Film di provenienza molto diversa (5 paesi diversi, di 3 continenti), ognuno con una sua storia particolare sostanzialmente semplice ma condizionata da modi di pensare, tradizioni, convenzioni. Si passa dagli indigeni dell’Amazzonia brasiliana a chi scappa dai guerriglieri narcos colombiani, dagli uomini d’onore mafiosi a chi tenta di isolarsi nella Turchia asiatica interiore; completa il gruppo la storia di una ragazza vittima delle convenzioni sociali degli anni ’80. Essendo tutti interessanti e più che sufficienti, procedo in ordine cronologico.
Mafioso (Alberto Lattuada, 1962, Ita)Ci sono arrivato
per mia curiosità dopo aver notato che i grandi amici Rafael Azcona e Marco
Ferreri (dei quali ho parlato nel post che includeva La vaquilla)
avevano collaborato alla sceneggiatura di questa commedia grottesca. Un
siciliano trapiantato con successo a Milano torna al paesino natio dopo vari
anni per due settimane di vacanza e per far conoscere ai genitori sua moglie
(bionda e settentrionale) e le due figlie. Non solo il culture clash sarà
al centro di tutto, ma si scopre anche un passato di picciotto d’onore del
protagonista (Alberto Sordi) al quale vengono ricordati privilegi e
oneri del suo ruolo. L’idea (di Bruno Caruso) era più che interessante,
ma penso che la scelta dell’interprete (come quasi sempre sopra le righe) non mi
sembra che fu la più felice. Chiaramente si sguazza fra i tanti stereotipi e
luoghi comuni relativi ai siciliani, specialmente quelli di metà secolo scorso.
Le rayon vert (Éric Rohmer, 1986, Fra)
Ottimo classico rohmeriano,
quinto dei sei che compongono la serie Commedie e proverbi che era stata
preceduta dai Sei racconti morali e fu seguita dai Racconti delle
quattro stagioni. A Venezia vinse il Leone d’Oro e altri 3 premi (Golden Ciak,
FIPRESCI, Marie Rivière miglior attrice) e miglior film dell’anno per Cahiers
du Cinéma. Marie Rivière, che aveva esordito proprio con Rohmer
in Perceval le Gallois (1978), in questo film oltre ad
interpretare la protagonista ebbe un ruolo fondamentale nella stesura della
sceneggiatura conoscendo alla perfezione quella generazione di giovani
irrequieti, spesso indecisi e volubili. Commedia romantica che segue per
qualche settimana la vita movimentata (ma solo per i km percorsi) della 30enne
Delphine che deve riorganizzare le sue vacanze estive dopo che salta un viaggio
in Grecia con amici. Da Parigi (dove ritorna quasi ogni volta) andrà in
campagna, a Cherbourg, La Hague, Biarritz, Saint-Jean-de-Luz.
Watchtower (Pelin Esmer, 2012, Tur)
Doppio dramma
umano diretto da una giovane regista turca, già apprezzata per i suoi
precedenti lavori. Casualmente si incrociano le vite dei due protagonisti che
tentano di isolarsi da famiglia e resto del mondo, uno cercando di sfuggire ai
suoi sensi di colpa accetta di buon grado una vita quasi da eremita in una
isolata torretta di avvistamento antincendi, l’altra fugge da una vergogna che
non sente ma che sa le verrebbe addebitata dalla chiusa mentalità arretrata e
imperante nella provincia turca. Buone le interpretazioni e il modo in cui la
regista svela il passato dei due poco alla volta. Certamente è il personaggio
della ragazza quello più sfaccettato, che a volte diventa un po’ disturbante quando
esplicita quello che sembra essere un odio generalizzato, per il mondo intero,
anche verso chi tenta di aiutarla.
La sirga (The
Towrope) (William Vega, 2012, Col)
Ambientazione
minimalista in una capanna sulle rive di un lago andino della Colombia
meridionale. Dopo che il suo villaggio è stato dato alle fiamme e la sua
famiglia sterminata (ma niente di ciò viene mostrato), una ragazza si presenta
a casa dell’unico parente conosciuto, tale Oscar, pescatore e proprietario di
una improbabile guesthouse molto malandata. Pochi personaggi, ognuno con
i propri problemi che si vanno ad aggiungere a quelli della totale insicurezza
dovuta alla guerriglia. Le cose si complicano ulteriormente con il ritorno a
casa del figlio di Oscar e gli avvenimenti diventano ancor più misteriosi,
volutamente accennati e lasciati all’intuizione dello spettatore. Bella
fotografia molto naturale che si avvantaggia degli scenari lacustri; buone
anche le interpretazioni degli attori non professionisti (a tutt’oggi unico
film per loro), due Nomination a Cannes.
Chuva é cantoria na aldeia dos mortos (The Dead and
the Others) (Renée Nader Messora, João Salaviza, 2018, Bra)
Primo film in lingua jê (comune a molti indigeni dell’Amazzonia) con la maggior parte degli interpreti (compresi tutti i protagonisti) appartenenti all’etnia Krahô; secondo Wikipedia l’intera popolazione censita non raggiunge i 3.000 individui. Tranne i pochi bianchi che compaiono nella seconda parte quando il protagonista si reca nella cittadina di riferimento, tutti gli altri interpreti appartengono allo stesso villaggio e nei titoli si può notare che oltre la metà dei loro nomi terminano con Krahô, evidentemente secondo cognome che identifica l’etnia. Considerato che si segue molto la vita del villaggio, quotidiana e religiosa (animista), con rito dei morti e sciamani, il film risulta essere in buona parte documentaristico, il che aggiunge interesse e non sminuisce certo la qualità. Bravi i registi per le riprese in quella parte dell’Amazzonia (fra le foreste della parte alta e le savane di quella bassa) e per gestire alla perfezione gli attori non professionisti, sia i pochi protagonisti sia le numerose comparse fra i quali tanti bambini e anziani, quasi tutti spesso seminudi (o nudi) che per loro è la normalità.
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