"Alzati e cammina" non è un ordine, ma un ottimo
suggerimento rivolto a chi, pur avendone la possibilità, non si adopera per
godere degli innumerevoli piaceri e benefici oggettivi derivanti dal semplice
uso delle proprie capacità motorie. Non è necessario che si verifichi un nuovo
miracolo (Lazzaro), è alla portata di tutti. È sufficiente una piccola dose di buona
volontà supportata da un minimo di intelligenza. Senza dover scomodare
evoluzionisti e antropologi di qualsiasi epoca e credo, appare evidente a chiunque che
l’essere umano è nato per muoversi a piedi ed è inutile elencare tutte le
conseguenze positive derivanti da un’attività deambulatoria giornaliera,
suggerita perfino dopo cena da una delle norme più famose del Regimen
Sanitatis Salernitanum (XII sec.): “Post prandium aut stabis aut lento pede
ambulabis, post coenam ambulabis”.
Da che mondo è mondo l’uomo si è
spostato a piedi, ma continua a farlo sempre meno in quanto gli aiuti meccanici
(ascensori, auto, moto, treni, ecc.) ne riducono di molto l’effettivo bisogno.
E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, spesso ulteriormente aggravate
da cattiva alimentazione (non nel senso di scarsa, al contrario!) e stili di
vita poco salutari. In passato si coprivano a piedi enormi distanze per viaggi
e pellegrinaggi, per non parlare delle guerre che comportavano lo spostamento
di eserciti di migliaia di uomini, quasi tutti appiedati, per centinaia e
centinaia di chilometri; distanze relativamente più brevi venivano coperte per
cacciare, per condurre animali ai pascoli, per le migrazioni stagionali, per
commerciare beni e prodotti. Oggi purtroppo (o per fortuna?) la cultura del
camminare in ambiente naturale con cognizione di causa è molto poco diffusa
dalle nostre parti e quelli come me vengono spesso additati come “persone strane”
per il solo fatto di muoversi spesso a piedi, senza alcuna reale necessità.
Tutti i camminatori assidui si
trovano continuamente di fronte al dilemma di due postulati fondamentali,
logici e, purtroppo, inesorabilmente contrapposti:
* camminando più velocemente o più a
lungo si coprono distanze maggiori e quindi si ha la possibilità di raggiungere
mete lontane e meno frequentate il che spesso equivale a dire luoghi più
interessanti e gratificanti;
* rallentando, o addirittura sostando
in silenzio, si potranno apprezzare il piccolo fiore, la formica, il volo di un
rapace (evitando di camminare con il naso all’aria), i rumori più lievi della
natura, ma ovviamente non ci si allontanerà molto dal punto di partenza.
Il dilemma è quindi: approfondire o
spaziare? Io di solito propendo per lo spaziare anche per il significato
intrinseco del termine: il camminatore vero si muove nello spazio che lo
circonda, vagabonda, esplora, riparte alla ricerca di nuovi territori a lui
sconosciuti, ma non va in profondità (a meno di essere uno speleologo). Per
definizione si aggira, talvolta senza meta, sulla superficie terrestre e, muovendosi in habitat diversi, coglie le infinite occasioni che gli si
presentano per girovagare fra i vari ambienti della conoscenza e della scienza:
storia, archeologia, architettura, antropologia oltre a geologia, botanica e
zoologia con tutte le sue branche quali erpetologia, entomologia, ornitologia e
via discorrendo.
In ambiente naturale è bello
affidarsi a tutti i nostri sensi, ricercando (senza essere mai molesti)
l’animale di cui si è percepito il verso fra le frasche o dove lo si è visto
nascondere, tentando di localizzare l’uccello del quale si è sentito il canto o
l’aromatica di cui si è percepita la fragranza e assaggiando il frutto che
colpisce per l’aspetto invitante. A seconda dei propri interessi, esperienze e
capacità - e in dipendenza dell’ambiente attraversato e del terreno sul quale
si procede - il saggio camminatore adatta la sua velocità cercando di
ottimizzarla momento per momento, anche con continue variazioni di ritmo.
L’abilità (acquisibile con
l’esperienza) consiste nel procedere con passo felpato per non disturbare la
fauna e per riuscire ad ascoltare i rumori più lievi, sicuro e regolare per
ottimizzare il consumo di energie, al tempo stesso spedito per raggiungere mete
più distanti, vette panoramiche e ambienti non ancora esplorati; tutto ciò con
i sensi sempre allertati per non farsi sfuggire occasioni che non si
presenteranno una seconda volta. Anche io che spesso percorro oltre 400 km a
piedi in un mese, ricordo ancora oggi il momento in cui ho incontrato la mia
unica salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata, foto sopra) sotto
un’acqua battente o il mio primo cervone (Elaphe quatuorlineata)
comodamente allungato attraverso il sentiero, come a sbarrarmi la strada. Nel primo caso il mio occhio, mentre
scandagliava rapidamente il sentiero pietroso invaso dall’acqua,
inaspettatamente colse una sottile striscia di colore rosso vivo, che risultava
essere fuori luogo in mezzo ai rivoletti di acqua terrosa che scorrevano fra le
pietre. Aguzzando la vista realizzai che si trattava della parte inferiore
visibile della coda di questo piccolo anfibio (raramente supera i 10
centimetri, coda inclusa) molto difficile da incontrare essendo poco comune e
avendo abitudini notturne. Al contrario, nel secondo caso il mio incontro fu
favorito non dalla vista, ma dall’udito; risalendo un vallone selvaggio alle
prime luci del giorno, lungo un sentiero quasi del tutto abbandonato, la mia
attenzione fu richiamata da un rumore lieve, un soffio più che un sibilo (che
viene di solito associato ai serpenti), ma non tirava un alito di vento e di
certo non si trattava di una persona visto che davanti a me c’erano solo
cespugli bassi e quasi impenetrabili. Immobile e in silenzio cominciai a
esaminare l’area circostante cercando un ulteriore indizio: qualcosa che si
muovesse, una traccia nell’erba, un colore diverso e solo dopo alcuni secondi
realizzai che quello che sembrava un tronchetto giacente di traverso sul
sentiero era in effetti la parte mediana di un grosso cervone (il più
lungo serpente italiano, assolutamente innocuo, che può superare i due metri di
lunghezza). Purtroppo il pur lieve rumore che provocai per aprire lo zaino
bastò per indurlo a scomparire nella vegetazione prima che avessi avuto la
possibilità di fotografarlo.
La novità è sempre presente e nessuna passeggiata
può considerarsi uguale alla precedente anche se effettuata lungo un identico
percorso, così come un fiume la cui acqua è sempre diversa pur correndo nello
stesso alveo, fra due rive più o meno immutabili. E proprio per questo l’escursionismo
è uno dei campi ideali per l’applicazione della serendipità, brutto
neologismo italiano per fortuna ancora poco comune in quanto, per ragioni di
moda e di originarietà, viene più frequentemente utilizzato il termine serendipity, assai diffuso nel mondo anglosassone già dal secolo scorso. Questo vocabolo
inglese fu coniato dal letterato Horace Walpole nel 1754 dopo aver letto
la fiaba persiana di Cristoforo Armeno "I tre Principi di
Serendippo" (da Serendip, antico nome dell’isola di Sri
Lanka). La storia narra delle continue
scoperte fatte dai tre principi dovute sì al caso, ma anche e soprattutto alla
loro sagacia e alla loro capacità di osservazione. In effetti i tre principi
utilizzavano l’abduzione (processo logico, ma quasi un’arte, metodo prediletto da Sherlock Holmes) che
permette di giungere a conclusioni molto verosimili ancorché non certe e grazie ad essa salvarono la vita e divennero ricchi.
Nel
corso del tempo, dal significato iniziale si è passati a dar più peso alle
conclusioni tratte che al procedimento logico e quindi oggi comunemente per serendipity
s’intende sia la capacità, che il processo o l’avvenimento di cogliere dei
risvolti utili derivanti da un risultato sbagliato o un evento inaspettato. Viene intesa come la capacità di
trovare o creare cose di valore per caso, di identificare pregi e risvolti
positivi di un risultato inatteso, scoprire qualcosa di imprevisto mentre si
sta ricercando tutt'altro, interpretare correttamente un fenomeno casuale nel
corso di un’indagine scientifica diversamente orientata, cogliere al volo le
opportunità derivanti dal caso e dalla fortuna, cercare una cosa interessante
e, senza volerlo, trovarne una strabiliante.
Su questi temi si sono scritti apprezzati saggi (vedi copertina a sx) ed è stata anche organizzata una conferenza dal significativo titolo Serendipità: finché
non la conosci pensi sia solo fortuna. Infatti, anche se molti
associano i due termini, essi non sono assolutamente sinonimi e la maggior
parte delle scoperte continuano a nascere dal caso, dalla sagacia e
dall'osservazione, i tre elementi basilari della serendipity che
può considerarsi non solo un metodo di ricerca, ma anche une stile di vita. Pasteur
diceva “Il caso favorisce la mente preparata” e a prova di ciò è utile
ricordare che numerose importanti scoperte scientifiche, tecnologiche e mediche fra le quali la legge di gravità (grazie alla famosa mela caduta in testa a Newton),
il principio d’Archimede (che gli fece gridare Eureka), il nylon,
il teflon, il velcro, il post-it, l’insulina, la penicillina, che ne sono esempi
lampanti. Solo applicando i metodi della serendipity il
camminatore raziocinante troverà sempre nuovi spunti e nuovi motivi per
esplorare territori prima sconosciuti o osservare i continui cambiamenti che si
succedono ininterrottamente anche in aree relativamente circoscritte. Il non
sapere cosa si stia cercando o la consapevolezza di non cercare niente in
particolare inducono nell’escursionista una tensione positiva che quasi mai
resta priva di gratificazioni e di nuovi stimoli. Questi a loro volta portano a nuove
scoperte solo momentaneamente appaganti e quindi a ulteriori aspettative che
diventano incentivi per continuare ad errare in tutti gli ambiti possibili.
Anche se è opportuno partire con un
progetto, mira o destinazione, è altrettanto fondamentale essere sempre ed in
ogni momento pronti a modificarli, adattarli e variarli in
conseguenza di circostanze, eventi, incontri, percezioni e tracce. È importante
saper valutare i minimi indizi, anche quelli che ai più possano sembrare
assolutamente insignificanti o privi di interesse come una piccola impronta sul
terreno, un rumore insolito o semplicemente un colore inaspettato per un certo
habitat. In conclusione, per godere appieno di una camminata di qualsiasi
lunghezza e impegno, a prescindere dall’ambiente nel quale si sviluppa, si deve
procedere con apertura mentale e con la giusta concentrazione non solo
sull’avanzamento, ma anche su tutto ciò che ci circonda perché l’insolito, il
bello, lo straordinario sono sempre a portata di mano, di occhio o di orecchio
e non si deve perdere l’occasione di goderne in quanto sono spesso situazioni
pressoché irripetibili.
La dovizia di
sensazioni che si riesce ad accumulare camminando non può essere eguagliata in
alcun altro modo. © Giovanni Visetti
Articolo pubblicato nel catalogo della
prima edizione dalla manifestazione L' infinito viaggiare (Napoli,
ottobre 2007), ideata e organizzata da Francesca Mauro e Luciano Stella.