Decina quasi monotematica, con i film muti di due soli
registi dell’avant-garde francese degli anni ’20, Germaine Dulac e Jean Epstein, veri innovatori soprattutto
nel campo del montaggio e delle riprese, con tanti primissimi piani dei
protagonisti e un ottimo uso
delle doppie esposizioni che rivelano i loro pensieri, sogni e ricordi. Queste furono
peculiarità dell’impressionismo (cinematografico) francese che centra gran
parte dell’attenzione sui protagonisti ottenendo una narrazione chiarissima, che
non avrebbe neanche bisogno dei sottotitoli (comunque molto pochi).
La
souriante Madame Beudet (1923,
43’)
La
coquille et le clergyman (1928,
41’)
Comincio con questi due film (restaurati e ricostruiti,
con alcuni minuti in più delle versioni che circolavano in precedenza) di Germaine Dulac, seconda regista nella storia del
cinema francese, critica teatrale e cinematografica, impegnata nel movimento
delle suffragette, teorica del cinema. Il primo è un classico esempio
dell’impressionismo francese e oltretutto uno dei primi film etichettati come femmisti,
mentre il secondo è certamente surrealista (da molti considerato il primo di
tale genere) e precede di oltre un anno la pietra miliare del cinema Un
chien andalou, opera di Buñuel e Dalì. Certamente non è
paragonabile a questo né al loro successivo L’age d’or (1930), ma
gli si deve oggettivamente riconoscere l’originalità della messa in scena, le
varie interessanti scenografie che richiamano l’espressionismo tedesco,
l’associazione di sensualità e libidine con il prete in abito talare, gli
artifici con la pellicola (antesignani degli effetti speciali).
Ho poi
proseguito con una serie di medio- e lungometraggi di Jean Epstein,
teorico e regista emblematico dell’avant-garde
francese, rinviando a data da destinarsi i suoi vari short e documentari
(altrettanto ben quotati) disponibili in rete. Questi sono i titoli (anno,
durata) degli 8 film guardati, che trattano ambienti ed epoche molto diversi ma
in sostanza c’è sempre una parte melodrammatica predominante.
L'auberge
rouge (1923, 72’) (poster nella fila sotto)
Dramma
ambientato a cavallo dell’800, con due episodi nettamente distinti, con un protagonista
comune. Nel corso di una cena in una ricca residenza, uno dei commensali narra
(così come gli fu riportato) un fatto di sangue avvenuto 20 anni prima in una
locanda di campagna nel corso di un nubifragio. Le scene si alternano e la
tensione viene ben mantenuta nel corso dell’intero film.
Coeur
fidèle (1923,
87’)
Ambientato nei
bassifondi, quasi realistico, ben proposto e interpretato. Storia d’amore interrotta
dalla prepotenza di un piccolo criminale malvagio, violento e alcolizzato. Uno
dei migliori di questo gruppo.
La belle
Nivernaise (1924,
69’)
Vita su una peniche
lungo i canali del nord della Francia; il titolo è il nome della chiatta e ciò
non può non far pensare al famoso L’Atalante (1934) di Jean
Vigo. Pur essendo questo solo il suo terzo film, Epstein si autocita
mostrando un poster del suo primo lungometraggio L’auberge rouge (1923)
sulla parete del cinema dove vanno i due giovani protagonisti.
Le lion des mogols (1925, 102’)
Anche in questo
quasi kolossal (scene di massa e ricchi costumi per rappresentare una reggia
del tiranno di un paese esotico non meglio identificato) c’è un riferimento cinematografico
e ben più importante. Due ambientazioni ben distinte con l’altra sui set e
teatri francesi. Il protagonista è interpretato da Ivan Mosjoukine (qui
anche cosceneggiatore), famosissimo in patria fino al momento della rivoluzione;
condannato a morte, riuscì a sfuggire all’Armata Rossa e ebbe un discreto
successo anche in Europa, ma solo fino alla rivoluzione del sonoro.
Le double amour (1925,
103’)
Interessante melodramma
psicologico condizionato dal gioco d’azzardo compulsivo con corsi e ricorsi a
distanza di 20 anni.
Six et demi, onze (1927, 84’)
Sarebbe apparso
molto migliore se si fosse evitato il pesantissimo, eccessivo e ingiustificato trucco
dei fratelli (medici) protagonisti … solo per loro. Faccia bianca, contorno
degli occhi e palpebre scurissime, labbra molto marcate, praticamente clown
bianchi in questo ennesimo melodramma nel quale tutti gli altri appaiono “normali”.
La glace à trois faces (1927, 45’)
Mediometraggio
quasi a episodi (punti di vista, ricordi e speranze di tre donne rispetto ad
uno stesso (fatuo) ricco giovane. Ciò che dà valore al film, che per questo è apprezzato,
è la tecnica; sceneggiatura debole, riduzione (forse eccessiva vista la durata
del film) un romanzo di Paul Morand.
La chute de la maison Usher (1928, 63’)
Probabilmente il più famoso dei film di Epstein, basato
sul famoso omonimo racconto di Edgar Allan Poe, adattato da Luis Buñuel
che fu anche suo assistente regista come lo era già stato per Mauprat (1925).
In questo terror classico si può facilmente ipotizzare la mano di Buñuel
per alcuni dettagli non strettamente pertinenti alla trama. La seconda parte
del film è un vero esercizio di montaggio e riprese. Parafrasando il titolo di
un commento (che condivido): guardatelo sotto ogni aspetto tranne che per la
trama e lo troverete ottimo.
In conclusione, questa incursione fra i 13 muti di Epstein
evidenzia la sua continua ricerca tecnica ed espressiva, nei vari generi
affrontati seppur tutti hanno in comune una parte melodrammatica. Grande
importanza ai primissimi piani dei volti, ai dettagli e alla recitazione con le
mani. Come punti deboli, vedo l’indugiare troppo a lungo su singole scene (anche
quando è perfettamente chiaro il significato) e la scelta (ma solo nei primi
film) di far muovere estremamente lentamente i protagonisti, quasi come automi, assolutamente in modo irreale e poco plausibile, inutilmente teatrale.
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