questo motivo, unito alla ventilazione naturale, restano freschi anche quando altrove il caldo è quasi insopportabile. Oltre ad andare in giro piacevolmente fra una granita e un arancino consiglio di non mancare, oltre ovviamente ad una lunga visita all’Acropoli, l’originale Presepe del mare allestito nella chiesa delle Anime del Purgatorio a Marina Corta (praticamente sul molo) e i due grandi murales nella piazzetta alla quale hanno dato il nome ora ricorrente: “piazzetta dei murales” (si trova Supa a terra).
   

In conclusione, le Eolie ed in particolare Lipari valgono senz'altro un viaggio, ma attenzione a scegliere i periodi migliori a seconda dei vostri interessi:
  • bagni: giugno-ottobre
  • escursioni: marzo-giugno e settembre-novembre
  • “movida”: luglio-agosto
  • andar per isole: aprile-ottobre


Tuttavia, se avete abbastanza giorni a disposizione e vi potete permettere qualche giorno di riposo in caso di cattivo tempo (cielo o mare), il periodo buono è gennaio-dicembre. Non facendo mai troppo freddo, anche in inverno si possono effettuare bellissime escursioni approfittando della (usualmente) migliore visibilità e di temperature perfette per camminare, anche se si tratta di lunghe ascese. 

venerdì 19 giugno 2015

Richieste che lasciano sbalorditi

Sulla linea del post nel quale discettavo su domande insulse come “da dove si parte per andare a ...?”, affronto ora l’argomento dei laureandi (sottolineo: laureandi) che mi interpellano per avere informazioni o assistenza, in particolare in merito alla cartografiaFermo restando che apprezzo il fatto si rivolgano a me come se fossi chissà quale grande saggio (cosa che non sono), talvolta mi pongono delle domande che mi lasciano più che perplesso, direi esterrefatto, come nel caso di stamattina.
Uno studente, non so di quale facoltà universitaria, mi ha chiamato per chiedermi quale fosse la scala di una delle mie cartine online, dopo aver premesso che il dato gli serviva per la sua tesi in (udite, udite) Cartografia.
La domanda mi ha colto di sorpresa considerato che mi era stata posta da un tesista che si occupava della materia e non da uno sprovveduto. Ho pensato che nella carta in questione non avessi riportato la scala grafica e gli ho chiesto di controllare, ma mi ha risposto che c’era. Quindi gli ho spiegato che per conoscere la scala avrebbe dovuto prima decidere il formato nel quale volesse stamparla (A3, A4 o inserita nel testo) e poi desumerla dalle dimensioni dell’immagine.
C’è voluto un po’ di tempo (troppo) e varie esposizioni del concetto prima di convincerlo del fatto che non ero in grado di rispondere non conoscendo il formato. Non sono sicuro che abbia recepito il messaggio e nel peggiore dei casi potrebbe anche aver creduto che non volessi aiutarlo.
Il quesito conclusivo (ahimè senza risposta) è il seguente:
se un laureando in xxx (?), con tesi in Cartografia, non ha assimilato neanche il concetto di scala, di chi è la colpa? Del sistema, del professore o dello studente? 
In ogni caso c’è qualcosa che non va.

A beneficio dei meno pratici riporto le definizioni della Treccani (www.treccani.it) dalle quali risulta evidente l’imprescindibilità della nozione:
Mappa - Si chiamano mappe le rappresentazioni grafiche di una zona di terreno, quando la scala di riduzione è compresa tra 1:500 e 1:5000 (quali sono appunto le mappe catastali). Si dicono, invece,piante quelle in scala maggiore di 1:500, mentre si chiamano carte topografiche quelle da 1:5000 a 1:200.000 o anche a 1:250.000, carte geografiche quelle in scala ancor minore.
Scala - Nel disegno e nella cartografia, s. di riduzione, il rapporto numerico fra le distanze misurate sulla carta e quelle reali, che si esprime con una frazione che ha per numeratore l’unità; pertanto il denominatore è il numero per il quale bisogna moltiplicare le distanze misurate sulla carta per avere la corrispondente lunghezza sul suolo: così, per es., scala 1/100.000 o 1:100.000 (da leggersi: scala di uno a centomila) significa che una unità di misura lineare sulla carta (per es., 1 cm) corrisponde a 100.000 unità sul suolo (cioè a 1 km); il rapporto può essere anche espresso con la s. grafica, costituita da un segmento diviso in più parti con a fianco le indicazioni delle corrispondenti lunghezze reali. 

Come è evidente dalle definizioni di concetti base della cartografia, la scala è determinabile solo avendo il disegno stampato. Questo è uno dei motivi per i quali si utilizza la scala grafica in quanto, qualunque sia la dimensione della stampa, aumenta o diminuisce nella stessa proporzione del disegno rimanendo quindi sempre valida e veritiera. Una semplicissima proporzione fornirà la scala di riduzione (in termini numerici) di quella specifica stampa.

martedì 16 giugno 2015

Arancino eoliano e altre meraviglie dell'arcipelago

La delizia del titolo (foto a sx) è una creazione originale di Liborio, proprietario della rosticceria Mancia e fui. Conoscevo il posto da almeno 15 anni e il fatto di trovarlo ancora aperto dopo una dozzina di anni dalla mia ultima visita, allo stesso angolo del corso (area pedonale dove si fa lo "struscio"), con la stessa gestione e lo stesso nome lasciava molto ben sperare. Molte volte chi ha successo con un prodotto si monta la testa e non mi sarei meravigliato se una rosticceria classica come Mancia e fui fosse diventata un ristorante alla moda, con porzioni ridotte, prezzi alti e qualità non adeguata. Per fortuna mia e di tutti gli amanti delle rosticcerie/friggitorie (arancini, pizzette, calzoni, pitoni, mozzarella in carrozza, schiacciate) Liborio non ha cambiato lo stile (e in proporzione i prezzi), ma si è limitato a perfezionare la produzione integrandola con sue creazioni originali come l'arancino eoliano proposto per la prima volta 5 anni fa. 
Di forma elissoide (dimensioni di un arancino al burro, quindi sferico, schiacciato ai poli - vedi foto) vanta un ripieno di capperi, tonno, cipolle, formaggio e un po' di pomodoro. Assolutamente da non perdere se vi trovate a passare per Lipari. Oltre a essere ai primi posti nelle varie classifiche di ristoranti/bar di Lipari (il che non conta molto anche se basato su centinaia di recensioni) Mancia e fui è il preferito dalla maggior parte dei liparoti ai quali ho chiesti suggerimenti gastronomici ... e questo conta. 
Come dicevo, sono tornato a Lipari dopo una dozzina di anni e, seppur ovviamente cambiata, devo dire che è rimasta piacevole e vivibile. L'importante è scegliere il periodo adatto in base ai propri obiettivi.
Per esempio, se le vostre mire sono soprattutto balneari sappiate che prima di giugno l’acqua è abbastanza fredda. Se invece siete più interessati alla fioritura sappiate che il meglio lo trovate fra marzo e giugno anche se qualcosa di interessante si trova durante tutto l’anno.

Le numerose agenzie che organizzano gite in barca nelle varie isole dell’arcipelago sono proposte, orientativamente, solo da aprile a ottobre. Da novembre a marzo avrete poche possibilità di andare in giro poiché anche i trasporti pubblici per le isole minori sono limitati e talvolta addirittura cancellati prive di porto a causa delle condizioni de mare. Durante questo mio recente breve soggiorno avendo trovato  mare calmo 8 giorni su 9 e più caldo di quanto mi aspettassi, quindi ho rinunciato alle escursioni sui vulcani e mi sono dedicato al mare (per fortuna anche questo meno freddo del normale) e mi sono fatto portare dai vecchi amici del Popolo Giallo a Filicudi, Alicudi, Panarea e Stromboli (vedi foto). Fino a 10 anni fa portavano me e i gruppi che guidavo (quindi per lavoro) e questa è la seconda vacanza che faccio affidandomi a loro. Ora hanno barche più grandi e comode e hanno mantenuto intatto entusiasmo, cortesia e professionalità, in parole povere più che affidabili.
Tutte le isole sono abbastanza grandi da offrire agli escursionisti percorsi di vario genere ed impegno. Temperatura del mare permettendo, i posti dove tuffarsi dalle barche o dalle spiagge in un acqua azzurra e pulitissima non si contano. Ogni isola è caratterizzata da grotte, archi naturali e scogli di varie dimensioni. Aggiungendo i due vulcani attivi, la flora mediterranea, la possibilità di effettuare immersioni subacquee o semplice snorkeling e non da ultimo l'ottima cucina liparota si capisce perché le Eolie sono una destinazione appetibile per tutti, in qualunque periodo.

sabato 13 giugno 2015

Come si fonda(va) una città

Non tutte le città sono nate con un paio di case, alle quali se ne sono aggiunte successivamente altre. Dal XVI secolo (dal 1510 in Messico e 1528 in Perù) fino a tutto il XVIII gli spagnoli sono stati maestri in questa “arte” applicata alla conquista e controllo dei territori non solo della Nueva España, ma anche di tutta l’HispanoamericaUna delle ultime (1781) ad essere pianificata secondo las Leyes de Indias è oggi una delle grandi metropoli americane. Sto parlando di Los Angeles, fondata poco più di 200 anni fa da soli 44 spagnoli con il lunghissimo nome di  Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles de la Porciúncula. Non è necessario esseri geni o storici esperti per indovinare che il frate facente parte della spedizione era un francescano visto il riferimento alla chiesetta di Santa Maria degli Angeli in Porziuncola (Assisi), oggi Basilica Papale, dove ebbe origine il francescanesimo. Come è risaputo, gli Spagnoli conquistavano e governavano militarmente e religiosamente, nel bene e nel male. Ogni spedizione veniva accompagnata da uno o più religiosi, di solito francescani o domenicani e pertanto nei nomi dati alle città veniva inserito quello della Madonna (Nuestra Señora) o santo protettore salvo perderlo successivamente, limitando la lunghezza dei nomi ad un paio di parole. Per esempio Buenos Aires fu fondata (per la seconda volta, nel 1570) con il nome di Real de Nuestra Señora Santa María del Buen Ayre.

Mappa della fondazione di Córdoba de La Nueva Andalucía (1573), oggi Argentina
Le oltre 30 disposizioni di legge erano ben precise e si basavano su una logica politico-militare che quindi doveva soddisfare criteri strategici, di potere e ovviamente di buona urbanistica, senza dimenticare la religione. La pianta della città con le piazze, le strade e le proprietà veniva tracciata con strumenti adatti per avere strade rettilinee perpendicolari fra loro, a partire dalla Plaza Mayor sulla quale, oltre agli edifici istituzionali e alla chiesa, si dovevano affacciare gli edifici più importanti. Era il centro fisico e sociale e lì si organizzavano mercato, feste, esibizioni equestri, balli, sfilate e anche esecuzioni capitali. Lì convergevano le strade principali che conducevano alle porte della città ed all’esterno di queste si doveva lasciare spazio libero sufficiente in modo che in caso di crescita l’abitato si potesse allargare in modo simmetrico lasciando la Plaza Mayor al centro. Questa doveva essere di forma rettangolare, possibilmente di proporzioni 2:3, di dimensioni adatte al numero di abitanti e comunque non inferiori a 200x300 pies e non maggiori di 500x800. Una piazza di media grandezza, ben proporzionata, misurava quindi 110-120m per 165-180m (il pie castellano equivale a poco meno di 28cm).
Le strade principali dovevano partire dal punto medio di ciascun lato (anche se questa era la disposizione che più spesso veniva disattesa) e ai lati, così come la piazza, erano coperte da portici. Si stabiliva altresì che le strade dovessero essere larghe nelle regioni fredde e strette in quella calde (per prendere più o meno sole), senza dimenticare però per queste ultime di lasciarle abbastanza ampie per il passaggio dei cavalli.
La chiesa doveva essere l’edificio che dominava la piazza e si precisava che in alcuni casi era opportuno che non fosse allineata con gli altri edifici, bensì un poco arretrata, in modo da distanziarsi da essi per mettere in risalto la facciata e farla apparire più maestosa innalzandola rispetto al livello della strada in modo che la gente debba salire una scalinata prima di entrare.
Raramente si consentiva che le proprietà prospicienti la piazza fossero private in quanto erano riservate a edifici pubblici. Per esempio si prevedeva anche che el hospital (per poveri e malati non contagiosi) fosse costruito nella parte nord in modo che la facciata guardasse a sud. All’atto della fondazione i lotti venivano sorteggiati e, quando il gruppo di coloni era limitato, alle coppie senza ancora figli erano assegnati con la condizione che procreassero entro un anno, pena la perdita della proprietà. 
La fondazione di una città era quindi un’azione ben pianificata, si individuava il posto, si prendevano le misure, si tracciavano sommariamente le future strade, di delimitavano i lotti, si trasportavano i materiali e infine si organizzava la cerimonia ufficiale alla quale partecipavano tutti i nuovi (e primi) cittadini. Questi di solito provenivano da altre città vicine e lo stesso governo della regione emanava un bando per invitare i coloni a trasferirsi allettandoli con notevoli vantaggi, ma tutti erano anche ben consci dei rischi connessi.
Alla cerimonia ufficiale partecipava un rappresentante del Governo, un prelato, un ufficiale in rappresentanza dell’ordine militare e il notaio che certificava il tutto. Veniva eretta una croce nel punto dove si sarebbe costruita la chiesa, il rappresentante di Governo brandiva la spada verso i quattro punti cardinali e la conficcava in terra per prendere simbolicamente possesso dell’area, venivano sorteggiati i lotti e la loro attribuzione con i numeri indicati nella mappa e i nomi degli assegnatari venivano riportati nell’atto.
   
mappe della fondazione di Mendoza (Argentina) e di Cuenca (Ecuador)

giovedì 11 giugno 2015

Ulteriori notizie sui Viscuotti (biscotti di grano)

Oggi è difficile trovare quelli originali, duri “come pietre”, che si diceva potessero conservarsi per secoli. Ciò è quasi vero teoricamente ed è in parte dimostrato da un pilot biscuit del 1870 ancora intatto, conservato in un museo inglese, mentre il più vecchio hard tack tuttora esistente dovrebbe essere quello esposto in un museo danese, datato 1851. Purtroppo la tendenza moderna è quella di addolcire, blandire e ammorbidire tutto come se la gente non avesse più i denti e quindi abbondano quelli molto friabili, che si rompono appena stretti con una mano e che appena vedono l’acqua diventano una pappetta.

A bordo delle galee, un lauto pranzo era composto da bizcocho, un piatto di miele, uno di olive ed un altro, piccolo, di formaggio a fettine. Le razioni diarie per i privilegiati arrivavano fino a 26 once (circa 750g) ma in caso di necessità erano ridotte a 20 (560g) più una almueza de mazamorra. Credo sia indispensabile che spieghi questi due termini, intraducibili con una sola parola.
Almueza: quello che riescono a contenere le due mani affiancate, in posizione concava
Mazamorra: le briciole e i pezzettini che si staccano dai bizcochos e che restano alla base della provvista. In casi estremi dava solo mazamorra e abbiate presente che (i più delicati di stomaco saltino la fine di questa descrizione) "dopo aver scartato gli insetti, le larve, la paglia e gli escrementi di topi, non ne restava che la quinta parte". Il problema insetti (noi diremmo molto genericamente pappici) era talmente diffuso e sentito che uno dei nomignoli inglesi delle gallette è worm castle (castello di vermi).
In quasi ciascun idioma esiste un antico modo di dire che evidenzia l'importanza e l'imprescindibilità dei biscotti di grano per la sopravvivenza in mare, ma erano altrettanto fondamentali per i soldati in guerra ed il significato si può applicare a chiunque: "Embarcarse con poco bizcocho" * "'Mbarcarse senza viscuotte" * "Imbarcarsi senza gallette". Ci si riferisce a quelli che intraprendono una qualunque attività senza possibilità di riuscita per non avere mezzi sufficienti, o scorte, o attrezzi o, in senso lato, esperienza o capacità.
‘O Viscuotto è in giro da millenni, tant’è che gli Egiziani già producevano qualcosa di molto simile (dhourra cake), i Romani lo chiamavano bucellum, i crociati di Re Riccardo muslin bisket, in inglese hanno avuto poi vari nomi alcuni di uso proprio come ships biscuit, pilot cracker o il più generico hardtack, altri erano nomignoli e oltre il già citato worm castle c’era il molto significativo (in riferimento alla loro durezza) molar breakers (rompi molari). Alla fine del ‘500 la razione giornaliera dei marinai della Royal Navy britannica era costituita da un pound di hardtack e un gallone (circa 3,5 litri) di birra! F. R. de Chateaubriand (1768-1848) scrisse che durante il suo primo viaggio verso le Americhe cenava con un biscuit de vaisseau (galletta da galera), un po’ di zucchero e un limone.
In quanto alla durevolezza si porta come esempio il fatto che durante la guerra civile americana le truppe vennero alimentate con le gallette preparate 15 anni prima per guerra contro il Messico. 
Si dice che talvolta i soldati inglesi li frantumavano con il calcio del fucile e poi li bollivano ottenendo una specie di porridge, ma anche che furono usati tostati e ridotti in briciole finissime per ottenere un surrogato del caffè. 
Anche se Napoleone iniziò a introdurre i primi cibi inscatolati all’inizio dell’800, le gallette rimasero il cibo principale delle truppe fino alla I Guerra Mondiale.

lunedì 8 giugno 2015

Viscuotti, i veri e antichissimi bis-cotti in quanto cotti due volte

Come spesso mi accade, nel mio frenetico saltellare da un argomento all’altro, mi sono imbattuto in elementi facilmente collegabili fra loro seppur provenienti da indagini e osservazioni completamente diverse.
Parto dai bizcochos (pron. biscocios, vocabolo spagnolo) che nel corso della lettura di Viaje de Turquía (1557, narrazione delle avventure e disavventure di un marinaio spagnolo catturato dai turchi, portato in catene a Costantinopoli ed infine fuggito e rientrato in patria) ho appreso essere la parte sostanziale della razione giornaliera di cibo fornito a bordo delle galee. Se si prevedevano facili futuri rifornimenti se ne distribuivano  18 once a testa (1 libbra romana e mezzo, poco più di mezzo chilo), riducendo la razione ad una sola libbra (12 once) ed anche meno in caso di scarsità di bizcochos e navigazione ancora lunga. Nel suddetto testo il protagonista spiega al suo interlocutore come si preparavano  
MATA: ¿Qué es bizcocho …?  PEDRO: Toman la harina sin cerner ni nada y hácenla pan; después aquello hácenlo cuartos y recuécenlo hasta que está duro como piedra y métenlo en la galera;
Penso che la traduzione sia evidente e mi preme solo sottolineare, come del resto fa il protagonista, che lo cuocevano una seconda volta fino a farlo diventare “duro come una pietra”. Con minime differenze sia i Turchi che gli Spagnoli li utilizzavano ed è noto che anche la marineria napoletana si seguiva la stessa prassi.
L’etimologia mi sembra abbastanza evidente e a destra è quanto riportato in etimo.it, eppure mi sono imbattuto in una ipotesi (direi azzardata) di Pietro Parisi in questa pagina della quale vi riporto il contenuto
Vascotta e vascuotto * Nella tradizione delle zone vesuviane, la vascotta è un pezzo di pane dalla forma allungata. Della parola vascotta non esiste un riferimento nel dialetto napoletano, sembrerebbe quasi ignorato, sostituito dal termine fresella. Dalla vascotta si ottiene una sorta di biscotto, il vascuotto; dopo una prima cottura, la vascotta, preventivamente incisa, viene tagliata a fette e queste vengono poi riposte in forno e biscottate.
In rete ci sono tante pagine dedicata ai pezzi di pane cotti due volte che, a seconda delle tradizioni locali, sono prodotti in varie forme e commercializzati con vari nomi, ma il processo di preparazione è praticamente identico dovunque ed uguale a quello di tanti secoli fa.
Per puro caso ho approfondito questo argomento (per me affascinante e appetitoso) a Lipari (isole Eolie) dove quasi tutte le trattorie, le rosticcerie, gli snack-bar e anche vari ristoranti propongono il pane cunzatu che altro non è che una grossa fresella (di quelle piane e circolari) condita (cunzata), ma meglio sarebbe dire coperta, di numerosi ingredienti combinati a gusto dello chef e/o del cliente (foto a sx). La sola fresella è il pane caliato, nome che mi riporta alla mente i ciceri caliati (una volta "famosi" e ormai quasi completamente dimenticati) ai quali sono stato introdotto da Mast'Armando e per questo gliene sarò eternamente grato. Per inciso, in Sicilia si chiamano calia (foto a dx) e vengono ancora venduti sulle bancarelle in occasione delle feste.
   

Il  pane cunzatu classico era condito semplicemente con pomodorini, olio e origano e talvolta formaggio caprino e qui a Lipari aveva altra forma. Da vari anni qualcuno a cominciato a proporre versioni molto più ricche e, visto il successo, ora si trovano praticamente tutte le combinazioni di condimenti che vengono proposti anche per pizze e piadine. A mia memoria la nostra caponata (napoletana, che non ha niente in comune con quella siciliana che, semplificando, è a base di verdure, soprattutto melanzane, in agrodolce) non sempre includeva i pomodori (solo in stagione), ma aveva molti ingredienti che, essendo conservati o non stagionali, erano disponibili tutto l’anno:
cipolle, olive, acciughe, tonno, melanzane sott’olio, capperi e origano.
Altra curiosità: ho scoperto che esisteva un capón de galera che non aveva niente a che vedere con el capón (il cappone), ma era nientemeno che una specie di salmorejo, a base di scorza di pane o bizcochos, che veniva propinato ai rematori delle galee, e da capón a caponata il passo è molto breve.
La mia domanda finale è: perché solo molto raramente nei menù della miriade di esercizi del settore ristorazione viene proposta la caponata napoletana con gli ottimi e tradizionali v'scuott 'e 'rano accompagnati qualunque combinazione di condimenti locali? Perché non far conoscere un piatto assolutamente tradizionale, facile da preparare ed adattabile anche alle esigenze dei più "impicciosi" come fanno con successo i liparoti? Non da ultimo sarebbe anche un ottima promozione per i prodotti locali originali senza dover ricorrere ad etichette ormai abusate di tipicità, origine e "presidi" ...

sabato 6 giugno 2015

Arroganza e scostumatezza indicatori di stupidità = autolesionismo

Ieri, passando per Napoli, mi sono reso conto di quanto non sia migliorata e quanto lontana sia dagli standard europei. Non sto qui ad elencare tutte le cose che non vanno e che dovrebbero essere migliorate in quanto molti lo sanno a gli altri lo possono immaginare. Voglio piuttosto sottolineare (pur essendo egualmente risaputo) che la gran parte delle colpe sono da attribuire ai cittadini, in particolare in quanto a rifiuti e traffico. Prendersela solo ed esclusivamente con politici, amministratori e forze dell’ordine è assolutamente inutile e talvolta ingiusto (anche se pure alcuni di loro non sono del tutto incolpevoli).
Propongo un paio di esempi molto diversi fra loro e riscontrabili, purtroppo, anche in varie zone considerate più “civili” e meno caotiche di Napoli, come quelle a vocazione turistica della Penisola Sorrentina e Costiera Amalfitana.
1) A margine delle strade (non solo quelle meno frequentate), nei rivoli e anche nelle aree verdi a tutti è capitato di vedere rifiuti abbandonati, anche ingombranti come lavatrici e poltrone. Si grida allo scandalo e ci si indigna, ma pochi evidenziano la demenza degli autori che non utilizzano il servizio di raccolta a domicilio per questo tipo di oggetti, oltretutto fornito gratuitamente dalla maggior parte dei Comuni.
Questi imbecilli caricano il “pezzo” (suppongo con una certa difficoltà a causa del peso e delle dimensioni) sul loro veicolo rischiando di danneggiarlo e lo vanno a scaricare, con ulteriore fatica, da qualche parte. Se considerate il rischio di essere beccati sul fatto con conseguente multa e denuncia, essere semplicemente visti da qualcuno di conosciuto (non ci fanno comunque una bella figura), rischio di danni alla macchina, ape o camioncino che sia, rischio ernia … invece di fare una semplice telefonata, la loro stupidità è lampante. Non da ultimo, visto che la rimozione di questi oggetti da luoghi non consoni costa molto di più del semplice ritiro a domicilio, ci ritroviamo tutti con una TARSU più alta.
2) Sosta inopportuna per “guadagnare tempo”. Quante volte ci si trova bloccati nel traffico a causa di un bus o un camion che non poteva percorrere una curva a causa di un’auto fuori posto? Nella maggior parte dei casi l’incivile ha lasciato lì il suo veicolo per percorrere qualche decina di metri in meno “risparmiando”, forse, una trentina di secondi. Anche ammettendo che ripeta l’operazione una decina di volte con successo (quindi senza essere multato o mazziato), la prima volta che è lui a trovarsi imbottigliato perderà tutti i secondi guadagnati e anche di più.
A proposito del “Tempo”, Eduardo De Filippo in Questi fantasmi scriveva:
Raffaele: Perché se guadagni del tempo cosa te ne fai? lo mangi il tempo? e se perdi del tempo sei ridotto sul lastrico?
Inoltre, fa molto innervosire il fatto che spesso a soli 5 o 10 metri c’è posto per fermarsi regolarmente senza intralciare in alcun modo il traffico e quindi scompare anche l’ultima possibile giustificazione (“solo lì era possibile”). Molta gente, se potesse, vorrebbe arrivare in macchina o motorino fin dentro i negozi, salire le scale della scuola per non far stancare il figlioletto (probabilmente sovrappeso proprio per questo rifiuto all’attività motoria, anche la più naturale) e si potrebbe continuare con mille esempi.

Questi incivili, arroganti e scostumati (di conseguenza autolesionisti, vedi immagine a lato), se avessero un po’ di sale in zucca agirebbero in modo un po’ più rispettoso dei diritti ed esigenze degli altri ricavandone vantaggi anche per sé stessi. 
Non facendolo restano nel quadrante degli stupidi che si danneggiano da soli oltre a creare non pochi problemi agli altri.
Per raddrizzare la barca e non andare alla deriva ognuno dovrebbe metterci un minimo di buona volontà, che costa molto poco, quasi niente.
Vedi il post introduttivo all’argomento stupidità (9/10/13) e gli altri successivi (cerca “stupidità” con il motore di ricerca interno al blog)