mercoledì 17 febbraio 2016

Acculturarsi con il cinema: indios, canyon e maratone

Uno dei tanti piaceri e vantaggi di guardare un film, anche nel caso non sia un capolavoro, è quello di venire a conoscenza di luoghi, tradizioni, cibi, popolazioni, avvenimenti storici, problemi sociali e via discorrendo fino a quel momento completamente sconosciuti.
Dal mio punto di vista di infaticabile viaggiatore ed escursionista sono manna dal cielo i film girati per lo più in esterni in paesi lontani e casomai in regioni sperdute come di recente il deserto della Namibia di Mad Max o la Terra del fuoco e le praterie del nordamerica in The Revenant. Paesaggi che non sono cambiati più di tanto nel corso degli anni e quindi poco conta il fatto che il film sia ambientato un paio di secoli fa o nel futuro. Spesso sono un irresistibile richiamo!
   
All’estremo opposto ci sono pellicole di interesse storico o antropologico che trattano (più o meno bene e con maggiore o minore accuratezza) di avvenimenti del passato, etnie a rischio di estinzione (se non già scomparse del tutto) e per le storie contemporanee scene di vita quotidiana. A mo’ di esempio ne cito giusto qualcuna fra quelle che ho visto quest’anno e non sono filmaccifilmetti:
  • La storia del cammello che piange (fra i pastori nomadi del deserto del Gobi, Mongolia) Oscar nom.
  • Himalaya - L'infanzia di un capo (carovane di yak fra le vette del Nepal) Oscar nom.
  • La Trilogia di Apu (come altri film indiani dell’epoca, seppur non di questo livello, raccontano e mostrano molto di più dei moderni documentari)  Oscar ad Honorem nel 1992 al regista Satyajit Ray
  • Raices (episodi di vita di indios messicani) premio FIPRESCI e nom. per la Palma d’Oro a Cannes
  • Sanshu Dayu (ambientato nel Giappone medievale) Leone d’argento, nom. per il Leone d’Oro a Venezia (quando contava veramente)
Potrei continuare ancora rimanendo nell’ambito dei film di alta qualità (Redes, Largo viaje, ...) ma, come dicevo, talvolta anche un B-movie ci può aprire gli occhi su realtà, luoghi o popoli particolari. 
Il titolo del post si riferisce tuttavia a Tarahumara - Cada Vez Más Lejosun altro ottimo film, (premio FIPRESCI a Cannes, nom. per la Palma d’Oro e ai Golden Globe) guardando il quale ho appreso varie cose nuove in merito a questa etnia indigena messicana della quale già conoscevo l'esistenza.
Sapevo della loro esistenza, ma non avevo mai approfondito il tema prima di guardare questo film.
La storia riguarda un gruppo di Rarámuri (Tarahumara), letteralmente "piedi leggeri”, i più resistenti corridori del mondo, che tuttora vivono spesso in grotte nei canyon della Sierra Madre nel nord del Messico. Questi indios (indigenas) non sono veloci, ma corrono distanze inimmaginabili; per loro una maratona è una semplice passeggiata. Per fornire un’idea della loro resistenza sappiate che i cacciatori per catturare un cervo lo inseguono all’infinito, senza colpirlo, finché l’animale non si accascia al suolo spossato. 
Nel film il protagonista “bianco” (ma indigenista, schierato dalla parte dei Rarámuri) spara ad un cervo, mancandolo, e il suo interlocutore gli spiega questa loro tecnica, che ho poi verificato in rete.
   
Ormai sono anni che, oltre agli antropologi, anche la comunità scientifica si sta interessando a loro, alla loro dieta, al loro modo di correre a piedi scalzi o con semplici huaraches (sandali che assemblano da soli utilizzando copertoni di pneumatici come suola e lacci di cuoi per fissarli ai piedi). Che corrano o meno, in qualunque stagione, gli uomini indossano un tradizionale e distintivo poncho colorato e una specie di gonnellino bianco e le donne ampi vestiti altrettanto colorati.

Una ventina di anni fa un gruppo di Rarámuri fu invitato e convinto a partecipare ad alcune competizioni negli Stati Uniti, in particolare iniziarono con una gara di 100 miglia (circa 160km) in Colorado. In apparente scioltezza uno di loro (55enne, non un giovanotto) giunse primo e un altro secondo, staccando tutti i superatleti professionisti. L’anno successivo fecero partecipare dei giovani e uno di essi vinse la gara e abbassò il record precedente di quasi mezz’ora.
Ovviamente gli ultramaratoneti, a part,ire dai vicini statunitensi si sono interessati a loro ed hanno organizzato gare come quella famosa del Caballo Blanco proprio fra i loro profondissimi canyon, molto più del famoso Grand Canyon.
Trailer del documentario Maria Juliana 
Ci sono molti video disponibili online, da quelli di atleti professionisti o amatoriali a documentari con base strettamente scientifica o sportiva. In molti di essi è possibile notare che talvolta i partecipanti con i piedi o con un bastone lanciano in avanti una “palla”, in effetti una sfera di legno. 
Si tratta del gioco nazionale dei Tarahumara: il rarajipari. Si affrontano due squadre di 4 o più che hanno come obbiettivo di raggiungere la meta (spesso a 50-60km di distanza) calciano a turno la loro palla.
Sembra l’estremizzazione del gioco che quasi ognuno di noi talvolta ha fatto camminando e calciando una pietra, una castagna, un tappo o un qualunque altro oggetto trovato lungo il cammino.

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