In questo ennesimo gruppo eterogeneo anche le altre (Iran e Polonia) non sono fra le più conosciute tranne, ovviamente, la Francia.
Ballad of a White Cow (Maryam Moghadam, Behtash Sanaeeha, 2020, Iran)
Il titolo si
riferisce ad una sura del Corano, conosciuta come quella della vacca, metafora
di un innocente condannato a morte. Maryam Moghadam è co-regista (esordiente), co-sceneggiatrice e
protagonista di questo film dalle tante sfaccettature: pena di morte, errori
giudiziari, espiazione, condizione femminile nell’Iran moderno. Finale un po’ a
sorpresa, sia per l’essenza che per i modi. Dramma che tuttavia corre quasi al
limite del romantico, ma che include una serie di disavventure. Ben girato e
interpretato, di buon ritmo, certamente un po’ avvilente per i contenuti, molti
dei quali si possono ritrovare anche nelle società occidentali. Dall’Iran,
in un modo o nell’altro, continuano a giungere film senz’altro al di sopra
della media; questo a Berlino fu candidato al Premio del pubblico e all’Orso d’Oro.
The Last Family (Jan P. Matuszynski,
2016, Pol)
Nella prima
parte, se non ci si è informati, non è chiaro dove il regista voglia andare a
parare, ma con passare dei minuti il film biografico si fra apprezzare per la
buona, seppur oggettivamente difficile, descrizione della famiglia Beksinski.
Il capofamiglia Zdzislaw è stato apprezzatissimo fotografo, scultore e pittore
specializzato nel surrealismo distopico, universalmente riconosciuto come il
più famoso artista polacco della seconda metà del secolo scorso. La vita della
famiglia viene proposta come apparentemente normale, in un appartamento di
grande condominio dove l’artista vive con la moglie Zofia e con madre e
suocera; di tanto in tanto li raggiunge il figlio Tomasz (noto presentatore
radiofonico, critico musicale, traduttore e doppiatore), con evidenti problemi
psicologici. Ottime le interpretazioni, interessante la fotografia quasi tutta in interni.
Deux jours, une nuit (Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, 2014, Fra)
Marion Cotillard interpreta magistralmente una donna che si trova nel
pieno di un dramma personale poiché rischia di perdere il posto di lavoro,
ottenendo la Nomination Oscar come protagonista, dopo averlo vinto nel 2008
nelle vesti di Edith Piaf in La Vie En Rose. Nonostante il
supporto del (pazientissimo) marito e l’affetto dei due figlioletti, non riesce
a staccarsi dagli ansiolitici e ciò non l’aiuta di certo a cercare di
convincere i suoi colleghi di lavoro, nel breve tempo di un weekend, a votare
per farla rimanere in azienda, rinunciando ad un bonus. Trama per lo più scontata
e ripetitiva. Nomination Palma d'Oro a Cannes.
White Building (Kavich Neang, 2021, Cam)
La Cambogia,
come paese di produzione, mi mancava … ora ho colmato anche questa lacuna. Il
film non è un granché, ma certamente non è da bocciare del tutto. Non per
niente a Venezia, nel settore Orizzonti, Piseth Chhun è stato premiato
come miglior attore e Kavich Neang candidato miglior regista. Si
tratta della storia di una delle tante famiglie che vivono sotto l’incubo di
uno sfratto dal grande e malandato condominio (quello del titolo) nel quale
hanno vissuto per anni. Ben proposte sia le dinamiche familiari, che i rapporti
del vero protagonista (il figlio, Piseth Chhun) con gli amici e le
ragazze, nonché le diverse visioni degli altri vicini che, oltre a perdere la
casa, si rendono conto che con la piccola somma loro offerta, potranno solo
trasferirsi fuori Phnom Penh. Dal mio punto di vista di viaggiatore,
interessante anche dare uno sguardo alla Cambogia moderna, ovviamente ancora
con molti contrasti fra tradizione e globalizzazione.
Inhebek Hedi (Mohamed Ben Attia, 2010, Tun)
Deludente, per l’ignavia e la falsità del protagonista, oltretutto eterno indeciso, per il ritmo inutilmente lento, per le troppe scene poco illuminate e per l'eccessivo uso delle riprese con l'obiettivo quasi attaccato alla nuca del giovane … soluzione ottima in Son of Saul (2015, László Nemes, premio Oscar) fra la bolgia infernale di reclusi ai lavori forzati, fuori luogo in questo caso. In quanto agli altri personaggi, la madre viene presentata come insopportabile (ma il protagonista se ne sarebbe dovuto accorgere molti anni prima) e l'animatrice troppo vacua e superficiale. In conclusione, sceneggiatura debole, quasi insulsa, e realizzazione scadente. Tutavia, restando in ambito tunisino, mi preme sottolineare che ci sono molti nuovi registi che si cimentano in vari generi e con un certo successo; è il caso di Manele Labidi con la piacevole commedia quasi grottesca Un divan à Tunis (tit. int. Arab Blues, 2019, RT 92%) della quale scrissi un anno e mezzo fa.