martedì 29 settembre 2020

Micro-recensioni 321-325: mix … Georgia, Cina, USA e 2 giapponesi

Gruppo abbastanza vario, che include un gran film di uno stimato critico cinematografico, occasionalmente dietro la macchina da presa: Peter Bogdanovich. Gli altri sono due film dai titoli assonanti (uno sconosciuto georgiano ed uno del cinese Yimou Zhang di genere molto diverso da quelli per i quali è famoso) e altri 2 di Masumura, autore di spicco della Nouvelle Vague giapponese.

 

The Last Picture Show (Peter Bogdanovich, USA, 1971)

Conosciuto in Italia come L’ultimo spettacolo (una volta tanto titolo tradotto decentemente) merita senza dubbio le buone recensioni di cui gode (IMDb 8,0 e RT 100%). A tutti gli effetti si tratta di un film corale, ricco di personaggi ben delineati ed avvenimenti significativi in un modo o nell’altro legati fra loro. Oltre all’ottima fotografia in b/n, grandi meriti vanno riconosciuti al regista, co-sceneggiatore insieme con l’autore del libro del quale il film è adattamento, e al formidabile cast che comprende attori navigati come Ben Johnson ed Ellen Burstin ed esordienti che poi hanno avuto successo come Cybil Sheperd e Jeff Bridges. A dimostrazione di ciò, basti notare che delle 8 Nomination, ben 4 erano nella categoria non protagonisti e 2 di queste si conclusero con l’Oscar (Ben Johnson e Cloris Leachman).

Certamente è un film da guardare, e con attenzione, interessante anche per lo spaccato che propone della società americana bigotta e amorale allo stesso tempo.

Keep Smiling - Gaigimet (Rusudan Chkonia, Geo, 2012)

Fra le repubbliche ex sovietiche, la Georgia è la più attiva in campo cinematografico e i pochi film che arrivano in occidente hanno spesso ii loro meriti. Questo è interamente incentrato su un concorso fra “madri”, quindi non teenager, ognuna con i suoi problemi economici, o di prole, o rapporti coniugali per non citare quelle provate dalla guerra. La prima metà è più o meno banale, ma la seconda è un rapido susseguirsi di avvenimenti al limite fra dramma e dark comedy. Quindi un film a due velocità che migliora verso fine offrendo non solo una visione delle miserie che ruotano attorno a tali concorsi (da un lato e dall’altro) ma dà anche un’idea, seppur superficiale, della società armena dopo aver ottenuto l’indipendenza.

  

Kisses - Kuchizuke (Yasuzô Masumura, Jap, 1957)

Film d’esordio di Masumura, fra i giapponesi della Nouvelle Vague forse il più vicino allo stile degli omologhi francesi. Come quasi tutti i suoi film, che abbracciano i generi più disparati, si lascia guardare per il suo montaggio rapido e per la fluidità delle sequenze … ottimo stile narrativo. Nella fattispecie si tratta dell’innamoramento di due figli di carcerati che si incontrano proprio facendo visita ai rispettivi padri. Chiaramente non è un vero e proprio colpo di fulmine e la strada fino ai primi baci (del titolo) sarà lunga e non sempre priva di intoppi.  

A Wife Confesses (Yasuzô Masumura, Jap, 1961)

Altro Masumura, stavolta un dramma – crime – courtroom movie, ma anche questo pregevole per messa in scena, montaggio, organizzazione dei numerosi flashback e interpretazione. Come già ebbi modo di dire l’anno scorso quando scoprii questo singolare regista estremamente prolifico (47 film in 14 anni), pur non raggiungendo vette eccelse non delude mai. Di conseguenza, consiglio anche questa visione.

Keep Cool (Yimou Zhang, Cina, 1997)

Molti conoscono gli spettacolari film d’azione di Zhang come Hero e La foresta dei pugnali volanti, altri avranno apprezzato quelli drammatici come Ju Dou e Lanterne rosse, ma pochi sanno che di tanto in tanto il regista cinese si cimenta anche in commedie (di solito dark) onestamente di livello molto inferiore. Keep Cool è una di esse e fa buona compagnia alle successive Locanda della felicità (2001) e Sangue facile (2009, niente a che vedere con l’ottimo omonimo dei fratelli Coen del 1984). Girato quasi completamente con camera a spalla, narra dei complicati e quasi surreali rapporti fra un giovane innamorato squattrinato e balbuziente, un rivale ricco, arrogante e violento e un terzo personaggio che niente ha a che vedere con gli altri ma si trova invischiato nei folli piani di rivincita dei due. Solo a tratti divertente, con pochi colpi di scena e con le rare gag tirate troppo per le lunghe, anche se ben pensate. Si può guardare ma suggerisco di attenersi allo Zhang classico …

venerdì 25 settembre 2020

Micro-recensioni 316-320: solo Gabo (Gabriel García Márquez)

Quattro film hanno sceneggiatura originale di Gabo (Nobel per la letteratura nel 1982), l’altro è adattamento del suo ultimo romanzo. I testi di Márquez (romanzi, racconti, sceneggiature) sono stati molto utilizzati in ambiente cinematografico, soprattutto centroamericano, ma con alterne fortune. Eccezione furono Cronaca di una morte annunciata (1987, di Francesco Rosi) e una produzione ciascuno per Giappone, Cina e Russia, assolutamente niente di memorabile.

Oltre ai più noti, vale la pena ricordarne due quasi del tutto sconosciuti in Italia, eppure molto apprezzati oltreoceano, per vari motivi: En este pueblo no hay ladrones. (1965, di Alberto Isaac) e Tiempo de morir (1966, film d’esordio di Ripstein, IMDb 7,4 - RT 100%, esiste anche un remake diretto da Jorge Alí Triana, 1985). In quanto al primo, c’è da dire che vi parteciparono tanti personaggi dell’ambiente colto messicano dell’epoca. Racconto di Márquez adattato dal regista Alberto Isaac e del critico cinematografico Emilio García Riera con cast d’eccezione visto che la maggior parte degli interpreti non erano attori professionisti, ma registi quali Luis Buñuel, Arturo Ripstein e Alfonso Arau, lo stesso Márquez, José Luis Cuevas e Juan Rulfo (scrittori e sceneggiatori), Ernesto García Cabral e Abel Quezada (famosi caricaturisti), Carlos Monsivais e Emilio García Riera (giornalisti e critici).

 

Milagro en Roma (Lisandro Duque Naranjo, Col, 1989)

Los niños invisibles (Lisandro Duque Naranjo, Col/Ven, 2001)

Questi due film del regista colombiano sono un classico esempio di argomenti e stile (realismo magico) preferiti di Márquez. Nel primo c’è anche tanta vis polemica nei confronti del clero e della burocrazia, piena di ironia, al limite del surreale. Inizia in una cittadina rurale della Colombia e si conclude a Roma, Vaticano. Inspiegabilmente, il corpo di una bambina morta e sepolta da 12 anni viene trovato assolutamente integro. Si grida al miracolo e c'è chi la vuole santa. Da questo punto in poi il padre avrà a che fate con parroci, vescovi, diplomatici, ambasciatori, millantatori, polizia ...

Nel secondo si apprezza l’abilità nel collegare sogni, credenze e superstizioni alla vita reale nella quale una serie di opportune coincidenze continua a far credere ai tre ragazzini che aspirano a diventare invisibili che la cosa sia possibile.

In effetti nessuno dei due è un granché dal punto di vista cinematografico ma resta il fascino delle idee, storie e personaggi creati da Gabo.

   

Edipo alcalde (Jorge Alí Triana, Col/Spa/Mex, 1994)

Altro regista colombiano, lo stesso del succitato remake di Tiempo de morir, che mette in scena l’ennesimo adattamento dell’Epipo Re di Sofocle, storia in questo caso trasferita a fine secolo scorso fra le montagne colombiane con i relativi guerriglieri. Originale e parzialmente riuscito il salto di due millenni, tuttavia poco convincenti le performance nonostante la presenza di attori del calibro di Ángela Molina (Giocasta), Francisco Rabal (Tiresia).

Memoria de mis putas tristes (Henning Carlsen, Mex/Spa/Den, 2011)

Messa in scena dell’ultimo romanzo di Gabo, pubblicato nel 2004. Ottima la fotografia e le ricostruzioni d’ambiente (interni, arredamenti e abiti), così come la scelta delle location. Tuttavia, sembra che il regista danese non sia riuscito a gestire in modo adeguato i continui salti temporali, i battibecchi con persone non presenti, sogni e allucinazioni, ma si intuisce che il testo originale deve essere ben altra cosa. Anche in questo film appare Ángela Molina stavolta affiancata dalla figlia Olivia (quasi identica a pari età) ed infatti interpretano lo stesso personaggio a qualche decennio di distanza.  

Cartas del parque (Tomás Gutiérrez Alea, Cub/Spa, 1988)

Tomás Gutiérrez Alea è uno dei più stimati registi cubani che però divenne noto nel mondo solo dopo aver diretto Fragola e cioccolato (1993). Si tratta di una storia trita e ritrita, affrontata nel tempo da vari punti di vista, in epoche e ambienti diversi, con piccole varianti ma identica morale: chi si affida a terzi per questioni di cuore rimane spesso buggerato.

Nella città di Matanzas (Cuba) agli inizi del secolo scorso il giovane sognatore Juan si affida allo scrivano/poeta Pedro per corteggiare Maria. Buona la messa in scena che mostra la Cuba dell’epoca, con classe dirigente e borghesia ricca e prospera, ma la storia ovviamente abbastanza banale e scontata.

#cinegiovis #cinema #film

lunedì 21 settembre 2020

Micro-recensioni 311-315: messicani particolari, Henry Fonda commediante e un ottimo film d’animazione

Soddisfacente cinquina molto varia, con la sempre piacevole ri-visione di Belleville e l'assoluta sorpresa di un film messicano con una travagliata storia alle spalle. Completano il gruppo uno dei tanti discussi film di Ripsteinun moderno film di un esordiente messicano e una (almeno a me) sconosciuta commedia americana che vede protagonisti due attori di solito drammatici.

 

Les triplettes de Belleville (Sylvain Chomet, Fra, 2003)

Ingegnoso film di animazione, praticamente senza dialoghi (solo un paio di battute, simili, in apertura e chiusura) ma con buona colonna sonora e significativi rumori d’ambiente. La storia si sviluppa fra gli ambienti del ciclismo (fino al Tour de France) e quello dei gangster americani con mille riferimenti al cinema e alla musica. Infatti, la maggior parte dei personaggi sono caricature di star e chi osserva con attenzione i fondali scoprirà titoli, locandine, foto certamente non inserite a caso e tanti altri particolari significativi che per lo più danno un tocco di dark humor, più facilmente apprezzabile dagli adulti. Qualcuno lo ha definito un film anti-Disney, certamente basato su tratti di tutt’altro stile e non pensato per il classico pubblico dei cartoni disneyani.

Da non perdere, specialmente per chi voglia gustare un’animazione arguta e diversa dalle solite banalità. 2 Nomination Oscar (animazione e canzone)

La mancha de sangre (Adolfo Best Maugard, Mex, 1937)

Interessantissima visione, ma solo per puri cinefili, meglio se anche conoscitori della Epoca de Oro del cinema messicano. Si tratta dell’unico lungometraggio di Adolfo Best Maugard, rinomato e poliedrico artista del circolo di Diego Rivera, Frida Kahlo, Orozco, Tamayo, Siqueiros, insomma tutti i migliori della prima metà del secolo scorso, acclamati internazionalmente. Di famiglia colta e danarosa da adolescente già studiava arte a Parigi dove strinse amicizia con Matisse, Cezanne e Gauguin. In quanto al cinema, frequentò Hollywood negli anni ’20 e lì lanciò Dolores del Rio; tornato in Messico fu designato quale supervisore di ¡Que viva México! (1931) di Eisenstein, il regista russo che tanto avrebbe influenzato i cineasti messicani. La sceneggiatura originale è di Miguel Ruiz Moncada (lo stesso di El prisionero 13, 1933, primo segmento della Trilogia della rivoluzione di Fernando de Fuentes) e nel ruolo di Camelia appare per la prima volta come protagonista Estela Inda, divenuta poi famosa per Los olvidados (1945) di Luis Buñuel.

La versione originale includeva molti nudi integrali (artistici) e per tal motivo, nonostante i numerosi tagli preventivi, fu proiettato solo per pochi giorni per poi riapparire in sala solo nel 1943, ma per poche settimane. Dato per perduto (divenne uno dei titoli più ricercati) riapparve solo 50 anni dopo ma con la sesta “pizza” senza sonoro e la nona e ultima senza immagini.

Come appare chiaro anche ai non cinefili, c’erano tutti gli elementi per giustificare il restauro del film e, dopo tanta attesa, proporlo al pubblico seppur mutilato, con una parte sottotitolata (dialoghi interpretati tramite lettura labiale) e con il finale solo sonoro (lo schermo appare grigio) nel quale si ascoltano poche frasi e numerosi spari. Nelle riprese si nota la visione artistica della composizione dell'immagine.

Infine, c’è da dire che La mancha de sangre viene spesso considerato come precursore e prototipo del genere cabaretera che tanto successo avrebbe avuto a partire dal decennio successivo e che comprende alcuni fra i più apprezzati film messicani quali i famosi Salón México (1949) e Víctimas del pecado (1951) di Emilio El Indio Fernández e Aventurera (1950) di Alberto Gout.

  

Principio y fin (Arturo Ripstein, Mex, 1993)

Come spesso accade nei film diretti da Ripstein, anche in questo regna lo squallore, il degrado. Una famiglia della media borghesia si trova ad affrontare seri problemi finanziari a seguito della prematura e improvvisa morte del capofamiglia. Fra madre quasi oppressiva, tre figli e una figlia, al di là dell’apparente sintonia e affetto, vengono fuori disonestà, bugie, gelosie fin quasi all’odio e la serie di eventi sembra quasi una gara a chi si comporti in modo più avventato se non stupido, spesso senza rispettare alcuna regola sociale o morale.

La storia è un adattamento del romanzo omonimo (1950) di Naguib Mahfouz, scrittore egiziano premio Nobel per la letteratura nel 1988. Simile trasposizione di un altro suo romanzo dal Cairo al Messico fu eseguita nel 1995 con El callejón de los milagros (diretto da Jorge Fons, Menzione Speciale e Nomination Orso d’Argento a Berlino) ma fate attenzione ai vari titoli riferiti a questa opera del 1947 e successivi adattamenti. Internazionalmente è conosciuto come Midaq Alley (trad. letterale), in spagnolo diventa El callejón de los milagros (Il vicolo dei miracoli), in italiano il romanzo si chiama Vicolo del mortaio, ma il film è Nel cuore della città. Avendo guardato entrambi i film, sono incuriosito dai romanzi originali per comprendere come siano stati adattati personaggi, culture e ambienti tanto diversi.

Classico Ripstein, non per tutti. IMDb 8,0, RT 89%p

Temporada de patos (Fernando Eimbcke, Mex, 2004)

In effetti somiglia più a una sit comedy che a un film; meravigliano i ranking, in particolare il 91% (su ben 76 recensioni) di RT. Ci sono alcune trovate apprezzabili ed è ben realizzato con un buon b/n, ma la sceneggiatura ha troppe pause, scene inutilmente stiracchiate e pochissima azione.

Primo lungometraggio di Eimbcke, che in precedenza aveva realizzato 8 corti e che con il film successivo (Lake Tahoe, 2008) si fece notare a Berlino vincendo due Premi e con la Nomination all’Orso d’Oro.

A una primissima impressione, direi che ha bisogno di migliorare le sceneggiature, alle quali collabora.

The Lady Eve (Preston Sturges, USA, 1941)

Credo sia la prima volta che vedo Henry Fonda in una commedia, abituato (come penso tutti) a conoscerlo come attore drammatico o di film d’azione; quasi lo stesso dicasi per Barbara Stanwyck. Seppur titubante, mi sono avventurato in questa visione incuriosito dalla Nomination Oscar per la sceneggiatura e dagli eccellenti rating (IMDb 7,8, RT 100% e Metascore 96). Purtroppo, i miei sospetti erano fondati … a tratti tendeva alla commedia romantica, altre volte allo slapstick, dialoghi e personaggi insulsi, frequenti rovinose cadute del protagonista degne delle peggiori commedie italiane. Veramente non capisco gli elogi … da evitare.

  

#cinegiovis #cinema #film

giovedì 17 settembre 2020

Micro-recensioni 306-310: fra Messico e Francia, un cult western

Gruppo abbastanza vario (due francesi, due messicani dell'ultimo decennio e un indie americano), composto da film interessanti ancorché generalmente poco noti. I due cult degli anni '60 sono diretti da registi conosciuti quasi esclusivamente da cinefili e da questi molto apprezzati. Il film di Chabrol è praticamente un omaggio al suo regista di riferimento (Clouzot) e dei due messicani moderni uno si è rivelato veramente interessante.

  

Le doulos (Jean-Pierre Melville, Fra, 1963)

Uno dei più famosi noir diretti da Melville, regista francese profondamente e dichiaratamente influenzato dallo stile hollywoodiano, a sua volta punto di riferimento per la Nouvelle Vague e successivamente per tanti registi dell’estremo oriente. Ha diretto solo 13 film (quasi tutti anche sceneggiati da lui) che hanno rating medi molto vicini al 100% su RT … eppure è quasi sconosciuto in Italia. Storia molto articolata piena di sorprese e omicidi che vede quali interpreti principali Jean-Paul Belmondo e Serge Reggiani

Ne consiglio la visione così come raccomando il recupero degli altri suoi film.

The Shooting (Monte Hellman, USA, 1967)

Altro regista poco conosciuto eppure punto di riferimento per gli autori indie americani. Oltre questo western, conta vari altri famosi film cult quali Two-Lane Blacktop (1971) e Cockfighter (1974), tutti interpretati dal suo attore di riferimento dell’epoca, il sottovalutato e ineffabile Warren Oates. Questo è un western assolutamente sui generis, basato su un lungo, lento ma inesorabile inseguimento condotto da una donna (stavolta protagonista e non “bella del villaggio”). È interessante sapere che, appena terminate le riprese, iniziò a girare un altro western anomalo ma apprezzato dai cinefili (Ride in the Whirlwind, a detta di TarantinoUno dei più autentici e brillanti western mai realizzati”) con i due coprotagonisti di questo The Shooting, vale a dire Millie Perkins e Jack Nicholson, quest’ultimo anche unico sceneggiatore.

Come Melville, anche Hellman e i suoi cult sono sconosciuti ai più.

  

Sueño en otro idioma (Ernesto Contreras, Mex, 2017)

Soggetto singolare per un film ben concepito e ben realizzato. Un giovane ricercatore universitario linguista cerca di coinvolgere gli ultimi due uomini che parlano zikril, misterioso idioma precolombiano (mai esistito, creato per il film), a collaborare alle sue indagini. Grandi amici in gioventù, i due non si parlano da 40 anni e rimetterli in contatto non sarà impresa semplice e non mancheranno le sorprese. Con vari flashback ben distribuiti vengono svelati i motivi della rottura. Un finale soprannaturale conclude una storia ben narrata, ma forse con qualche twist di troppo. Molto buona la fotografia dell’ambiente naturale.

Merita una visione.

L'enfer (Claude Chabrol, Fra, 1994)

Altro film con storia singolare, in questo caso una lunghissima gestazione. Infatti la prima stesura della sceneggiatura fu opera dell’ottimo Henri-Georges Clouzot il quale, nel 1964, iniziò anche le riprese con Romy Schneider and Serge Reggiani nei panni dei protagonisti. A causa delle cattive condizioni di salute sia di Clouzot che di Reggiani, il film non fu mai completato ma Chabrol ne volle acquisire i diritti e si fece carico dell’adattamento agli anni ’90 sia per le scene che i dialoghi.

Si tratta di un dramma della gelosia che sfocia nella paranoia e si conclude con la singolare frase “SANS FIN” (senza finale), che appare sullo schermo nero.

Los insólitos peces gato (Claudia Sainte-Luce, Mex, 2013)

Commedia drammatica buonista, abbastanza ben messa in scena, ma con un gruppo di personaggi (5 su 6 della stessa famiglia) troppo slegati fra loro, ognuno descritto un po’ troppo sopra le righe. Pur non mancando qualche buona interpretazione, nel complesso risulta poco credibile e resta nella fascia dei “senza infamia e senza lode”.  

lunedì 14 settembre 2020

Micro-recensioni 301-305: "Sátántangó" di Bela Tarr vale per 3

Gruppo caratterizzato dall’ingombrante (in tutti i sensi) presenza di Sátántangó, un arthouse movie apprezzatissimo dai cinefili di tutto il mondo, che ho guardato in tre parti così come è stato suddiviso per la distribuzione home video, visto che dura la bellezza di 7h19’!
Ho completato la cinquina con due film molto diversi, anche fra loro, ma notevoli nei rispettivi generi: un noir classico americano ed una ancor più classica commedia messicana con l’ineffabile Cantinflas.

Sátántangó (Bela Tarr, Hun, 1994)
IMDb 8,4 RT 100% * Premio Caligari a Berlino
Film senz’altro unico, non solo per la durata, ma anche per la struttura e, soprattutto, per lo stile assolutamente originale di Bela Tarr. Di questo regista ungherese avevo letto più volte e ricordo di aver sempre visto i cofanetti dei suoi film esposti in bella evidenza negli shop delle varie cineteche che ho frequentato (Paris, Ciudad de Mexico, Lisboa, …). Non per niente la sua reputazione su RottenTomatoes è eccellente, con 8 film quotati ha una media del 91%, 3 di essi al 100%, uno dei quali è Sátántangó, unanimemente considerato la sua opera più significativa, il suo capolavoro. Girato in bianco e nero e con presa diretta, è diviso in 12 capitoli lungi dall’essere uniformi visto che variando da meno di un quarto d’ora a quasi un’ora:
The News Is They Are Coming (41:23)
We Are Resurrected (31:05)
Knowing Something (59:07)
The Job of the Spider I (25:18)
Unraveling (52:02)
The Job of the Spider II (42:08)
Irimiás Gives A Speech (13:24)
The Perspective from the Front (51:33)
Going to Heaven? Having Nightmares? (29:11)
The Perspective from The Rear (30:28)
Just Trouble and Work (16:49)
The Circle Closes (28:23)
Caratteristiche sono le riprese con camera fissa (talvolta anche con attori assolutamente immobili) che si alternano a carrellate lente e infinite, in tutte le direzioni. I campi lunghi e lunghissimi si alternano a primi piani che durano spesso più del normale. In un’intervista Bela Tarr ha dichiarato che il film contiene circa 150 clip, il che equivale ad una durata media di 3 minuti a ripresa, ma ce ne sono tante fra gli 8 e i 12 minuti che però non possono essere considerati veri e propri piani sequenza visti i limitatissimi movimenti di macchina. Con questa struttura, è logico che molte azioni siano presentate in tempo reale, senza alcun montaggio.
Notevole anche il commento sonoro della fisarmonica (composizioni di Mihály Víg, che nel film interpreta un personaggio fondamentale, l’enigmatico Irimiás) che si affianca o sovrappone ai rumori d’ambiente in presa diretta, come per esempio quello della pioggia battente e pressoché incessante o il ticchettio dell’orologio nelle lunghe scene nella taverna. Negli esterni dominano distese e strade fangose, deserte, con pochi protagonisti o attraversate da animali quali maiali grufolanti, polli, cani e bovini.
Della trama dico solo che si tratta di come una dozzina di persone, già membri di una disciolta “fattoria collettiva”, tentano di gestire la loro consistente “liquidazione”, fra sospetti e tentativi di frode.
Non so quanti vorranno affrontare questa ardua eppure gratificante visione (assolutamente consigliata) ma, ammesso che abbiano tanto tempo disponibile, cerchino di guardare Sátántangó alla miglior definizione possibile e su uno schermo grande, oltre che tutto d’un fiato. Quanto detto è vero per quasi qualunque film, ma in questo caso, la qualità dell’immagine è fondamentale … lasciate perdere effetti speciali, 3D, digitale, CGI e altre diavolerie moderne … questo è cinema puro, con pellicola 35mm!
 
The Killers (Robert Siodmak, USA, 1946)
Recentemente ho guardato il cosiddetto remake diretto da Don Siegel nel 1964, che in effetti ha sviluppo ben diverso pur essendo basato sullo stesso racconto di Hemingway. Ricordo a chi legge che con lo stesso titolo anche Tarkowski nel 1956 ha diretto e interpretato insieme con alcuni suoi compagni di studi un corto che è quasi identico all’inizio di questo di Siodmak (evidentemente seguendo più fedelmente il testo).
Pur godendo di ottima critica ed essendo oggettivamente ben realizzato (4 Nomination Oscar per regia, sceneggiatura, montaggio e commento musicale) devo dire che l’adattamento proposto da Don Siegel risulta molto più avvincente. 

Ahí está el detalle (Juan Bustillo Oro, Mex, 1940)
Si tratta di una delle più amate e apprezzate commedie interpretate da Cantinflas, definito da Charlie Chaplinil più grande comico al mondo”. Lasciò gli studi per seguire un circo itinerante dove imparò a cantare e a ballare, ad esibirsi come acrobata e clown. Qualcuno lo ricorderà nei panni di Passepartout nella famosa versione del Giro del mondo in 80 giorni del 1956, al fianco David Niven.
I suoi personaggi caratteristici sono poveri, apparentemente incapaci, di buon cuore e in un modo o nell’altro riescono a trarsi d’impaccio in modi singolari. Altro segno distintivo è il suo linguaggio sconclusionato, con frasi mai concluse e interpretazioni improbabili di qualunque frase pronunciata da altri, illogico per la situazione ma logico per le parole in sé.
Questo film, basato su uno scambio di persona, un omicidio e un ricatto, è veramente godibile solo se si può comprendere il messicano, non essendo possibile tradurre i giochi di parole. Praticamente una situazione simile ai film dei fratelli Marx, nei quali le parole (volutamente equivocate e/o mal interpretate) sono la sostanza.
Il modo di parlare di Cantinflas generò addirittura il neologismo cantinflear, comunissimo oltreoceano ma poi accettato anche in Spagna perfino dalla Real Academia Española (equivalente della nostrana Crusca) con il significato di “parlare in modo illogico e incongruente, senza dire nulla di concreto”.

domenica 13 settembre 2020

Trascorsi dei vincitori del Leone d’Oro e del Gran Premio della Giuria a Venezia 77

Non per presunzione, ma solo per sottolineare le casualità, penso di essere fra i pochissimi europei che hanno avuto l’occasione di guardare i due soli altri film della vincitrice del Leone d’Oro (la regista, sceneggiatrice e produttrice cinese Chloé Zhao, foto a sinistra) ed aver assistito (per puro caso, nella piazza di Coyoacán) ad alcune riprese di Nuevo orden, il film del regista, sceneggiatore e produttore messicano Michel Franco che ha ottenuto il Gran Premio della Giuria, oltre ad aver visto anche 2 dei suoi precedenti 5 film (non troppo convincenti).
Ora sono ansioso di poter guardare Nomadland, che si presenta molto bene sia per argomento che per la presenza della sempre ottima Frances McDormand, (2 Oscar come protagonista e 3 Nomination, oltre ad una marea di tanti altri riconoscimenti).Ripropongo quindi le due brevi recensioni dei film di Chloé Zhao (stile, soggetti e sceneggiature molto interessanti) e quelle relative ai film di Franco nei quali mi sono imbattuto in Messico.

Songs my brother taught me (Chloé Zhao, USA, 2015) 
con Wambli BearRunner, Irene Bedard, Dakota Brown
IMDb IMDb 6,9 RT 91% Nomination a Cannes e al Sundance

Molti avranno ormai capito che i film a sfondo etnico mi interessano particolarmente e nelle mie valutazioni sono molto più ben disposto a "tollerare" carenze, imprecisioni e riprese non eccelse tenendo conto delle oggettive difficoltà di produzione. Molti di essi sono tuttavia ancor più apprezzabili per la semplicità delle inquadrature, per il sonoro in presa diretta o comunque non troppo rielaborato, per il linguaggio filmico essenziale. 
Con tale spirito mi sono avvicinato a questo film ambientato in una comunità di nativi americani (facente parte del gruppo dei Sioux), e non sono rimasto deluso. La tribù degli Oglala Lakota una volta abitava le immense praterie fra Dakota, Montana e Saskatchewan (Canada), ma oggi si può trovare traccia della loro cultura solo in alcune delle riserve dove vivono più o meno emarginati.
Il film, molto semplice nella sua struttura, mostra con crudo realismo una comunità quasi allo sbando, con pochissime attività commerciali, oltre il 70% di disoccupati, qualità di vita sotto il livello di povertà e molti (troppi) spendono i loro pochi soldi in alcool e fumo. Tanti sopravvivono solo grazie agli aiuti (incluse distribuzione di cibo) del governo e di varie associazioni, e ho anche letto che nelle Americhe solo Haiti ha un reddito pro-capite più basso. Molti dei gruppi familiari sono allo sbando in quanto esiste di fatto la poligamia e considerato che parte degli adulti hanno problemi con la legge ci sono tante madri single. Il padre di Johnny (protagonista con la sorella Jashuan) nel film come nella vita reale ha 7 cosiddette “mogli” e 25 figli ... e nel film muore all’inizio lasciando i due soli con la madre, mentre un terzo fratello è in carcere. La regista Chloé Zhao (cinese immigrata in USA) esordisce con questo film raccontando dall’interno, con tanta camera a spalla, senza nessun set ricostruito, ma riesce a mantenersi ben lontana dal documentarismo limitandosi ad un semplice, buon cinéma vérité.
Songs my brother taught me è completamente girato nella Pine Ridge Reservation (South Dakota), nelle vere case dove abitano attualmente i Lakota e negli ampi spazi circostanti (le famose Badlands), con interpreti esclusivamente locali, tutti alla prima esperienza di fronte alla cinepresa.
Oltre alle belle riprese delle praterie e degli aridi calanchi delle Badlands, mostra anche qualche svago della popolazione, soprattutto rodei nei quali i partecipanti sono più numerosi degli spettatori ed è significativo il fatto che diventare un bull rider sia una delle aspirazioni più comuni dei ragazzi.

The Rider (Chloé Zhao, USA, 2018) 
con Brady Jandreau, Mooney, Tim Jandreau
IMDb 7,4 RT 97% * C.I.C.A.E. Award (film d’Art et d’Essai) a Cannes e altri 23 premi internazionali

Film a metà strada fra fiction e documentario (vari protagonisti interpretano sé stessi) ambientato nel ristretto e particolare mondo dei rodei non professionali e addomesticatori/addestratori di   cavalli selvaggi. Brady Jandreau interpreta Brady Blackburn, una promettente star dei rodei che a causa di un incidente di gara ha subito una grave ferita alla testa, con conseguenze molto limitanti per la sua attività (cosa capitata anche a lui).
The Rider approfondisce molto il lato umano mostrando i profondi legami del protagonista con la sorella autistica e con un giovane che in conseguenza di una caduta da cavallo è rimasto gravemente menomato per i danni cerebrali subiti, nonché i più difficili rapporti con il padre e l’infinito amore per i cavalli. Secondo film della regista Chloé Zhao, nata in Cina e poi stabilitasi in USA dopo vari anni di studi a Londra. Anche il suo film d’esordio (Songs My Brothers Taught Me, 2015) era ambientato nel nord degli Stati Uniti, esattamente nella Pine Ridge Indian Reservation in South Dakota, e trattava dei rapporti fra fratello e sorella Lakota (nativi americani). Entrambi hanno ricevuto notevole successo di critica.   
Senz’altro da guardare, ma avrete già capito che a qualcuno potrà sembrare un po’ deprimente.
 
Después de Lucía (Michel Franco, Mex, 2012)
con Tessa Ia, Hernán Mendoza, Gonzalo Vega Jr.
IMDb 7,1 RT 86% Premio Un Certain Regard a Cannes
Questo film abbastanza ben realizzato è uno di quelli che secondo me ricevono buone critiche più l’argomento trattato che per i suoi reali meriti. Partendo dalla perdita della moglie/madre, seguiamo padre e figlia che si trasferiscono da Puerto Vallarta a Città del Messico, lui (chef) va a dirigere la cucina in un buon ristorante del centro, lei va in una scuola superiore frequentata da rampolli della medio-alta borghesia. Dopo un inizio promettente la vita della ragazza si trasforma in un inferno ... e non di dirò di più. Mi sembra che l’attualissimo problema del bullismo scolastico sia stato trattato abbastanza seriamente. Tuttavia, o perché sono troppi gli anni passati da quando ho lasciato la scuola o perché non conosco abbastanza i modi di vita delle nuove generazioni, gli atteggiamenti di tutti (dalla ragazza alle compagne e compagni, dai professori al preside) mi sembrano nel complesso poco credibili ... è possibile che fra tutti i suddetti non ci sia un anello debole che rompa il muro di silenzio e omertà?
Non lo boccio, ma ho molte riserve in merito alla sceneggiatura della quale Michel Franco è responsabile unico. Potrebbe essere interessante guardare qualche altro suo lavoro.

Las hijas de abril (Michel Franco, Mex, 2017)
con Emma Suárez, Ana Valeria Becerril, Enrique Arrizon
IMDb 6,5 RT 60%
Alcuni registi (probabilmente i produttori) hanno corsie preferenziali in determinati festival ... penso che Michel Franco sia uno di questi essendo autore, regista e produttore dei suoi film. Ha scritto, diretto e prodotto i suoi 5 film e quattro di essi sono stati proposti a Cannes, ottenendo 3 premi e altre 4 nomination.
Mi dà l’idea che il giovane messicano deve aver avuto una gioventù traumatizzante seppur in qualche modo piacevole e agiata. I suoi due film che ho visto si sviluppano in ambienti borghesi, in famiglie disgregate senza problemi economici, fra alcol e sesso anche fra minorenni e relative maternità, abbandoni e talvolta violenza. Anche gli altri film tendono al deprimente e ho appena letto questo commento (che condivido) "Franco dovrebbe cambiare registro, sta scendendo sempre più in basso".
In questo film mette insieme una madre (separata) con due figlie (non dello stesso padre) più o meno abbandonate a sé stesse nella villa di famiglia al mare. Aggiungendo padri assolutamente disinteressati della sorte dei figli, una gravidanza, la quasi totale mancanza di senso comune (e in vari casi anche di un minimo di morale) per quasi tutti i protagonisti, egoismo, cinismo e una certa dose di stupidità e non ci si poteva aspettare altro che un risultato scadente.
Tuttavia - misteri delle Giurie dei Festival - ha ottenuto il premio speciale Un Certain Regard a Cannes, dove era stato già premiato nel 2012 per Después de Lucía e nel 2015 per Chronic. In Italia è stato proiettato al Festival di Giffoni ma non ho notizie in merito alla distribuzione.
Onestamente, non ve lo consiglio, anche se non è proprio da buttar via.

domenica 6 settembre 2020

Micro-recensioni 296-300: film di generi vari, quasi tutti eccellenti

Difficile, ma non troppo, metterli in ordine di gradimento. Le mie preferenze vanno senza alcun dubbio ad Apocalypse Now, nella versione Redux, vale a dire quella presentata a Cannes nel 2001, un director’s cut che aggiunge ben 53’ alla versione distribuita nelle sale 22 anni prima, portando la durata a circa 3h15’. Come mio costume, non mi faccio impressionare più di tanto da rating e recensioni e quindi senza pensarci due volte pongo al secondo posto di questo gruppo The Third Man, film rigoroso, con ottima fotografia (Oscar), luci e ombre sensazionali e originali angoli di ripresa, basato su una eccellente sceneggiatura originale di Graham Greene, poi pubblicata anche come romanzo.
Paragonato a questi due film GoodFellas si classifica buon terzo … non è la prima volta che l’ho guardato ma continua a non convincermi e in questo campo resto sostenitore del primo prodotto del genere di Scorsese (Mean Streets, 1973, inizio della fruttuosa collaborazione con Robert DeNiro).
Arsenico e vecchi merletti è commedia brillante (seppur con risvolti dark) conosciutissima anche in Italia, proposta centinaia di volte in tv a beneficio di milioni di spettatori. A prescindere dalla gran qualità degli altri “contendenti”, Murder My Sweet è stato deludente.
 
Apocalypse Now - Redux (Francis Ford Coppola, USA, 1979)
Al 54° della classifica IMDb dei migliori film di sempre * 2 Oscar (fotografia e sonoro) e 6 Nomination (miglior film, regia, sceneggiatura, Robert Duvall non protagonista, scenografia e montaggio.
Sicuro che tutti i cinefili abbiano visto almeno l’originale, ricordo le aggiunte principali della versione Redux, ma sappiate che nel 2019 è stata distribuita un’ulteriore versione accorciata rispetto a questa, indicata come Final cut (3h02’). Il grosso – quasi mezz’ora è rappresentato dall’incontro con una famiglia francese che da decenni conduce una piantagione di caucciù in Cambogia. C’è poca azione ma i dialoghi in merito al colonialismo in Indocina e le relative guerre sono più che interessanti. Una decina di minuti sono invece dedicati all’intrattenimento offerto da Willard all’equipaggio … un paio d’ore in compagnia delle playmate.
Film spettacolare e complesso, curato nei particolari, più che meritevole dei due Oscar, nonostante le oltre 3 ore di durata non ci si annoia di certo.
Imperdibile!

The Third Man (Carol Reed, UK, 1949)
178° nella classifica IMDb * Oscar fotografia, Nomination regia e montaggio
Non penso di essere stato condizionato dal fatto che la sceneggiatura sia del mio autore preferito, la regia è magistrale così come la scelta delle location (la maggior parte effettivamente a Vienna dell’immediato dopoguerra). Una pura curiosità (che non penso sia voluta): in Apocalypse Now il colonello Kurtz (Marlon Brando) è l’obiettivo della missione segreta di Willard (Martin Sheen), in The Third Man il barone Kurtz (Ernst Deutsch, il rabbino di Der Golem, 1920) è socio nei traffici di Harry Lime (Orson Welles).
Ogni commento sarebbe sprecato … da guardare assolutamente; gli appassionati di fotografia b/n probabilmente lo vorranno vedere più di una volta.
  

GoodFellas (Martin Scorsese, USA, 1990)
17° nella classifica IMDb * Oscar Joe Pesci non protagonista, 5 Nomination (film, regia, Lorraine Bracco non protagonista, sceneggiatura e montaggio)
Vale quanto detto per Apocalypse Now, penso che tutti lo conoscano ed ognuno abbia la sua opinione e quindi, dopo quanto scritto nel cappello, non mi addentro in ulteriori commenti, non dovendo convincere nessuno a guardarlo.

Arsenic and Old Lace (Frank Capra, USA, 1944)
Oltre l’ottimo adattamento cinematografico dell’omonima commedia (1941) di Joseph Kesselring e la precisa regia di Frank Capra, no si può fare a meno di lodare l’intero cast, con ogni attore scelto alla perfezione per il suo personaggio; forse il più famoso (Cary Grant) è quello che recita un po’ troppo sopra le righe, ma il resto della famiglia Brewster, i poliziotti, il Dr. Einstein (Peter Lorre), il tassista, il direttore della clinica e altri sono impeccabili.
Consigliato per un paio d’ore di puro svago.

Murder My Sweet (Edward Dmytryk, USA, 1944)
Il personaggio principale è Philip Marlowe, quindi ripeto quanto scrissi un paio di settimane fa in merito a Kiss Me Deadly (Robert Aldrich, USA, 1955). Quando il protagonista è un noto detective si sa che supererà più o meno indenne qualunque prova e qualunque avversità “spesso in modo a dir poco incredibile facendo venire a mancare la vera suspense”.
Noir del quale si può fare a meno.

#cinegiovis #cinema #film

mercoledì 2 settembre 2020

Micro-recensioni 291-295: due commedie sui generis e 3 film di Curtiz

Il pezzo forte di questo gruppo è senz’altro The Sea Wolf, ma anche gli altri 2 diretti da Curtiz (noir classici) sono notevoli. Le due commedie sono interessanti specialmente per i conoscitori e appassionati dei rispettivi settori: il capolavoro di Cervantes e la gastronomia.

  
The Sea Wolf (Michael Curtiz, USA, 1941)
Uno dei personaggi più inquietanti fra i tanti interpretati dall’ottimo Edward G. Robinson, il capitano di un veliero pressoché pirata (ma all’inizio del XX secolo) con parte dell’equipaggio forzatamente tenuto a bordo. Fra il folle e lo psicopatico, a tratti ricorda il capitano Achab (Moby Dick). Tranne le poche scene iniziali, tutto si svolge in mare aperto. Nel cast, che comprende tanti buoni caratteristi, si fanno onore Ida Lupino, John Garfield, Barry Fitzgerald, Alexander Knox e Gene Lockhart.
Consigliato.

Flamingo Road (Michael Curtiz, USA, 1949)
Noir politico, che vede protagonisti la più che combattiva Lane Bellamy, artista di fiera itinerante (Joan Crawford), e il viscido sceriffo Titus Semple, magistralmente interpretato da Sydney Greenstreet. Tutto l’entourage politico che si prepara alle elezioni e i successivi sviluppi sono molto ben descritti e, adattati in tempi e luoghi differenti, sono in ogni momento molto credibili.
Fra i tre, questo ha rating inferiori agli altri due che vantano un identico 7,5 su IMDb e 100% su RottenTomatoes, ma a mio parere non è di molto inferiore, quindi lo consiglio. 

The Breaking Point (Michael Curtiz, USA, 1950)
Terzo recupero della filmografia di Curtiz, si torna in mare e di nuovo lungo le coste del Pacifico, ma stavolta non si tratta di un veliero bensì di una piccola imbarcazione utilizzata per charter, per lo più per la pesca. Ritroviamo John Garfield (appena visto in The Sea Wolf) nei panni del quasi-proprietario della barca (deve finire di pagarla) il quale accetta lavori a dir poco loschi pur di non perderla. Chiaramente si ritroverà in un mare di guai e ci saranno numerosi morti, buoni e cattivi. Ottimo il finale, in particolare l’ultima scena. Sceneggiatura tratta da un racconto di Hemingway!
Consigliato.
 
La grande bouffe (Marco Ferreri, Fra/Ita, 1973)
Famosa commedia drammatica di Ferreri, ancora una volta in collaborazione con Rafael Azcona (scrittore dai testi estremamente graffianti) al quale si era affidato anche per i suoi primi film El pisito (1958) e El cochecito (1960). Cast d’eccezione con primi attori francesi e italiani fra i migliori dell’epoca: Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Philippe Noiret e Ugo Tognazzi. Fu anche la prima apparizione ufficiale della simpatica e abbondante Andréa Ferréol dopo una mezza dozzina di uncredited.
Premio FIPRESCI e Nomination Palma d’Oro a Cannes.
Quattro professionisti (nel film portano i nomi dei propri interpreti), si ritirano in una villa parigina per suicidarsi … mangiando (ovviamente piatti di alta cucina accompagnati da bevande pregiate) e non disdegnando compagnie femminili.
Commedia grottesca unica nel suo genere, da guardare solo se interessati a mangiate pantagrueliche, altri potrebbero disgustarsi …

Don Quijote cabalga de nuevo (Roberto Gavaldón, Spa/Mex, 1973)
L’ho voluto recuperare e guardare nonostante le recensioni non proprio stimolanti … la combinazione di due attori amati e apprezzati nei rispettivi paesi (Messico e Spagna) diretti da un affidabile regista della Epoca de Oro del cinema messicano, negli anni ’50 ogni anno presente a Berlino, Cannes o Venezia, mi aveva incuriosito molto. In effetti il film non è un granché, è molto slegato anche se la sceneggiatura include buone trovate che propongono una possibile diversa lettura delle deliranti azioni di Don Chisciotte (Fernando Fernán Gómez) e Sancho Panza (Cantinflas). Si lascia guardare solo per curiosità, se si conoscono personaggi e attori.

#cinegiovis #cinema #film