Avrei avuto il
tempo di guardarne anche un altro, ma mi piaceva il numero 444!
Ho concluso con
un gruppo (ridotto) abbastanza anomalo, con un giapponese muto d’avant-garde,
pietra miliare della cinematografia del sol levante, e tre russi degli anni ’70,
un dramma (altra versione di Delitto e castigo, visto pochi
giorni fa) e due commedie che all’epoca ebbero il loro bravo successo. Ho anche
pensato a come cominciare bene il 2021, con un gran bel film guardato per l’ultima
volta oltre 8 anni fa: There Will Be Blood (2007, aka Il
petroliere).
A
Page of Madness (Teinosuke Kinugasa, Jap, 1926)
Lavoro dato per
perduto per quasi mezzo secolo e poi ritrovato dallo stesso regista, ma solo in
parte. Ciò che è possibile guardare adesso rappresenta solo i due terzi dell’intero
film. Per questo motivo si consiglia a chi lo volesse guardare (e capire
qualcosa) di leggere la trama prima di cimentarsi nell’impresa, anche perché
non esistono cartelli originali e non ne sono stati aggiunti. All’epoca in
Giappone non si usavano, ma di norma c’era un “narratore” in sala che li sostituiva.
Il film è
ricordato soprattutto per essere fra l’espressionismo, l’impressionismo e il
surrealismo, specialmente nella prima parte, ma non se ne può giudicare la
struttura nel complesso poiché non si è certi di quali parti manchino. Ci sono
effetti speciali, tantissime doppie esposizioni, movimenti di macchina (non
comunissimi all’epoca) e montaggio a tratti velocissimo con riprese di pochissimi
secondi. A ciò si aggiunga che si svolge in un asilo per malati di mente e quindi
vengono mostrarti sogni, fantasie e allucinazioni. Per soli cinefili incalliti …
Crime and Punishment (Lev Kulidzhanov, URSS, 1970)
La mia 435^
visione (pochi giorni fa) era stata l’adattamento realizzato da Josef von
Sternberg (1935, protagonista Peter Lorre, di soli 85’) che avevo
apprezzato ma, pur non avendo mai letto il romanzo, mi sembrava che la storia
fosse stata troppo ridotta. Questa versione russa di 3h40’, è chiaramente più
completa ma forse riduce troppo i rapporti fra il commissario e il
protagonista, che invece era la parte più interessante e avvincente del film americano.
Qui prendono invece molto spazio i vari pretendenti della sorella del
protagonista distraendo lo spettatore dal tema principale, quello chiaramente
esposto nel titolo. Nel complesso ho preferito il primo, più compatto e
focalizzato sui tormenti di Peter Lorre, anche se l’ambientazione mi ha
lasciato perplesso. Al contrario il russo è di gran lunga migliore per le
scenografie e costumi, ma non mi hanno convinto le interpretazioni e la
lunghezza poteva essere senz’altro ridotta.
Gentlemen
of Fortune (Aleksandr Seryy, URSS, 1971)
Si basa su un
soggetto già utilizzato tante volte (un sosia “per bene” che sostituisce un
criminale), ma i caratteri dei suoi due compagni di avventura (che poi
diventano 3) sono molto diversi e le trovate sono piuttosto originali. ,Commedia
per famiglie, grazie anche alla presenza della star Yevgeny Leonov nei
panni del direttore di asilo / malvivente, fu il film sovietico più visto nel 1971,
ben 65 milioni di spettatori.
Afonya (Georgiy Daneliya, URSS, 1975)
Meno
interessante e più lenta dell’altra commedia di questo gruppo, segue le
giornate sconclusionate di un idraulico sfaticato, beone e donnaiolo, che si caccia
regolarmente nei guai. Divertenti le scene nelle quali il protagonista viene
sottoposto al giudizio della commissione che lo deve giudicare per le sue
mancanze. I colleghi di lavoro appaiono apatici e quasi assopiti, eppure sono
obbligati a presenziare e decidere se il colpevole di turno è meritevole di un
semplice richiamo o di una severa reprimenda! Anche questa fu vista da oltre 60
milioni di spettatori.
A parte il
riferimento cinefilo a Five Easy Pieces (aka 5 pezzi facili,
1970, di Bob Rafelson,con Jack Nicholson e Karen Black,
4 Nomination Oscar), film da recuperare per chi non l’avesse visto, si tratta veramente
di un gruppo fuori del comune, penso siano pochissimi quelli che ne hanno visto
anche solo uno. Ci sono due film argentini, uno molto singolare al limite dello
sperimentale (pluripremiato, 4h, con budget di 33.000$) e un adattamento di
apprezzato dramma politico teatrale del 1940; gli altri 3 sono spagnoli, con un
melodramma musicale prodotto da Buñuel nel 1935 e due documentari, il
primo del 1980 ritirato dalla circolazione per (scandalosa) sentenza del Tribunal
Supremo e l’altro del 2013 che lo analizza.
Film
sperimentale, praticamente sconosciuto al di fuori dell’Argentina anche se è
stato presentato a vari festival, compreso quello di Torino; ma quale
distributore si azzarderebbe a proporre un film di 4 ore, privo di alcun nome
di richiamo? Prodotto a dir poco fuori di ogni canone, con tre storie veramente
parallele (non hanno punti in comune), ognuna con un diverso protagonista senza
nome (H, Z e X). Senz’altro singolare, con tanta voce fuori campo che però è
sempre connessa con le immagini; si ha l’impressione di ascoltare un audiolibro
con immagini. Non so se questa fosse l’intenzione originale del regista (e
interprete, Mariano Llinás è X) o è stata una brillante soluzione dopo
che una società di produzione per il suo progetto iniziale aveva preventivato “70
attori, 60 location, 10 settimane di riprese e 100 viaggi nella provincia di
Buenos Aires”, e sottolineava anche problemi irrisolvibili quali “presenza di
leoni, viaggi in Africa, scene belliche, esplosioni, sequenza nautiche, un’inondazione
e incendi”! Tutto risolto dal genio del regista-sceneggiatore con cast ridottissimo
ed intercambiabile e mediamente soli 4 tecnici. Sono così bastati 33.000$,
anche grazie a alcuni alloggi e pasti offerti e a quelli che hanno prestato la
loro opera gratuitamente.
Venendo al film,
si narrano tre storie, più che straordinarie, misteriose, che si sviluppano on
the road (e in parte su un fiume) alla ricerca di qualcosa che i
protagonisti non conoscono, ma che non riescono a levarsi di mente.
Rocío (Fernando Ruiz
Vergara, Spa, 1980)
El caso
Rocío (José Luis Tirado, Spa, 2013)
Li tratto insieme
essendo in strettissima relazione. Il primo fu un’indagine abbastanza
approfondita sul pellegrinaggio e festa del Rocío, che porta alla luce
ciò che c’è dietro in termini di potere, denaro e politica, non si tratta solo
di religione (forse in concreto il punto di vista meno importante). Attraverso
molte brevi interviste ad abitanti, hermanos mayores delle cofradías
(priori delle confraternite), antropologi e storici, presenta un quadro non
sempre lusinghiero e ciò lo portò in tribunale. Vergara rientrò in
Spagna dopo vari anni spesi in Portogallo, lasciando il suo paese franchista
per partecipare alla rivoluzione dei garofani (1974) con la quale ebbe inizio
il vero dopo-Salazar. All’uscita del documentario, in piena transizione, si
formarono subito movimenti di tipo assolutamente opposto che ricalcavano le
idee dei vecchi falangisti e repubblicani della guerra civile. In una delle
interviste un anziano (testimone oculare) racconta di un massacro a sangue
freddo di 100 persone ad Almonte (dove si trova il Santuario de la Virgen
del Rocío), facendo nome e cognome del mandante. Pur essendo quest’ultimo
già deceduto all’epoca del documentario, i discendenti chiamarono a giudizio
regista, sceneggiatrice e chi aveva denunciato il fatto. La questione si
risolse con il verdetto del Tribunal Supremo che intimò di tagliare le scene
incriminate, ma il regista rifiutò e la pellicola fu proibita in Spagna. Sconsolato,
il regista onubense (nativo di Huelva, capoluogo della provincia, a
pochi km da Almonte) tornò in Portogallo, dove morì nel 2011, e non produsse
più alcun documentario.
Il successivo El
caso Rocío spiega, e in alcuni casi critica, le vicissitudini del
documentario prodotto 33 anni prima, riproponendo alcune immagini dello stesso
commentate da antropologi, cineasti (molti suoi amici portoghesi che avevano
collaborato alle riprese e poi al montaggio, l’avvocato che lo difese in
giudizio e la sceneggiatrice, ma ci sono anche spezzoni di un’intervista allo
stesso Vergara realizzata qualche anno prima. Si assiste a
scene incredibili di uomini in trance di fanatismo religioso che si accalcano e
lottano per essere fra i primi portatori della statua della Virgen;
impressionano anche le immagini di bambini terrorizzati e singhiozzanti, alcuni
dei quali ancora lattanti, passati di mano in mano sulle teste della calca per
farli giungere a toccare la statua. Nella festa laica si superano tabù come
quello dell'abbigliamento delle donne che vestono in modo più provocante (quasi
scandalizzando la troupe portoghese) e del coinvolgimento degli omosessuali ai
quali è consentito partecipare alle danze. Tuttavia,
centinaia di migliaia di persone si uniscono alla festa (complessivamente circa
un milione) solo per la parte più folklorica, attratti dai canti e balli
tradizionali, con i partecipanti (specialmente le donne) nei classici sgargianti
vestiti andalusi, e dalle sfilate di cavalli bardati e carri addobbati. Tutto
ciò dura una settimana mentre solo poche ore sono dedicate alla parte
religiosa, anche se dalle connotazioni piuttosto pagane.
Se il primo si può anche guardare
da solo, per il secondo è quasi indispensabile aver guardato l’originale. I due
documentari si trovano su YouTube, quello del 2013 in HD 1080p.
Un guapo del 900 (Leopoldo Torre Nilsson, Arg, 1960)
Ci sono arrivato
poiché diretto dallo stesso regista di La caìda (1959), inserito
nel gruppo precedente. Oltre al 7,1 su IMDb, mi ha intrigato il titolo (in
Argentina guapo equivale al nostro guappo, e non bello
come in spagnolo) e anche un lungo articolo che descrive nei dettagli la
situazione politica a Buenos Aires nel 1940, quando ci fu la prima dell’omonimo
lavoro teatrale. Si mette in risalto la commistione fra politica e malavita.
Anche all’epoca i politici di turno non solo tolleravano questo tipo di tirapiedi
ma li usavano pure a scopo intimidatorio e talvolta venivano da questi visti
come oggetto di devozione. Nel film il protagonista agisce spontaneamente per
lavare l’onore del “padrone” e anche quando è arrestato tace per non
comprometterlo. Da un lato e dall’altro si va avanti per questioni di onore,
effettive e sentite o solo di facciata. Interessante soggetto, ben sviluppato.
La hija
de Juan Simon (José Luis Sáenz de Heredia, Spa, 1935)
Uno dei film attribuibili
a Buñuel, ma nei quali lui appare solo come produttore per la Filmofono
della quale era comproprietario. Il protagonista è il cantante Angelillo
che poi sarà anche la star nel successivo ¡Centinela, alerta! (1937)
con Buñuel notoriamente riconosciuto come co-regista, mentre Sáenz de
Heredia (regista di questo film) compare come attore. Praticamente un
gruppo che sfornò film commerciali (spesso musicali) fino agli anni della
Guerra Civile. Quanto detto giustifica l’andamento rapido del melodramma che
copre almeno un lustro e include varie performance di Angelillo, oltre a
uno sfrenato flamenco di Carmen Amaya, la più famosa bailaora de
flamenco di tutti i tempi. In effetti compare solo in quella scena (svolta
fondamentale nella trama), e quindi il suo nome in bella evidenza sulle
locandine fu inserito solo quale specchietto per allodole. Questa fu la sua prima apparizione sul grande schermo e voglio aggiungere questo clip tratto dall’ultimo film nel quale apparve (Los Tarantos, 1963, Nomination Oscar), morì pochi mesi più tardi; osservate cosa riusciva ancora a fare a 50 anni, l’impressionante velocità di braccia, gambe e piedi furono sempre sua caratteristica. Si esibì a Parigi, Londra e New York e perfino alla Casa Bianca.
Ho voluto
guardare un altro lavoro di Bela Tarr e questo mi ha portato a ricercare
Delitto e castigo e sceglierne una versione americana di qualità; l’ambientazione
della storia in Russia mi ha spinto ad effettuare una ennesima ricerca fra i
film lì prodotti e quindi ho continuato con una commedia moderna e con un noto
film degli anni ’70, diretto però dal rumeno Loteanu. Il quinto è un film
argentino segnalato fra i migliori della sua epoca e ciò mi ha spinto a
recuperarne un altro dello stesso regista che ho già incluso nel prossimo
gruppo.
The
Turin Horse (Bela Tarr, Hun, 2011)
Oltre a molti
altri riconoscimenti, Bela Tarr vinse a Berlino il premio FIPRESCI e l’Orso per
la regia, oltre ad ottenere la Nomination per all’Orso d’Oro. Tuttavia, pur
essendo più “breve” della sua opera maestra Sátántangó (2h25’
contro 7h19’), e quindi teoricamente più proponibile nelle sale, oggettivamente
è meno interessante per aver poca storia e praticamente due soli personaggi
(padre e figlia), oltre al cavallo. C’è solo un altro uomo che va a comprare da
loro una bottiglia di palinka (distillato di frutta) e conversa per
qualche minuto e un gruppo di gitani di passaggio che restano in scena ancora di
meno. L’altro elemento presente è il forte vento che soffia incessantemente durante
i sei giorni proposti nel film. Eppure il film è affascinante nella sua
lentezza, sottolineata da un commento sonoro ipnotico, monotono e angosciante,
per la rappresentazione della routine giornaliera dell’uomo (con un braccio
paralizzato) e la figlia, fra il grande stanzone nel quale vivono, la stalla e
i campi desolati all’esterno. Senz’altro eccezionale la fotografia (b/n) e la
regia con ottimi movimenti di macchina negli interni, interessanti piani sequenza
e campi lunghi con inquadratura fissa o quasi. Indispensabile spiegare il
titolo, associato ad un evento (non certo) della vita di Nietzsche a
Torino; per saperne di più rimando a questo preciso post che collega la storia
a Dostoevsky e al suo Delitto e castigo … curioso, no?
Consigliato solo a chi apprezza veramente fotografia e regia e non ha chi cerca
solo azione e spettacolarità.
Crime
and Punishment (Josef von Sternberg, USA, 1935)
Conoscevo
ovviamente titolo e tema trattato, ma devo confessare di non aver mai letto il
testo né essermi mai imbattuto in uno dei suoi tanti adattamenti cinematografici,
una trentina a cominciare dal 1909. Sollecitato dalla lettura del post summenzionato
ho scelto questa versione del 1935, sia per essere diretta da von Sternberg
sia per vedere Peter Lorre protagonista e sia perché sembra che sia una
delle trasposizioni più fedeli al libro. Bel film, rigoroso nei tempi e nella
descrizione dei personaggi, che sono tanti e tutti interessanti, oltre ad
essere ben interpretati; fra tutti si distingue Edward Arnold nel ruolo
dell’ispettore Porfiry. Ciò che mi ha lasciato perplesso è l’ambientazione, che
mi sembra poco credibile e precisa per essere la Russia Imperiale e impensabile
per collocarsi negli anni successivi alla rivoluzione. Eppure i titoli dei
giornali sono in cirillico e si parla di rubli. Consigliato come buon crime
drammatico, accompagnato da tanta morale e filosofia.
The Monk and the Devil (Nikolay Dostal, Rus, 2016)
Molto ben
filmato, sia negli interni che negli esterni, si lascia seguire con interesse
per la particolarità della trama e le originali ambientazioni. Si tratta di una
commedia fantastica quasi a sfondo religioso, nella quale un monaco ortodosso dalle
origini pressoché misteriose, eppure in odore di santità, viene tentato dal
diavolo nel corso dell’intero film, con ogni stratagemma. A parte la
discutibile trama, il film perde molto nella scadentissima, nonostante ricca,
rappresentazione di Gerusalemme e nel finale sottotono. Al contrario, l’inizio
con l’arrivo del protagonista al monastero e i suoi successivi rapporti con i
confratelli è senz’altro di miglior livello. Guardabile per l’originalità e per
la fotografia, abbastanza ben interpretato.
La caída (Leopoldo Torre
Nilsson, Arg, 1959)
Segnalato in una
delle tante liste “migliori film …” mi aveva incuriosito per lo strano
soggetto, fra fantasy, dramma e … crime? La rappresentazione della famiglia nella
quale capita la giovane studentessa protagonista del film è a dir poco
inquietante. La stessa padrona di casa, vedova e immobilizzata a letto, la
mette in guardia dai propri 4 figli, due ragazze e due ragazzi, fra i 5 e i 16
anni, assolutamente fuori controllo e disinibiti pur apparendo precisi e
ordinati. L’ingenua Albertina avrebbe una via d’uscita grazie ad un giovane
avvocato che la corteggia, ma esita … il tanto atteso ritorno di uno zio dei
bambini complica ulteriormente le cose; il vago finale (che certamente non
svelo) lascia abbastanza perplessi. La sceneggiatura fu curata da Beatriz
Guido, autrice del romanzo omonimo e moglie del regista.
Anche gli zingari vanno in cielo (Emil Loteanu, URSS, 1975)
Certamente
inferiore al precedente I lautari (1972), altro film del regista
rumeno trapiantato in URSS dedicato agli tzigani dell’Europa orientale. Il filo
conduttore è un amore sostenuto da grande passione fra un ladro (per lo più di
cavalli) e una bellissima quanto fiera e indipendente ragazza di un altro clan.
Le danze, la musica e le evoluzioni a cavallo restano quasi distaccate dalla
storia che in sostanza è banale e scontata, con i soliti stereotipi. Al di là degli
sgargianti colori dei vestiti delle donne, della bellezza dei paesaggi, delle
coreografie e delle acrobazie dei cavalieri rimane ben poco.
Ritorno alle
cinquine multietniche, 5 film ben differenti del secolo scorso, prodotti fra il
1942 e il 1998: uno mediorientale (iraniano), due latini (messicano e argentino) e due europei (francese e portoghese).
O patio
das cantigas(Francisco Ribeiro, Por, 1942)
Uno dei più
conosciuti film portoghesi dell’epoca, una commedia quasi musicale che si
sviluppa completamente attorno ad una piazzetta sulla quale si affacciano
numerose abitazioni. Fra chi ci vive ci sono personaggi molto singolari che
hanno diversi tipi di rapporti, da giovani che “insidiano” le ragazze a uomini
che fanno la corte a donne più mature, il che innesca qualche gelosia, ma ci
sono anche rivalità fra commercianti e rivalità in merito alla musica che viene
suonata dai balconi del patio. Ovviamente ci sono due fazioni ben distinte: pro
e contro il fado; ma in contrasto c’è la musica brasiliana che all’epoca godeva
di grande popolarità visto che proprio in quegli anni ci fu una forte
emigrazione dal Portogallo verso il Brasile, con successivi ritorni spesso da
ricchi. Nel 2015 fu prodotto un remake che ottenne pessima accoglienza, principalmente
perché è impossibile replicare la vita e le situazioni di 70 anni prima e i personaggi
sono adesso fuori della realtà.
El vampiro negro(Román Viñoly Barreto, Arg, 1953)
Un “quasi-remake” di M il mostro di Dusseldorf (1931, Fritz Lang), con interessanti varianti che si alternano a scene replicate quasi pedissequamente. I meriti risiedono per lo più nella fotografia che riesce a ricreare un’atmosfera da noir, con scene e inquadrature che richiamano opere di apprezzatissimi registi, da C. Th. Dreyer a Orson Welles. Pur senza essere un capolavoro è certamente più che buono … cercherò altri film di Viñoly Barreto in rete, ci potrebbe essere qualche altro titolo interessante.
The
Jar - Khomreh(Ebrahim
Forouzesh, Iran, 1992)
In stile Kiarostami,
vale a dire piccola storia in una piccola comunità rurale, realismo puro. L’orcio
del titolo è quello che si trova nel cortile della scuola, all’aperto, ai piedi
di un albero. Viene riempito portando acqua dal vicino ruscello e serve per
dissetare i piccoli alunni che non sempre il volenteroso maestro riesce a controllare.
Un giorno l’orcio presenta una crepa e comincia a perdere acqua. Da questo punto
in poi ci saranno litigi, prese di posizione, volenterose collaborazioni e piccoli
incidenti che, in un modo o nell’altro, coinvolgeranno gran parte degli
abitanti di quell’agglomerato di case sperduto in area desertica. Ben narrato,
seppur velocemente mostra un interessante spaccato della povera realtà sociale
e il carattere testardo e ostinato (che si ritrova spesso in questi film
mediorientali e quindi qualcosa di vero ci deve essere) che spesso sfocia in
lunghe confrontazioni verbali fra insulti, minacce e gara a chi grida di più.
Yo
quiero ser artista(aka El cartero del barrio)(Tito Davison, Mex, 1958)
Classica commedia degli anni ’50 avente per
protagonista Adalberto Martinez, un “imitatore” dei ben più famosi Cantinflas
e Tin Tan e in quanto tale segue la sperimentata trama dell’onesto
lavoratore (in questo caso un portalettere = cartero) intraprendente al
punto di immischiarsi in qualunque assunto e mettendosi quindi spesso nei guai.
Quindi rappresentazione di un vicinato pieno di personaggi particolari dai
bambini agli anziani, dai più operosi agli sfaticati incalliti. Nel corso del
film il cartero (che sogna una carriera nel mondo dello spettacolo)
arriva agli Estudios Churubusco (la Hollywood messicana) dove ha modo di
incontrare alcune stelle dell’epoca che interpretano sé stessi: Tin Tan,
Pedro Armendáriz, Lilia Prado, Kitty de Hoyos. Ovvio lieto
fine preceduto da una bella festa improvvisata per l’artista che arriva
inaspettatamente nel caseggiato di periferia, fra il giubilo e l’ammirazione di
tutti … o quasi. Pur non essendo all’altezza dei film degli altri famosi comici
contemporanei, si lascia guardare piacevolmente e, più che i dialoghi, i
soprannomi e le offese sono spesso geniali, pur non essendo politically correct
(una vera piaga per le commedie).
Mes
Petites Amoureuses(Jean Eustache, Fra, 1974)
Pur godendo di
buona critica, l’ho trovato troppo datato e troppo “francese” … e Jean Eustache non è
certo Éric Rohmer e neanche un vero adepto della Nouvelle Vague.
Descrive bene un certo ambiente dei piccoli paesini del sud della Francia, fra
giovani indolenti e ragazzi e ragazze ai primi amori. Interessante per i cinefili cultori del cinema d'oltralpe degli anni '60 e '70. Questo è uno dei soli due lungometraggi del regista, dedicatosi più che altro ai corti.
Dopo aver
guardato tempo fa il primo e l’ultimo dei 9 film diretti da Ousmane Sembene
- La noir de … (1966) e Mooladé (2004) – ne ho
recuperati altri 4, prodotti fra il 1975 e il 2001. Il regista senegalese è
stato uno dei più noti e apprezzati della (molto limitata) cinematografia
africana; approdato al cinema verso i 40 anni, si è occupato soprattutto dei
problemi sociali, da quelli conseguenti alla transizione dal colonialismo
francese all’indipendenza, ai conflitti fra le comunità tribali e quelle religiose,
soprattutto le islamiche e cristiane. Anche quando non sono al centro della
trama, sono spesso inseriti allusioni alla condizione femminile e a quella
giovanile. -Sempre piacevoli ed interessanti per aprirci gli occhi su un mondo sconosciuto, almeno ai più.
Guelwaar(Ousmane Sembene, Sen, 1992)
Film drammatico
con qualche spunto da commedia, che inizia con uno scambio di cadavere, oltretutto
un cristiano seppellito in cimitero mussulmano. Sembene mette in risalto
non solo le posizioni radicali delle due comunità religiose, ma anche il
difficile controllo delle conseguenti tensioni che risultano difficili da gestire
da parte dei pochi membri della polizia e anche dai politici locali, quasi del
tutto ignorati in ambienti rurali. Altra problematica proposta e quella degli
emigrati in Francia che ritornano quasi da stranieri e l’eterno conflitto della
lingua: quella ufficiale è il francese ma la maggior parte degli abitanti (e la
quasi totalità dei ceti bassi) stentano a capirlo parlano solo wolof. Importanti e argomentati i discorsi contro gli aiuti internazionali che, secondo alcuni, bloccano lo spirito di iniziativa e sono in buona parte preda di politici o vengono venduti al mercato nero. Medaglia d’oro e Nomination Leone d’Oro a Venezia.
Faat-Kiné(Ousmane Sembene, Sen, 2001)
Attraverso molti
flashback, viene proposta la vita di una donna indipendente che si è affermata
da sola in ambito commerciale a dispetto dei tanti ostacoli da affrontare in
una società maschilista. Resta orgogliosamente single pur avendo due figli, nati
da uomini diversi. Tiene testa a pretendenti (che ambiscono soprattutto ai suoi
soldi), a truffatori, a chi le chiede soldi. Pur essendo chiaramente una
commedia, suggerisce interessanti considerazioni in merito alla variegata
società cittadina del secolo, allo stile di vita di donne indipendenti che
comunque sfoggiano i loro coloratissimi vestiti.
Xala(Ousmane Sembene, Sen, 1975)
Pura commedia sociale che ruota attorno ad una originale maledizione (temporanea impotenza,xala) lanciata all’indirizzo di un piccolo burocrate corrotto, in occasione del suo terzo matrimonio, in piena transizione di potere (colonia francese – indipendenza). Non mancano personaggi particolari e anche i rapporti matrimoniali (specialmente in considerazione della vigente poligamia) sono trattati in modo ironico.
Ceddo(Ousmane Sembene, Sen, 1977)
Il più statico e
quindi noioso di tutti. Lunghissime scene ambientate in spiazzi polverosi nei
quali si ritrovano e si confrontano i vari gruppi di potere, per lo più per i
soliti motivi religiosi. Nella silenziosa attenzione generale, i fautori di una
certa idea strillano le loro ragioni, ovviamente inascoltati dagli oppositori.
Frasi a sensazione, basate quasi esclusivamente su dogmi religioni, quindi non
dimostrabili. Una sceneggiatura assolutamente proponibile anche in teatro considerate
i minimi set (naturali) e la quasi totale mancanza di azione. Affascinanti i
coloratissimi variegati costumi tradizionali con originali copricapi; a
differenza di Guelwaarmolto poco convincente la colonna sonora, nella quale
viene anche inserito un gospel. Premio Interfilm a Berlino.
Quattro passi fra le nuvole(Alessandro Blasetti, Ita, 1942)
Dramedy prodotta in pieno periodo II Guerra
Mondiale, su soggetto di Cesare Zavattini. con un giovanile Gino
Cervi e morale conclusiva. Viene considerato uno dei migliori film del
regista romano e da alcuni un precursore del neorealismo. Nonostante il periodo,
non c’è alcun riferimento al fascismo né alla guerra. Ben girato e interpretato,
rientra a pieno titolo nella storia del cinema italiano il che giustifica il
suo inserimento nella lista dei 100 film italiani da salvare,
creata in occasione della Mostra del cinema di Venezia 2008.
Tre settimane fa indirizzai una lettera al Sindaco,
dettagliando la mia proposta (già anticipata verbalmente) che includeva il recupero
dei sentieri interni alla pineta di San Costanzo (nei pressi di Termini, Massa Lubrense), quella che dalla sella
fra le due cime digrada ripidamente verso Jeranto, e impegnandomi a presentare
una bozza di mappa in poche settimane … eccola:
Come si può vedere, per rendere quanto più facile
possibile i movimenti all’interno del bosco, fu realizzata una griglia, se non
regolare certamente logica, che nella parte centrale prevedeva sentieri quasi
perfettamente orizzontali ogni 25-30 metri di quota. Questi erano collegati da
sentieri zigzaganti che quindi diminuivano la pendenza; a ponente altri
sentieri più o meno in quota giungevano fin sul margine del Rivolo
San Costanzo (Rivo ‘a Falanga) e che oggi offrono insoliti e
affascinanti panorami.
L’area alberata si restringe verso sud e per questo i
sentieri a tornanti sono tre nella parte alta ma diventano due nella parte
inferiore.
Il problema del recupero deriva sia dal crollo di parte di
alcuni dei tantissimi meravigliosi muretti a secco, sia dalla caduta di rami a
causa di tempeste di vento e anche alberi, vari già indeboliti da precedenti
incendi. La situazione peggiora procedendo verso valle, soprattutto per il numero
di alberi caduti a traverso del sentiero.
Tuttavia, con molta buona volontà mia e dei miei sodali Camminanti,
pur lavorando solo a mano, solo nei pochi giorni nei quali potevamo circolare e solo quando le condizioni meteo ce lo hanno consentito, siamo riusciti a rendere
agibili quasi 3 km di sentieri, scendendo per oltre 120 metri di quota dal
crinale, dove corre l’Alta Via del Monti Lattari (CAI 300).
Gli
alberi che non si potevano rimuovere sono stati comunque sfrascati e ora, con
un poco di agilità, sono facilmente scavalcabili o aggirabili. Per ora ciò vale
solo per i sentieri segnati in rosso in mappa, per gli altri si dovrà aspettare e valutare
attentamente se valga effettivamente la pena di rimuovere quella quantità di
tronchi.
In attesa di avere la possibilità di procedere al taglio
delle parti di tronco che giacciono sui sentieri indicati in rosso, invito
tutti quelli che amano camminare (che si sono incredibilmente moltiplicati in
tempo di pandemia) a prendere in considerazione di farsi un giro nella pineta.
Anche se non la si conosce per niente, non è possibile perdersi … qualunque
sentiero in salita riporterà i novelli esploratori sul crinale e quindi alla
rotabile.
Approfittate di questa occasione per passeggiare nel verde, respirando aria buona, facendo esercizio più o meno impegnativo a seconda di quanto vorrete scendere e per quanto tempo vorrete rimanere in pineta.
Sappiate che, benché i sentieri attualmente più o meno agibili si sviluppino in un'area di neanche 9 ettari, per batterli tutti dovrete percorrere almeno 3 chilometri!
Dopo tante
quasi-monografie o gruppi dedicati in prevalenza ad un regista, paese o genere,
ecco una cinquina estremamente varia: 5 paesi differenti, generi diversi, fra gli
anni ’30 e il 2007. Il film Berlanga è nettamente il migliore, sotto ogni
punto di vista, Polanski conferma la sua abilità nei film con pochissimi
personaggi, il crime di Haggis è sufficiente, Shimizu ha prodotto
senz’altro di meglio, il portoghese Canijo molto deludente.
Los
jueves, milagro(Luis García Berlanga, Spa,
1957)
Deliziosa comedia
negra del realismo spagnolo prodotta con molto poco, utilizzando come set
il piccolo paesino Alhama de Aragón (Fuentecilla nel film), noto
per le sue acque termali che sono parte fondamentale della storia, insieme con
San Dimas (San Disma in italiano, il ladrone buono crocifisso al lato di Gesù). Oggi conta poco
più di 1.000 abitanti e non penso che all’epoca fossero molti di più e tanti
interpretarono i loro personaggi reali, specialmente nelle scene in chiesa e
quelle delle processioni. Le spese per il cast “di grido” fu fra le maggiori di
questa produzione italo-spagnola evidenziata dalla presenza (al fianco degli
onnipresenti spagnoli Isbert e López Vázquez) di Paolo Stoppa
e Richard Basehart (che all'epoca lavorava in Italia essendo sposato con
Valentina Cortese) … di conseguenza esiste la versione italiana (bravo
chi la trova) con titolo Arrivederci Dimas.
Un’altra perla frutto
della creatività e genialità di Berlanga, un maestro in questo genere,
che riusciva a fare critica sociale mascherandola da commedia in modo da
evitare la censura franchista (p.e. Bienvenido Mister Marshall e Placido). Visto per la
prima volta meno di un anno fa, ho voluto guardarlo di nuovo per aver trovato
copia migliore e sono stato molto contento di averlo fatto. I volti dei veri abitanti del paesino, i loro atteggiamenti e la descrizione dell'ambiente sono imperdibili ... consigliatissimo.
Death
and the Maiden(Roman Polanski, UK/Fra, 1994)
Film con tre
soli personaggi, che si svolge nel corso di una notte, in una casa isolata nei
pressi di una scogliera, in un paese da poco uscito da un periodo di dittatura.
Tre persone colte e formali, una coppia ed uno sconosciuto che ha aiutato l’uomo
che era in difficoltà con la sua auto. Improvvisamente qualcosa cambia e la
tensione sale rapidamente alle stelle, il rapporto fra i tre diventa violento,
fra minacce, accuse e bugie. Purtroppo si perde nel finale e nel brevissimo
seguito, con un salto temporale. Le star sono Sigourney Weaver e Ben
Kingsley (l’uomo misterioso), ma il semisconosciuto Stuart Wilson non
sfigura. Di chiara derivazione teatrale (dramma dell’argentina Ariel Dorfman,
e si comprende il perché del tema), riesce comunque a mantenere sempre alta l’attenzione.
Sembra che questo tipo di situazioni siano amate da Polanski visto che
il regista polacco, fra suoi soli 24 film in oltre 50 anni, conta (a mia
memoria) conta altri due film concettualmente simili: Il coltello nell’acqua
(1962, suo esordio, Nomination Osca e FIPRESCI a Venezia) e il molto più recente
Carnage (2011).
In
the Valley of Elah(Paul Haggis, USA, 2007)
Crime in ambito
quasi militare, incentrato sulla misteriosa scomparsa di un soldato da poco rientrato
dall’Iraq e i titoli di testa ci fanno sapere che il soggetto è ispirato a
fatti reali. Tommy Lee Jones (Nomination Oscar per questa interpretazione)
è il padre alla ricerca della verità, Charlize Theron la detective (derisa
da superiori e colleghi) che si fa carico dell’indagine e degli inevitabili
scontri con le reticenze e ostacoli opposti dai militari. Molti personaggi non
convincono del tutto e lo sviluppo è molto più lento del necessario, il film
non riesce a coinvolgere più di tanto, anche se è ben realizzato. Se piace il genere
può piacere, ma gli altri lo troverebbero noioso ... a voi la scelta.
Japanese
Girls at the Harbor(Hiroshi Shimizu, Jap, 1933)
Shimizu fu uno di quei registi che fece
storia nel cinema giapponese dirigendo ben 148 film, cominciando nel 1924 (a
soli 21 anni) e fu uno di quelli che continuò a girare muti, come questo, ben
oltre gli anni dell’avvento del sonoro. I suoi migliori furono senz’altro
quelli realistici, con tanti bambini e giovani come protagonisti. Amico e
collega di Ozu, fu anche molto apprezzato da Kenji Mizoguchi, ma
questo, pur realizzato con il suo solito stile chiaro e descrittivo, non è riuscito
a coinvolgermi; a chi non lo conosce consiglierei di cominciare con altri suoi
film.
Sangue do meu sangue(João Canijo, Por,
1994)
Senza dubbio il
più deludente di questa cinquina. Molto quotato in patria, dove ha ottenuto
molti premi (ma l’attuale produzione lusitana non è di gran livello), si
risolve nella descrizione di una famiglia mal assortita di ceto medio-basso
nella quale sembra che si faccia a gara a chi si comporta in modo più irrazionale.
Canijo (regista e sceneggiatore) ha voluto concentrare in una mezza
dozzina di personaggi troppi problemi sociali e ciò, oltre a sembrarmi
eccessivo per chiunque, non è assolutamente nelle sue capacità; oltretutto,
oltre la brava Rita Blanco, il resto degli interpreti non è convincente.
Risulta abbastanza deprimente e anche irritante per l’insulsaggine dei
personaggi. Visione che si può evitare.
Cinquina quasi
monotematica con film georgiani del periodo in cui il paese faceva ancora parte dell’URSS ai quali
ho aggiunto Cabiria, pietra miliare del cinema italiano,
ancorché sconosciuto alla gran parte del pubblico (non ha niente a che vedere
con le Notti di Cabiria, 1957, di Federico Fellini, Oscar miglior
film straniero).
Cabiria(Giovanni Pastrone,
Ita, 1914)
Fu il primo vero kolossal italiano e fece
storia nel mondo intero, ispirando i successivi lavori di Cecil B. DeMille
e D. W. Griffith; a detta di Scorsese, Pastrone fu il vero creatore del
kolossal epico. In effetti, l’anno prima
Enrico Guazzoni aveva diretto Quo vadis?, anch’esso ovviamente
storico e primo in Italia a servirsi di centinaia di comparse, ma niente a che
vedere con Cabiria. Il soggetto e sceneggiatura sono basati su testi
di Tito Livio e sul romanzo di SalgariCartagine in fiamme
e vi collaborò lo stesso Pastrone, mentre Gabriele D’Annunzio (al
quale spesso tutti i meriti) fu solo l’autore dei numerosi aulici cartelli nonché
dei personaggi e dei loro nomi. Fu proprio lui il creatore di Maciste, qui
interpretato da Bartolomeo Pagano, uno scaricatore del porto di Genova, che
così diventò una star del cinema interpretando lo stesso personaggio in un’altra
quindicina di film; nella prima metà degli anni ’60 il buon forzuto tornò in
gran voga come protagonista di oltre 20 film, interpretati però da attori diversi.
Anche se il concetto di carrellata già
esisteva, Pastrone ideò e brevettò il macchinario e lo utilizzò in numerose
scene di Cabiria. Al contrario dei film dell’epoca fece anche ampio
uso di montaggio e tutti i vari metodi di ripresa allora disponibili. Volle una
colonna sonora composta specificamente per il film che sottolineasse le scene
più drammatiche. Grande fu anche il successo internazionale, il film restò in
cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. Con tutti i
limiti di un film di oltre un secolo fa, Cabiria è comunque
affascinante contando su scenografie spesso grandiose, una gran varietà di
costumi ed una recitazione senza troppi esagerati sbracciamenti, tipici
dei muti, né eccessivi primi piani. Le scene d’azione sono molto ben
realizzate, dai sacrifici al Moloch, all’eruzione dell’Etna, all’assalto alle
mura.
Nel 2006 è stata realizzata una versione restaurata con aggiunta di scene per molti anni non disponibili, raggiungendo una durata di circa 3 ore. Fu presentata l'anno successivo al Festival di Berlino. Certamente un must per cinefili, ma apprezzabile
anche da tanti altri amanti delle arti visive. Consigliato!
Blue Mountains (Eldar Shengelaya, Geo, 1983)
Seppur un po’ ripetitiva, la satira socio-politica
che domina in questo film dalla prima all’ultima scena risulta più che divertente
e arguta, proponendo un gran numero di personaggi che “lavorano” in una
delle tante strutture dell’apparato statale sovietico. Nessuno si prende
responsabilità, demandandole ad altri, ci sono sempre firme che mancano sui
documenti, molti sono i perditempo, i perennemente assenti e quelli che giocano
a scacchi, ma tutti aspirano ad aumenti e bonus. Le copie del manoscritto del
protagonista passano di mano in mano, si perdono, riappaiono ma nessuno le
legge e nonostante ciò tutti esprimono opinioni e commentano. Le dichiarazioni
nel corso della riunione finale evidenziano questa linea, mentre l’intera struttura
(metaforicamente e praticamente) mostra le sue crepe e sta per crollare. Una
commedia dell’assurdo, basata sull’impotenza del cittadino di fronte alla cieca
burocrazia, in puro stile kafkiano. Da non perdere.
Trilogia di Tengiz
Abuladze (in ordine di mio gradimento)
The Wishing Tree(Tengiz Abuladze, Geo, 1976)
Nell’ambito della trilogia, questo è il mio
preferito per essere confuso e creativo al punto giusto, anche se nell’ultima
parte passa da essere divertente commedia stracolma di personaggi peculiari,
degni dei film di Kusturica o di Fellini, ad un tono prettamente
drammatico. Numerose storie si intrecciano nella trama, alcune più indipendenti,
altre meglio connesse al contesto sociale del piccolo paesino di campagna; i
tanti brevi eventi/episodi (ho letto che sono 23) sono incatenati in sequenza per
avere almeno un protagonista in comune, e molti sono i personaggi appaiono in
più occasioni. Nel 1979 vinse il David di Donatello come miglior film
straniero, presentato con titolo L’albero dei desideri.
Consigliato.
Repentance (Tengiz Abuladze, Geo, 1984)
Si inizia con la morte del protagonista, un
personaggio politico caricaturale frutto di una combinazione delle
caratteristiche di Hitler, Mussolini, Stalin e il suo fido
Beria (per oltre 20 anni a capo della polizia segreta e politico). A
causa delle poco velate allusioni agli ultimi due (entrambe georgiani) il film
fu bloccato per 3 anni e solo nel 1987, grazie alla glasnost di Gorbaciov,
fu messo in circolazione in Unione Sovietica e anche all’estero. Divenne candidato
all’Oscar per il suo paese (ma non fu incluso nel gruppo finale) e vinse il Golden
Globe miglior film straniero e 3 Premi a Cannes, fra i quali il Gran Premio
della Giuria assegnato all’unanimità. Ovviamente gran parte del film è composto
da flashback, ma c’è anche una parte al limite del surreale con il cadavere
che, dopo essere stato sepolto, riappare più volte. Quindi una dark comedy a
tema politico, con vari spunti fantastici.
The Plea(Tengiz Abuladze,
Geo, 1967)
Decisamente un film “troppo” artistico, con
dialoghi sostituiti da versi, spesso ripetuti più volte, del poeta georgiano Vaja-Pshavela,
vissuto nell’ultimo periodo dell’Impero Russo. Pur trattando temi interessanti che
spaziano dalla faida all’ostracismo e dall’intoccabilità dell’ospite alla
vendetta, la poca azione e la voce non sincronizzata rendono la visione
impegnativa. Notevole senz’altro la fotografia (b/n) e la regia. Certamente di
genere ben diverso dagli altri due e non destinato al grande pubblico.
Nel titolo la scrittura corretta, né con la “i”,
né con la “e” (vocale “muta”) = pezzente, nnoglia, doglia, …
ma non cotechino!
Dopo varie interviste, sufficienti per poter
cominciare a redigere una statistica, posso dire che prende corpo l’ipotesi che
cuteniello (continuerò a scrivere così per facilità di lettura e
ricerca) sia denominazione tipica della penisola sorrentina, anche se insaccati
tradizionali molto simili sono prodotti quasi in tutto il meridione. A complemento
della dettagliata descrizione fornita da Giovanni Gargiulo come commento al
post precedente, ecco alcune informazioni raccolte che, in
linea di massima, coincidono. Bisogna comunque sempre tener presente che
essendo prodotto molto artigianale e talvolta casalingo per consumo familiare, gli
ingredienti base variano così come gli aromi che dipendono anche dall’area di
produzione.
Dal nome è facile intendere che si include una percentuale di
cotenna, ma questa è considerata carne di minor pregio quindi più ce n’è meno buono
è il prodotto. Quelli artigiano/industriali (di battaglia) venduti da alcune
macellerie talvolta contengono troppa cotica e sono da evitare; in quelli fatti
per uso proprio o con l’idea di proporre un insaccato tradizionale e povero ma di
ottima qualità se ne usa invece poca e solo la più tenera, vale a dire quella
sotto al collo. In questo caso la maggior parte del resto della carne proviene
dalla testa (spesso anche lingua e orecchie) e zampe,
ma anche da altri pezzi di carne con più nervi, non utilizzati nella
preparazione di salami e salsicce secche (che non sono sopressate).
In quanto al condimento, obbligatoria l’aggiunta di vino bianco (alla
pari delle tradizionali salsicce fresche in quest’area), pepe in grani o
macinato e/o peperoncino (a proprio gusto), qualcuno aggiunge anche semi
di finocchietto. In linea di massima i cutenielli
vengono anche affumicati, spesso usando piante aromatiche locali quali lauro, rosmarino e mirto
(utilizzato per questo da oltre 2.000 anni).
Venendo al consumo dei cutenielli,
fornirò solo poche indicazioni in quanto per lo più viene trattato alla stregua
di tanti altri prodotti, specialmente di origine suina. Una, indispensabile e
seguita da quasi tutti, è quella di sgrassare l’insaccato che, per risultare
morbido, dovrà bollire anche per un paio d’ore (dipende dalla pezzatura e dall’impasto).
Sap avverte di non metterlo in acqua fredda dopo averlo bollito,
altrimenti si indurisce, e quindi consiglia di passarlo in altra pentola con
acqua bollente. Per non correre il rischio che il budello ceda e il cuteniello
si rompa nel corso della bollitura, alcuni lo avvolgono in una mappina
(capite mappina?) o in un altro panno, legato alle estremità a mo’ di
caramella.
Come già accennato nel post originale si sposa alla perfezione con qualunque zuppa di legumi e minestre di
verdure, ma i veri cultori del cuteniello sostengono che la
sua morte debba essere in salsa (che comunque non sarà mai un ragù).
In questo caso, se è relativamente piccolo e i pomodori sono tanti, si può
anche non sgrassare considerato che dovrà condire molti piatti di pasta e la
sua funzione è soprattutto quella di fornire sapore. Scelta assolutamente soggettiva
è quella di rompere il budello e mischiare l’imbottitura nella salsa o
mantenere il cuteniello integro e poi tagliarlo a fette servendole
a parte. Last but not least, c’è anche chi lo preferisce in bianco (alias all’insalata),
vale a dire solo sgrassato e poi mangiato con una bella strizzicata di limone
(che per fortuna da noi non mancano) come si fa nelle feste popolari con 'o pere e 'o musso.
Chi non lo conosce e lo volesse provare, sia certo di affidarsi a produttore serio o segua i suggerimenti di qualche aficionado; una cattiva esperienza iniziale rischierebbe di allontanarlo per sempre da questa prelibatezza. Ricordate inoltre che di solito sono i primi insaccati ad essere consumati, essendo più soggetti all’irrancidimento rispetto ai salami, salsicce secche, capicolli, e via discorrendo. Fino a primavera sarà relativamente facile trovarli, passato marzo è meglio che aspettiate almeno fino a novembre prossimo.
Qualunque sia la ricetta che vi attiri, provate nu cuteniello, sono certo che non rimarrete delusi.