A uno storico film finlandese pieno di renne, seguono piccole protagoniste di etnie singolari, steppe mongole, tanta natura con spettacolari paesaggi e animali selvatici, un’area storico / religiosa afghana; chiude quello che è molto probabilmente il film meno conosciuto di Totò, ma leggete fino in fondo per sapere in compagnia di chi!
Buddha collapsed out of shame (Hana Makhmalbaf, Iran/Fra/Afg, 2007)
Figlia dell’apprezzato regista iraniano Mohsen Makhmalbaf (Gabbeh, A Moment of Innocence, Kandahar, …) è la più giovane regista di sempre in concorso al Festival di Venezia (a 14 anni), ma in precedenza, a 8 anni, aveva partecipato anche al Festival di Locarno con il suo primo corto. La protagonista è una fantastica bambina di 5 anni, serafica e imperturbabile ma soprattutto pertinace che vuole andare a scuola a ogni costo, cosa evidentemente difficile essendo della minoranza etnica hazara, da sempre osteggiata, se non perseguitata. La location è la valle di Bamiyan (Afghanistan) dove per ben 14 secoli (qualcuno dice 18) si sono potute ammirare due gigantesche statue di Buddha (alte rispettivamente 55 e 38 m, ricavate dalla viva roccia e quindi protette in una specie di nicchia) finché nel 2001 il Mullah Omar, sull’onda dell’iconoclastia talebana ne ordinò la distruzione. A causa della loro struttura (un solo pezzo di roccia) la cosa non fu per niente facile e ci vollero cannonate e cariche di dinamite per farle crollare.
Il film è stato girato proprio di fronte alle enormi nicchie ormai vuote e nelle grotte scavate nei dintorni per accogliere monaci e pellegrini. Per dare un’idea della situazione (anche se non c’è alcuna reale violenza, neanche sottintesa, ma solo bullismo, anche da parte di alcune bambine) vi anticipo che i ragazzini giocano a fare i talebani che combattono contro gli americani e prendono in ostaggio le bambine che a volte vengono lapidate (sempre nel gioco, non vola neanche una pietra). Premiato a Berlino e a Roma.
The White Reindeer (Erik
Blomberg, Fin, 1952)
Ambientato fra allevatori di renne, si tratta di un horror basato su una antica leggenda. Affascinanti distese innevate attraversate da innumerevoli renne e pochissimi umani, a volte sugli sci spingendosi con un solo bastone (stile telemark), a volte seduti in caratteristiche pulka, una specie di slittini a forma di barchetta con la prua rialzata e schienale diritto a poppa, trainate proprio da una renna.
Visto che c’è una trama, si colloca fra fiction e documentario, ma i soli attori (non contando un paio di comparse e una solitaria anziana che ha un piccolo ruolo) sono i reali componenti della famiglia Batchuluun, pastori nomadi mongoli. Giovane coppia composta dai genitori, due figlie di 6 e 4 anni, un figlioletto di 2.
Altro film di grande interesse etnografico, con esterni spettacolari nelle grandi pianure semidesertiche della Mongolia. La narrazione alterna momenti di vita familiare, dentro e fuori la classica yurta (che alla fine si vede anche come viene smontata per spostarsi in un'altra località), e scene di vita con gli animali. Il titolo si riferisce ad una leggenda raccontata dall’anziana che aveva accolto la ragazzina che, per cercare il cane che aveva adottato contro il parere del padre, era stata colta da un temporale. Veramente interessante, e in un certo senso divertente, il film porta lo spettatore nel fantastico ambiente rurale centro-asiatico. Ai vari Premi ottenuti dal film, si aggiunge quello a Cannes andato al cane Zochor.
Le dernier loup (Jean-Jacques Annaud, Chi/Fra, 2015)
Molto ben
filmato come era lecito aspettarsi da Annaud, soffre di una sceneggiatura,
nonostante sia tratta da un bestseller cinese, non evidenzia una direzione
precisa, lasciando nel vago sia i rapporti uomo / animale e predatori / prede, sia
le ragioni politiche e le ragioni economiche che si confrontano con la
tradizione. Veramente ottime le singole riprese, ma chiaramente montate senza
continuità; i lupi mongoli che si vedono nel film erano stati specificamente
addestrati dallo staff di Annaud. Anche il commento sonoro è di ottimo
livello, ma il film, nel complesso, resta tuttavia sufficiente e comunque
nettamente inferiore ai precedenti tre sopra recensiti.
L'uomo, la bestia e la virtù (Steno, Ita, 1953)
Dulcis in fundo, ecco una vera rarità che però
niente ha a che vedere von terre lontane, natura selvaggia e etnie poco conosciute,
ma ha la particolarità di mettere insieme grandi nomi che nessuno si
aspetterebbe di vedere accomunati. I protagonisti del film sono il più famoso
commediante italiano del dopoguerra (Totò), un grande attore e regista
di indiscussa fama mondiale (Orson Welles) e la star francese dell’epoca
Viviane Romance (protagonista dell’eccellente Panique, 1946,
di Julien Duvivier), diretti da un regista di valore come Steno, specializzato
nel genere comico – popolare, che interpretano un adattamento di una commedia
di Pirandello! Meraviglia quindi che pochissimi conoscano questo film ma
c’è una ragione ben precisa: appena dopo l’uscita nel 1953, fu ritirato dalla
circolazione poiché gli eredi di Pirandello ritennero che la sceneggiatura
avesse stravolto il senso originale della commedia, rendendola troppo farsesca.
Fu rimesso in circolazione dopo ben 40 anni (1993), ma da allora conta
pochissimi passaggi in televisione, oltretutto nella versione b/n (l’originale
era a colori), e praticamente non è mai arrivato nelle sale. Interessante anche
l’ambientazione a Cetara, quando era ancora un piccolo approdo di pescatori
della Costiera Amalfitana, non ancora assurto a fama mondiale con la sua
colatura di alici DOP, peraltro prodotto storico con origini risalenti all’epoca
romana. I protagonisti sono un professore (Totò, l'uomo), un comandante
di nave sempre lontano da casa (Welles, la bestia) e la moglie di quest’ultimo
(Romance, la virtù) ma anche amante (incinta) del primo.
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