Due ottimi classici poco visti del 1963, i primi due film di Joachim Trier (recentemente assurto a notorietà internazionale con la Nomination Oscar per The Worst Person in the World) e un buon franco-alemanno, ancorché un po’ deludente.
Le feu follet (Louis Malle, 1963, Fra)
Tratto dall’omonimo
romanzo del 1931 di Pierre Drieu la Rochelle, tratta dei tormenti di un
giovane uomo appena disintossicatosi. Combattendo la solitudine e alla ricerca
di una ragione di vita, Alain (Maurice Ronet) ritorna per un giorno a
Parigi nel tentativo di tornare alla normalità; ma il fatto di rincontrare i
suoi amici parigini e frequentare i soliti locali sembra non aiutarlo
minimamente. L’ambiente è quello dell’alta società e della cultura, nel quale
il protagonista si rivela essere stato personaggio conosciuto e ricordato con
affetto anche da personale di albergo, bar e ristoranti … forse gli unici
veramente sinceri. Interessante anche se deprimente, teatrale, ottimamente
interpretato, profondo. Unanimemente giudicato uno fra i migliori film di Malle,
così come una delle migliori interpretazioni di Ronet. Premio speciale
della Giuria, Premio Pasinetti e Nomination Leone d’Oro a Venezia.
I
basilischi
(Lina
Wertmuller, 1963, Ita)
Un classico cult
italiano, opera prima di Lina Wertmuller (con esperienza di aiuto
regista di Federico Fellini per il film 8½) che, ispirata
anche dal maestro, già metteva in mostra il suo stile satirico al limite del
grottesco, attentissima alla vita di provincia fatta di stereotipi regionali nonché
alla parlata (ma senza esagerare), alle tradizioni ancestrali e ai personaggi
particolari. Il merito è certamente tutto suo essendo non solo regista ma anche
autrice unica di soggetto e sceneggiatura. L’ambiente è quello di una cittadina
dell’entroterra pugliese, al confine con la Basilicata, con economia indissolubilmente
legata all’agricoltura. E un film tutto da vedere e da ascoltare, con dialoghi
sagaci e divertenti, senz’altro realistici. Da non perdere.
Oslo, 31. August (Joachim Trier, 2011, Nor)
Seppur più
vagamente, anche questo film di Trier (niente a che vedere con il danese
Lars von Trier, co-fondatori di Dogma 95 con Thomas Vinterberg) si ispira a Le feu follet, ma la scena è
quella di una Oslo di un decennio fa, con tanti giovani che sembrano ancora
indecisi sul loro futuro e poco soddisfatti delle loro esperienze. Anche in
questo caso tutti gli eventi sono raccolti in una giornata (da cui il titolo)
raccontati attraverso gli incontri di un giovane che, avendo un giorno di
permesso dal centro di recupero dove ha trascorso gli ultimi mesi, torna in
città per incontrare amici, conoscenti, ex, vecchie fiamme. Non una grande
presentazione dei giovani norvegesi, che appaiono per lo più superficiali e disillusi;
questi sono argomenti ricorrenti nei 3 dei soli 5 film di Trier che ho
visto (dei quali è anche sceneggiatore) ed è lecito supporre che anche gli
altri due trattino temi simili. L’impressione è che questa monotematicità sia
un suo limite, mentre è assolutamente da apprezzare per il suo modo di filmare,
con grande e buon uso di macchina a mano, piani ravvicinati, montaggio rapido.
Cimentandosi in altro tipo di produzioni e affidandosi ad altri sceneggiatori
potrebbe guadagnarci molto. Tornando al soggetto, risulta certamente perdente
nel confronto con l’adattamento di Luis Malle.
Reprise (Joachim Trier, 2006,
Nor)
Questo fu l’esordio
di Trier e, come appena scritto, anche in questo caso i protagonisti
sono due giovani pieni di aspirazioni, ma anche di dubbi, certamente molto entusiasti
ma altrettanto insicuri. I due sono aspiranti scrittori che perseguono i loro
ideali, hanno i loro autori di riferimento, vengono spesso quasi derisi dai
loro conoscenti. Anche in questo caso i giovani hanno problemi di alcool e
droga ma risaltano anche l’ipocrisia e la cattiveria. Come spesso accade fra
artisti, pseudoartisti ed aspiranti artisti, l’euforia di momentanei e
improvvisi successi si alterna con la depressione e l’incapacità di produrre.
Transit (Christian Petzold, 2018, Ger/Fra)
In un certo
senso la trama ricorda l’essenza del famoso Casablanca (1942, Michael
Curtiz), fra persone in fuga da un regime dispotico, lasciapassare, passaporti
falsi, biglietti per espatriare. L’intreccio degli incontri, le casualità, i
personaggi appena accennati che ricompaiono all’improvviso, i tanti twist che
continuano fino all’ultima enigmatica scena sono certamente un valore aggiunto
per la sceneggiatura. Questo è un adattamento (curato dallo stesso regista) dell’omonimo
romanzo di Anna Seghers del 1944; ardito in quanto la scena è trasposta
a tempi moderni, con fantomatici invasori della Francia, la maggior parte delle
persone in fuga lasciano Parigi e le città del nord per ritrovarsi a Marsiglia
in attesa di una fuga via nave verso i paesi di oltreatlantico. Non ho gradito
la frequente narrazione con voce fuori campo, oltretutto di nessuno dei
protagonisti … una soluzione che non mi è mai piaciuta, appena tollerata nei
classici noir americani per i quelli veniva usata di frequente.
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