Come spesso mi accade, nel mio frenetico saltellare da un
argomento all’altro, mi sono imbattuto in elementi facilmente collegabili fra
loro seppur provenienti da indagini e osservazioni completamente diverse.
Parto dai bizcochos (pron. biscocios, vocabolo spagnolo) che nel corso
della lettura di Viaje de Turquía (1557, narrazione delle avventure e
disavventure di un marinaio spagnolo catturato dai turchi, portato in catene a
Costantinopoli ed infine fuggito e rientrato in patria) ho appreso essere la
parte sostanziale della razione giornaliera di cibo fornito a bordo delle galee.
Se si prevedevano facili futuri rifornimenti se ne distribuivano 18 once a testa (1 libbra romana e mezzo, poco
più di mezzo chilo), riducendo la razione ad una sola libbra (12 once) ed anche
meno in caso di scarsità di bizcochos
e navigazione ancora lunga. Nel
suddetto testo il protagonista spiega al suo interlocutore come si preparavano
MATA: ¿Qué es bizcocho …? PEDRO: Toman la harina sin cerner ni nada y hácenla pan; después aquello hácenlo cuartos y recuécenlo hasta que está duro como piedra y métenlo en la galera;
Penso che la traduzione sia evidente e mi preme solo sottolineare,
come del resto fa il protagonista, che lo cuocevano una seconda volta fino a
farlo diventare “duro come una pietra”. Con minime differenze sia i Turchi che
gli Spagnoli li utilizzavano ed è noto che anche la marineria napoletana si seguiva
la stessa prassi.
L’etimologia mi sembra abbastanza evidente e a destra è quanto
riportato in etimo.it, eppure mi sono imbattuto in una ipotesi (direi
azzardata) di Pietro Parisi in questa pagina della quale vi riporto il contenuto
Vascotta e vascuotto * Nella tradizione delle zone vesuviane, la vascotta è un pezzo di pane dalla forma allungata. Della parola vascotta non esiste un riferimento nel dialetto napoletano, sembrerebbe quasi ignorato, sostituito dal termine fresella. Dalla vascotta si ottiene una sorta di biscotto, il vascuotto; dopo una prima cottura, la vascotta, preventivamente incisa, viene tagliata a fette e queste vengono poi riposte in forno e biscottate.
In rete ci sono tante pagine dedicata ai pezzi di pane cotti
due volte che, a seconda delle tradizioni locali, sono prodotti in varie forme
e commercializzati con vari nomi, ma il processo di preparazione è praticamente
identico dovunque ed uguale a quello di tanti secoli fa.
Per puro caso ho approfondito questo argomento (per me
affascinante e appetitoso) a Lipari
(isole Eolie) dove quasi tutte le trattorie, le rosticcerie, gli snack-bar e
anche vari ristoranti propongono il pane cunzatu che altro non è che una
grossa fresella (di quelle piane e
circolari) condita (cunzata),
ma meglio sarebbe dire coperta, di numerosi ingredienti combinati a gusto dello
chef e/o del cliente (foto a sx). La sola fresella è il pane caliato, nome che mi riporta
alla mente i ciceri caliati (una volta "famosi" e ormai quasi
completamente dimenticati) ai quali sono stato introdotto da Mast'Armando e
per questo gliene sarò eternamente grato. Per inciso, in Sicilia si chiamano calia (foto a dx) e vengono ancora venduti sulle bancarelle in occasione delle feste.
Il pane
cunzatu classico era condito semplicemente con pomodorini, olio e
origano e talvolta formaggio caprino e qui a Lipari aveva altra forma. Da vari anni qualcuno a cominciato a proporre
versioni molto più ricche e, visto il successo, ora si trovano praticamente tutte le combinazioni
di condimenti che vengono proposti anche per pizze e piadine. A mia memoria la nostra caponata
(napoletana, che non ha niente in comune con quella siciliana che,
semplificando, è a base di verdure, soprattutto melanzane, in agrodolce) non
sempre includeva i pomodori (solo in stagione), ma aveva molti ingredienti che,
essendo conservati o non stagionali, erano disponibili tutto l’anno:
cipolle, olive, acciughe, tonno, melanzane sott’olio, capperi
e origano.
Altra curiosità: ho scoperto che esisteva un capón
de galera che non aveva niente a che vedere con el capón (il cappone), ma
era nientemeno che una specie di salmorejo, a base di
scorza di pane o bizcochos, che veniva propinato ai rematori delle galee, e da capón a caponata il passo è molto breve.
La mia domanda finale è: perché solo molto raramente nei menù della miriade di
esercizi del settore ristorazione viene proposta la caponata napoletana con gli ottimi e tradizionali v'scuott
'e 'rano accompagnati qualunque combinazione di condimenti locali?
Perché non far conoscere un piatto assolutamente tradizionale, facile da preparare
ed adattabile anche alle esigenze dei più "impicciosi" come fanno con successo i liparoti? Non da ultimo sarebbe anche un ottima promozione per i
prodotti locali originali senza dover ricorrere ad etichette ormai abusate di
tipicità, origine e "presidi" ...
Sono d'accordo! Il pane biscottato è una bella scoperta per chi ama la cucina napoletana, e nei miei tour gastronomici non manca la visita a un biscottificio perché anche la lavorazione è semplice ma interessante.
RispondiEliminaInfatti….d’accordo e praticante!
RispondiEliminaHo molte occasioni di preparare pic-nic per gli escursionisti francesi (dal palato delicato, come si sa…), e ne approfitto per fare degustare pietanze semplici e fatte sul momento, proprio come una bella “caponata”… ma col “biscotto di Agerola”!! Lingue, palati e occhi (che sempre vuol la sua parte!) sono sempre soddisfatti ed è gran successo!