Oltre a due commedie coreane fra il dark e il drammatico, nel quadro di una cinematografia che ormai da un paio di decenni riserva continue buone proposte, spesso molto originali, in questa cinquina ci sono un ottimo dramma rumeno (vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2013) e due stranissime coproduzioni (una addirittura di 7 paesi diversi) ambientate in area e tempi di rivoluzione / guerra rispettivamente in Yemen e Afghanistan.
Approfitto di questo post per suggerire
di nuovo di evitare la visione di Cry Macho, ultimo film di Clint
Eastwood (nel senso di più recente, ma se deve continuare così è meglio che sia l’ultimo
in assoluto) che oggi esce in alcune sale italiane. Si tratta di una pappolata melensa,
peggiorata da un doppiaggio più indegno del solito (è sicuro che i doppiatori
italiani siano i migliori? Forse è perché in pochi altri paesi si doppiano i
film). Già ne scrissi un mesetto fa avendo avuto occasione di guardarlo (in
v.o.!) in Portogallo … sconfortante per i sostenitori del buon Clint. "Ufficialmente insufficiente" sia su IMDb che su RT.
Non è il primo
film rumeno moderno che guardo e devo dire che tutti mi hanno lasciato più che
soddisfatto per la messa in scena, la sceneggiatura (di solito drammatica) e
per l’ottima qualità dei cast che sono costituiti da attori veri, senza avvenenti
vamp e/o fusti bellocci. In questo film, fra tanti buoni coprotagonisti, spicca
Luminita Gheorghiu, icona del teatro e cinema rumeno, morta pochi mesi
fa all’età di 71 anni. La trama ruota attorno ad una madre (architetto) che con
la sua rete di amicizie fra politici, burocrati e altri professionisti cerca di
evitare la galera a suo figlio che ha investito e ucciso un ragazzino. Tutto
ciò in un clima tutt’altra che sereno fra i membri della famiglia. In questo
film lo stile del regista Netzer è molto vicino al Dogma 95, con
tanta handycam e presa diretta, e ha vinto Orso d’Oro e Premio FIPRESCI
alla Berlinale 2013. Da non perdere. Curiosità: nel corso della festa all’inizio
del film si sentono solo due canzoni: Senza giacca e cravatta interpretata
da Nino D’Angelo e Meravigliosa creatura da Gianna Nannini
…
Castaway on the Moon (Hae-jun Lee, 2009, Kor)
Commedia
grottesca al limite del surreale che vede un suicida fallito che si ritrova su
un isolotto deserto al centro del fiume Han che scorre fra i grattacieli di
Seul, ma non riesce ad abbandonarlo in alcun modo. Egualmente isolata, ma per
propria scelta, è una ragazza che si è autoreclusa in una stanza di un
appartamento nel quale vive con la famiglia, ma senza contatti diretti. In un
modo inaspettato ed estremamente singolare riescono a comunicare. Fra
situazioni esagerate, critiche sociali, problemi reali del naufrago e comportamento
estremamente eccentrico ma molto creativo della ragazza, il film scorre
piacevolmente ed in modo arguto, con pochissime pause. In Italia è arrivato al Udine
Far East Film Festival, dove ha vinto 2 premi. Consigliato.
The Reluctant Revolutianory (Sean McAllister, 2012, UK)
Ottimo docufilm
girato a Sana’a e dintorni nel 2011, nel periodo delle manifestazioni che
culminarono con l’eccidio di 52 manifestanti inermi da parte delle forze
governative il 28 marzo, avvenimento con il quale si conclude il film mostrando
proiettili veri, sangue vero, morti veri. Il periodo è quello complessivamente
noto come Primavera araba, che per un paio di anni vide manifestazioni di
protesta pacifiche o violente in numerosi stati del vicino e medio oriente, soprattutto
in Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Iraq oltre che in Yemen. Ciò che lo distingue
da un documentario vero e proprio è il fatto che McAllister si muove
sempre insieme con un tour operator e proprietario di un piccolo hotel, che gli
fa da guida e interprete e con il quale discute e scambia opinioni. Tutto è
girato con una piccola telecamera che in più occasioni deve essere velocemente
nascosta. Si tratta quindi di una visione dall’interno che mette in luce i
problemi economici e familiari della guida, nonché quelli politici degli
yemeniti.
Microhabitat (Jeon Go-Woon,
2017, Kor)
Altro film
coreano che evidenzia i problemi quotidiani, specialmente dei giovani, che
devono combattere con aumenti continui di beni e soprattutto alloggi, la
pressione del lavoro, il quasi obbligo di avere successo. Qui la protagonista è
una ragazza che mal si adatta a tutto ciò, si accontenta di lavorare come
domestica ad ore ed i suoi unici conforti (che comunque sembrano soddisfarla)
sono le sigarette e un bicchiere di whisky … ma anche questi generi aumentano
in continuazione. Lasciato il piccolo appartamento nel quale viveva, comincerà
a vagare da una casa all’altra ospitata da amici, ma non tutti sono veramente
tali. Pur essendo frutto di una scelta, la vita della protagonista risulta
essere un po’ triste e deprimente; film ben realizzato.
The Orphanage (Shahrbanoo
Sadat, 2019, Den/Lux/Fra/Ger/Afg/Kor/USA)
Molto deludente, da quanto letto nella presentazione su MUBI, nonché nei commenti su IMDb e per il generosissimo 91% di rating su RT, mi aspettavo qualcosa di molto più brillante. L’idea nasce da una lunghissima raccolta di memorie di Anwar Hashimi (amico della regista, scrittore e attore) ma si sviluppa solo in un breve periodo del 1989, quando i sovietici si preparavano ad abbandonare l’Afghanistan lasciandolo nelle mani dei mujaheddin, all’epoca finanziati e sostenuti anche dagli USA, e fra i quali operava anche Osama Bin Laden creando Al-Qaeda. La parte interessante è nel vedere il tentativo di sovietizzazione, con insegnamento del russo nel collegio, dove convivevano ragazzi e ragazze, queste addirittura in gonne abbastanza corte … incredibile vedendo il paese oggi, dopo 30 anni. Purtroppo le relazioni fra gli studenti ricalcano i soliti cliché e le rappresentazioni in stile Bollywood dei sogni del protagonista (che tanto vengono lodate in varie recensioni) risultano banali e lasciano il tempo che trovano. La regista è una giovane afghana (classe 1990) che si era già fatta notare con Wolf and Sheep (2016). Da non confondere con l'omonimo (ma solo in inglese) buon film di J.A. Bayona del 2007.
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