Nostalgia for the Countryside (Dang Nhat Minh, Vie/Jap, 1995)
Yellow Flowers on the Green Grass (Victor Vu, Vietnam, 2015)
Il film di Dang Nhat Minh è probabilmente il più classico (dal punto di vista cinematografico) e forse il più “vietnamita”, pur essendo una coproduzione viet-giapponese. Narra dei pochi giorni trascorsi da una donna moderna e indipendente nel suo villaggio natale nel mezzo della campagna vietnamita. Interessante e ben strutturato è quasi un film corale che coinvolge varie famiglie e protagonisti di età molto varie, da ragazzini ad anziani. Ben trattati gli esterni, come anche la descrizione degli interni delle case. La pecca, secondo me, è la “tragedia” inserita verso la fine del film, pressoché inutile ai fini della descrizione di quell’ambiente sociale rurale. Un piccolo merito lo vedo invece nell’inserimento di poche scene di uno spettacolo di tradizionali marionette acquatiche, assolutamente uniche e affascinanti, e ai Water Puppets Show ho dedicato il mio precedente post.
Tratto da un romanzo, Yellow Flowers on the Green Grass potrebbe essere visto come un film per ragazzi, ma parallelamente ai temi di amicizia, fantasie e sogni infantili, un po’ del solito bullismo, sono rappresentati troppi disastri e disavventure causate dai ragazzini stessi. Ben realizzato, con una bella fotografia che sfrutta per quanto possibile l’ambiente naturale e rurale, viene penalizzato da sceneggiatura e dialoghi di livello appena sufficiente. Questo è l'unica produzione esclusivamente vietnamita della cinquina.
The Scent of Green Papaya (Tran Anh Hung, Fra/Vie, 1993)
Cyclo (Tran Anh Hung, Vie/Fra/HK, 1995)
The Vertical Ray of the Sun (Tran Anh Hung, Vie/Fra/Ger, 2000)
C’è da premettere che Tran Anh Hung, dopo essersi laureato in filosofia, si avvicinò al mondo del cinema studiando fotografia presso la Louis Lumiere Academy dove in effetti si insegna direzione della fotografia per il cinema. Questo suo precedente spiega la quasi ossessione del regista per la fotografia, con tanti dettagli, primissimi piani e macro, specialmente naturalistici, che talvolta distolgono l’attenzione dalla trama principale non essendo per essa significativi. Ciò appare particolarmente evidente in The Scent of Green Papaya (suo film d’esordio, per il quale ottenne Nomination Oscar e 2 premi a Cannes, oltra a tanti altri riconoscimenti) oltretutto messo in scena esclusivamente negli studios parigini e, ad un occhio minimamente esperto, gli ambienti appaiono né autentici né genuini fin dalle prime immagini. Tutto il film si svolge in una ricca e grande casa cittadina e nella stradina che la costeggia. Tuttavia, è un ottimo esercizio di fotografia. Un’altra pecca l’ho vista nell’affidamento alla moglie del ruolo della protagonista da grande (si narra di due periodi distanti 10 anni) a Nu Yên-Khê Tran, moglie del regista, presente anche in tutti i suoi film successivi. A parte non essere, almeno all’epoca, grande attrice, pare che sia stata molto limitata dal fatto di essere anche lei emigrata giovanissima tanto da avere scarsa conoscenza della lingua vietnamita. Molti spiegano così la trasformazione della giovane Mui (attenta e loquace, interpretata dalla brava Man San Lu, nata in Francia, ma evidentemente in una famiglia nella quale si parla correntemente vietnamita) in una donna assolutamente silenziosa. Addirittura veri vietnamiti sostengono che non si muova né cammini come una vera nativa di quei luoghi. Indispongono e non poco i due rampolli della famiglia, viziati, dispettosi e “sadici” nei confronti di piccoli animali sulle cui sevizie (vere o finte che siano) il regista indugia più di una volta. Secondo me e strettamente dal punto di vista cinematografico è sopravvalutato.
Due anni dopo l’esordio, il regista Tran Anh Hung cambia completamente registro dirigendo Cyclo (Premio FIPRESCI e Leone d’Oro a Venezia) e passando a descrivere un ambiente di delinquenti cittadini e va a girare in Vietnam dove, per sua ammissione, comincia a conoscere e comprendere la realtà del paese, molto cambiato dopo 20 anni da quando lo aveva lasciato alla fine della guerra, dopo la caduta di Saigon. In questa narrazione risulta ancor più evidente la sua scelta di non voler necessariamente dare continuità e fluidità al racconto proponendo scene spesso staccate tra loro per tempo, luogo e protagonisti. Fra i protagonisti si fa notare quel Tony Leung che 5 anni dopo si sarebbe fatto conoscere per In the Mood for Love (miglior attore a Cannes). Film in sostanza poco coinvolgente, disorganico e confuso, ma anche in questo caso con una buona fotografia.
Dopo altri 5 anni ecco The Vertical Ray of the Sun, il terzo film di Tran Anh Hung. Ancora una volta risulta predominante l’attenzione alla fotografia (anche se non come nei precedenti); ci sono troppi interni e il montaggio (con tante scene repentinamente interrotte) lascia un po’ perplessi. Altre volte si perde in lunghe riprese con camera fissa come quella di 6 minuti in cui due sorelle si confidano sottovoce, nella penombra, supine sul letto.
Nel complesso, lo trovo senz’altro apprezzabile per la fotografia curata, anche per luci e colori, ma troppo spesso inserisce immagini avulse dalla trama e dai personaggi, peraltro in genere abbastanza blandi. Questa mia sensazione è probabilmente accentuata dal fatto di aver precedentemente guardato 4 film dell’ottimo regista turco Nuri Bilge Ceylan nei quali la fotografia è altrettanto ottima, ma molto più naturale (con scene anche molto scure) e i dialoghi (seri o faceti) sono contestualizzati e piazzati al momento giusto.
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