The Color of Pomegranates - Sayat Nova
(Sergei Parajanov, URSS, 1969)
Per questo gruppo, mi riferisco in particolare a Sergei Parajanov, regista sovietico (di origine armena, nato in Georgia, lavorò in Ucraina) di gran livello artistico, ma ostacolato, boicottato e anche imprigionato dal regime. Fu grande amico di Tarkovsky con il quale condivideva molte idee in contrasto con lo stile realistico, all’epoca quasi imposto dai censori. Sayat Nova fu un famoso poeta-musicista-trovatore georgiano del XVIII secolo ed il film segue vagamente gli eventi principali della sua vita. Non essendo stato approvato dalla censura per non essere una biografia fedele, il titolo fu cambiato in The Color of Pomegranates (Il colore del melograno).
In effetti si tratta di un’opera nella quale si miscelano il surrealismo e lo sperimentale, in quanto è costituita da una serie di inquadrature fisse nelle quali appaiono attori (fra i quali Sofiko Chiaureli, la sua musa, che interpreta 6 personaggi diversi, di entrambe i sessi), numerosi animali e tanti simboli, per lo più religiosi. Girato in vari siti storici armeni, fra i quali molti edifici religiosi quasi in rovina, non include dialoghi, ma solo pochi versi recitati. Pur essendo affascinante anche a prima vista, si può essere certi che la conoscenza della liturgia e delle tradizioni armene faciliterebbe la comprensione delle immagini.
Per dare un’idea del film, ecco un breve trailer:
Taste of Cherry (Abbas Kiarostami, Iran, 1997)
The Wind Will Carry Us (Abbas Kiarostami, Iran, 1999)
In Taste of Cherry il protagonista, a bordo del suo fuoristrada, si aggira alla ricerca di una persona che lo seppellisca visto che è sua intenzione suicidarsi in aperta campagna. Incontrerà varie persone di origini, età e professioni diverse ed ognuno gli offrirà la propria visione della vita … a seconda dei casi poetica, religiosa, di buon senso.
Palma d’Oro a Cannes, per Cahiers du Cinéma fu il sesto miglior film dell’anno.
The Wind Will Carry Us è molto più vario e movimentato ed è incentrato su un’altra storia al limite del surreale, con un giornalista che, spacciandosi per un ingegnere accompagnato da alcuni colleghi (che non si vedranno mai), con la scusa di un fantomatico lavoro va in un piccolo villaggio del Kurdistan a documentare la morte di un’anziana. Tuttavia, questa tarda a morire e il giornalista ha occasione di incontrare tanti personaggi peculiari, giovani e anziani, donne, uomini e bambini e con ognuno ha modo di discutere. In particolare, stringerà amicizia con il ragazzino che al suo arrivo lo attendeva all’ingresso del villaggio e che successivamente gli fa da guida.
Per Cahiers du Cinéma fu il secondo miglior film dell’anno, a Venezia ottenne 3 Premi e Nomination Leone d’Oro.
Completano la cinquina due film anglofoni di metà secolo scorso, entrambi di più che buona qualità.
A Hatful of Rain (Fred Zinneman, USA, 1957)
Tratto da un lavoro teatrale di successo che nel 1955 debuttò a Broadway interpretato da Shelley Winters e Ben Gazzara, poi sostituito da Anthony Franciosa che, per la sua interpretazione in questo film ottenne la Nomination come miglior protagonista. Pur soffrendo un po’ della sua sceneggiatura palesemente teatrale, è senz’altro un ottimo film sia per la qualità delle prestazioni degli attori (tutti …) sia per il soggetto che oltretutto all’epoca era quasi tabù: la dipendenza dalla droga.
They Made Me a Fugitive (Alberto Cavalcanti, UK, 1947)
Uno dei tanti onesti noir inglesi che senz’altro avrebbero avuto maggior successo e notorietà se fossero stati prodotti dall’altro lato dell’oceano. La storia non è del tutto banale, le interpretazioni sono buone, trovo però che gli eventi finali siano mal proposti, con scontri molto mal rappresentati. Comunque una piacevole visione.
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